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domenica 22 dicembre 2019

Racconto della vigilia

    Giulia, Tonino e la panchina.
       Peppe Stamegna

   Questo porto non lo sopporto più. Vedo sempre le solite quattro barche vecchie con la ruggine che scende dai lati, con tutte quelle cime pelose che pendono e puzzano solo a guardarle, così come quel chioschetto infimo laggiù a sinistra, poco prima della pompa di benzina mezza abbandonata: i proprietari devono ringraziare i quattro pescatori puzzolenti se riescono a tenerlo in vita coi loro caffè corretti.
A Maria l’avevo detto: resto un paio d’anni, giusto il tempo di far innamorare bene bene Guido e poi scappo via con lui verso Bologna o Roma, o chissà dove.
Proprio così le dissi quella sera che decisi di restare a vivere qui. Si stava tutti insieme spensierati su quella terrazza poco illuminata e piena di uomini con camicie bianche sbottonate e donne con vestitini sgargianti e sorrisi generosi, si beveva vino bianco e si rideva uno dentro la faccia dell’altro. Era estate, e davanti c’era tanto mare. Ero convinta che la mia vita avesse incrociato la fortuna di ritrovarsi insieme a persone belle, e un po’ strambe: questa scena della terrazza rappresenta bene come sognavo da ragazza la mia vita futura. Così desideravo immaginarmi da grande. Ma sognavo nel sogno. Ora eccomi qui sopra a questa terrazza maiolicata di blu e ben illuminata, con il grembiule nero fino alle ginocchia e gli occhi neri di matita che intimidiscono sempre un po’ gli uomini. Uso scarpe comode per correre svelta da un tavolo all’altro, dal martedì alla domenica, estate e inverno. Sempre qui. Mi rilasso un po’ la mattina al risveglio, sempre sul tardi, quando il sole già picchia e lascia poca aria in giro. Faccio colazione al bar di Maria; a lei sto raccontando i miei tormenti penosi di femmina. Con i colleghi c’è poco da fidarsi. Provano ogni giorno a sedurmi con racconti di vite mai vissute interamente da loro, o con quei loro slanci fatti di battute e sguardi per conquistarmi: cercando invano di scacciare la mia vecchia alleata apatia sociale. Tanto alla fine i loro poveri sogni di gloria si vanno sempre a nascondere nella federa del loro morbido cuscino di mammà, ancora prima dell’alba, quando con facce da bimbi provano a smarcarsi, almeno nei sogni, da mamme gigantesche: donne poco truccate, con il Tavor sempre in borsa. Figurati. Stavo, e sto qui, in questa cittadina salata e senza futuro, solo per l’ultima speranza di rivedere Guido e la sua pittura divina. Loro lo sanno, ma, poveracci, si mettono a competere anche contro il suo fantasma, pur di provarci con me, femmina da conquistare, secondo l’opinione di questi zoticoni di mare. Nei miei occhi neri invece lascio entrare volentieri i pescherecci che nel pomeriggio arrivano con le loro reti umide appese e piene di fravaglia, come i pescatori chiamano quei pesciolini senza qualità, e quindi senza commercio: come vedo io i miei colleghi camerieri. Valgono poco davanti all’eleganza di Guido, figuriamoci davanti alla sua pittura. Lui sa esprimersi con uno stile asciutto ma espressivo, così si distingue senza spocchia dalla moltitudine di pittoretti che sono in circolazione in questi anni barbarici. Così diceva quel critico di Firenze sul catalogo un po’ informale della sua ultima mostra. Maledetto lo stile e la mia ostinazione a volerlo bere come fosse limonata fresca. Speravo di baciare Guido tutte le mattine, per prendermi il suo stile, la sua unicità. Farmi contagiare ogni santo giorno come una santa col suo oppresso. Che scema, la solita scema ragazzina di trent’anni che beve cose di cui non conosce gli effetti né tanto meno il sapore vero, crudo e terribile della realtà che si appiccica ai nostri corpi. Niente, non capisco proprio niente, sarà la tara di famiglia.
Ecco questo golfo che diventa ogni giorno sempre più piccolo, con queste sue casette colorate una diversa dall’altra che tempo fa sognavo di abitare: qui avrei potuto scrivere pure un’altra Guerra e pace a puntate per il giornale locale, se solo avessi avuto la costanza di amare Guido. Lui amava il mare soprattutto d’inverno, ché d’estate scappava in Grecia, da quei suoi amici pittori squattrinati che stimava più d’ogni altra cosa. Di me, sicuramente. In fondo mi considerava una ragazza pigra e viziata da una famiglia di strambi, come mi disse quella volta durante una litigata. Ecco, credo sia questa la natura del suo rifiuto: scarsa considerazione di me, e del nostro futuro insieme. Anche se so di non avere prove al riguardo, Maria, dimmi tu allora perché mi ha poi evitato in tutti questi atroci e lunghi anni di separazione? 
“In realtà non gl’hai mai fatto capire veramente che lo rivolevi così tanto. Allora lui ha fatto quello che avrebbe fatto chiunque: i fatti suoi. Che sono scelte, occasioni da cogliere, umani desideri, o no?”
“Maria, ma tu fai davvero? Stavo sempre con gli occhi addosso a lui, alle sue mani, al suo corpo”
“Appunto! Cose vere solo per te, Giulia cara; tu hai fatto poco per prendertelo davvero.”

   Forse ha ragione Maria: ho sempre aspettato che le cose accadessero solo per la maniera con cui le guardavo e desideravo. La realtà ha vinto. Ora faccio la cameriera per quaranta euro a sera e aspetto il lunedì per scappare a Roma con la pazza speranza di incontrarlo. Frequento tutte le mostre o eventi culturali che propone la città, e dove possa esserci lui con la sua faccia un po’ triste a illuminare il mondo. E me.
“Giulia! Una margherita al tavolo uno. Su, sbrigati”.
In questa pizzeria tutto è povero, ovvio e senza futuro. Vedi scorrere la felicità insieme alle pizze, che poi si ferma lì quella felicità momentanea, su quella pizza farcita sempre più in maniera esagerata: una volta c’era la capricciosa a fare la differenza, e poteva bastare. Poi guardo i clienti e capisco che la volgarità si sta mangiando il gusto, lo stile con cui avevamo fatto un patto, silenzioso, tra cittadini circondati da tanta bellezza e il resto del mondo. 
Dentro questa pizzeria io adoro soltanto la storia di Kaled. L’altro pomeriggio sono stata a casa sua. L’avevo accompagnato a casa per via dell’acquazzone improvviso, e che andasse via in bicicletta con quelle ruote così piccole per le sue gambe, non mi andava giù. Allora mi sono fatta coraggio e ho messo da parte quel pudore che aleggia spesso tra me e lui, tra me e la sua cultura araba. Prima del caffè mi ha fatto assaggiare una sfilza di cose buone: dolci arabi, cocomero e gelato. Il caffè l’ha preparato la moglie, il figlio grande ha tagliato il cocomero, e il secondo ha servito i dolci. Gli altri due, tre e cinque anni, mi fissavano con due olive nere al posto degli occhi. Erano una famiglia, e condividevano così bene tutto quel poco.

Durante la notte, aiutata da una digestione lenta anche per tutto quel miele nei dolci arabi, ho sognato Adim. Da quella volta che l’ho investito su quella strada stretta di curve e vedute. Con quel potenziale omicida che erano le mie notti a base di alcol e cocaina, insomma, da quella volta ogni tanto mi torna in sonno a trovare: ha sempre il braccio ingessato e continua a venirmi a trovare con questa infermità, nonostante siano passati due anni da quell’incidente. Ora ha vent’anni, e sicuramente sarà tornato a lavorare ai mercati, con le sue braccia muscolose e veloci pronte a scaricare camion interi di frutta e verdure. Questa notte mi ha dato un bacio. Aveva lo stesso sapore di quelli che ricevevo nell’adolescenza. E mi sono svegliata di colpo in piena notte, poi ho bevuto un bicchiere d’acqua, ho preso due pasticche di valeriana e ho controllato le mail. Non si sa mai, che dall’etere arrivi qualche soffiata sulla mia disponibilità ad amare di nuovo.

    Domani andrò a trovare papà in clinica. Domani gli dirò che deve trasferirsi da me. Non ha senso che continui a stare lì dentro, circondato da persone assurde. Lui sta bene oramai. E in fondo poi io, diciamolo una volta per tutte, non ho più speranze che Guido ritorni da me. È stata un’illusione che mi sono trascinata appresso anche per scacciare la decisione di ospitare papà a casa da me. Ancora mi spaventa l’idea, lo so, ma non posso più aspettare: lui invecchia e le nostre angosce si gonfiano sempre di più, dentro i nostri esili petti.
Domani all’alba vado e glielo dico subito, appena lo vedo. Altrimenti la sua tenerezza mi blocca come sempre, e poi comincia a raccontarmi di Tonino e delle sue smanie di conservare le vite degli altri nella testa: non sopporto più questo dipendere dalle scelte degli altri. Basta, papà deve venire a vivere con me, e non voglio sentire altre storie: questo devo dirgli con gli occhi più decisi del mondo. 

Tonino
    A quindici anni volevo scrivere un libro, avevo pure il titolo pronto: I contrasti nell’era della pop art. Un titolo strambo adatto a un tipo strambo, com’ero io allora. Stavo sempre a pensare a ‘sto libro: la notte mi svegliavo e lo vedevo sul comodino, ancora vuoto di parole. Già, quelle non venivano mai quando le chiamavo: invece arrivavano parole pesanti piene di tristezza, ma soprattutto arrivavano nella controra, quando non le cercavo. Questo lo so oggi, ché allora mi parevano pure belle e importanti, le parole, quelle che mi capitavano tra la testa e le mani. Necessarie, pensavo. Macché. Erano solo ferri arrugginiti da lunghi inverni di lacrime, quelle sì necessarie. Mio zio mi cazziava quando non lo aiutavo, e la moglie, che non riesco neppure a chiamare zia, quando era nervosa, mi chiudeva nella cantina per interi pomeriggi. Lì mi facevo le pippe, e cos’altro potevo fare? Sì, anche al libro pensavo, ma come facevo a scriverlo? In realtà mi frullava tutto nel cervello, mi sarebbe bastato trovare un contenitore robusto dove versare il tutto. Ora devo ammetterlo, allora era più semplice pensare tutto il tempo alle cosce di Mariella, che a scrivere qualcosa di buono. Questo libro però un giorno improvvisamente ha visto la luce: una decina di pagine sgrammaticate che facevano apparire la mia realtà spaccata in due come un cocomero, come quelli che spaccava mio zio la domenica. I buoni e i cattivi, le femmine e i maschi. I miei zii e la mia rabbia. Ma comunque mi piaceva, ne ero soddisfatto e confidavo nella giustizia divina per la sua imminente diffusione; sì, allora avevo questo tipo di pretese: sei buono? Avrai la ricompensa. E io l’aspettavo tutte le sere la ricompensa, sdraiato sul materasso di lana aspettavo una ricompensa come fosse l’apparizione della Madonna. Invece arrivava Mariella, che mi sorrideva serena. Mi addormentavo, e ci mettevamo a fare bagordi insieme tra nuvole e tappeti. La mattina poi, prima del mezzo bicchiere di latte che la moglie di mio zio mi sbatteva sul tavolo di marmo all’aperto sotto il porticato, sennò sporcavo in cucina, come diceva zia. Insomma, all’alba scappava via Mariella, e a volte avevo proprio l’impressione di vederla con le sue gonne da zingara che si gonfiavano e sgonfiavano in lontananza, sulla strada poderale. Macché, erano solo cazzate di sogni che mi servivano per caricarmi: per riuscire ad andare a raccogliere i cocomeri dentro al caldo infernale del campo, alle dipendenze ringhiose di mio zio adottivo. Ma questo lo so soltanto oggi, prima, allora, tutto era fluido e vero. Pure Mariella. 

  Così oggi mi ritrovo a fare questo lavoro che non tutti capiscono fino in fondo. Alcuni lo fanno facendo i cattivi, con atteggiamenti un po’ da delinquenti, oppure stanno sulla difensiva tutti i santi giorni. Perché è un lavoro duro tra persone imprevedibili, problematiche e a volte aggressive. A me basta sorridere un po’ alle persone che incontro nelle stanze o nei corridoi, poi bere caffè alla macchinetta con Giovanna, e ogni tanto chiacchierare con il professore d’italiano in pensione. Aspettare il ventisette per pagare l’affitto e la rata della macchina. Il resto del tempo, quello che mi avanza dalla clinica “Quiete serena”, lo impiego a leggere tutto quello che c’è da leggere sugli anni settanta in Italia. Qualche volta, quando si tratta di musica e movimenti giovanili, mi sposto anche verso le cose estere con la lettura. Ho una cantina piena piena di riviste e libri, dischi e articoli ingialliti. 
Ogni tanto vedo Giovanna, quando non deve assistere sua zia malata, e allora andiamo al cinema e poi scopiamo a casa mia. Non succede nulla d’importante prima né dopo averlo fatto, ma durante stiamo da dio. Siamo tutti e due single. Lei, a dire il vero, ha un altro amante: occasionalmente la passa a trovare un camionista del suo paese d’origine. Stanno insieme una notte. Poi lui la saluta con le lacrime agli occhi, lasciandole tra le mani un pacco di biscotti al cacao fatti dal forno del paese d’origine. Poi seguono settimane di silenzio. Nel frattempo lei viene al cinema con me. Ci sono dei periodi che non la voglio vedere. In quei giorni voglio solo pensare al passato, agli anni settanta. Vedo solo film dell’epoca e, se fosse possibile, uscirei solo con donne degli anni settanta. Dicono che sono un po’ monotono. In realtà lo dice solo Giovanna, che per me equivale a tante persone, perché ho pochissimi amici. Un tempo ne avevo a bizzeffe, e facevo con loro un sacco di cazzate. Un giorno poi ognuno di noi ha trovato il lavoro e allora ci siamo scordati di fare cazzate. A dire il vero all’inizio, durante qualche sabato sera, le facevamo lo stesso le cazzate, ma non erano più le cazzate di una volta. Quando non penso agli anni settanta, penso ai pazienti che vedo tutti i giorni. Molti di loro hanno vissuto il meglio della loro vita proprio in quegli anni, e quindi gli faccio le domande di questo genere: “avvertivi che stava cambiando tutto in quegli anni?”. Spesso mi ridono in faccia; qualcuno tenta di abbozzare un discorso articolato ma non ce la fanno, i farmaci vincono sulla loro lucidità, e alla loro memoria restano frasi mozzate che sanno di poco. Solo il professore parla in maniera impeccabile, fino a farmi vere e proprie lezioni. Ogni tanto si ferma su qualche autore o fatto anche per più giorni, che sono costretto a prendere appunti. In cambio vuole un po’ di vino rosso di sottobanco. Quando beve racconta pure meglio, e io ascolto con più piacere. Insomma, se non l’avete capito, io, una volta che faccio quello che mi chiede il responsabile della clinica, assistere e imbottire di psicofarmaci i pazienti, poi non mi resta che chiacchierare con alcuni di loro. Un giorno il professore ha sforato negli anni ottanta e l’ho dovuto bloccare, stava diventando irritante in quell’uscio di anni opulenti e chiassosi di niente. Così, dopo che l’ho minacciato di non dargli il Chianti già comprato, è ripartito dalla battaglia per il divorzio senza fare una piega.

Giovanna non vuole che le dica frasi di circostanza dopo che abbiamo scopato. Dice che deve sentire i suoni. Non oso chiederle cosa siano i suoni, poiché lei non osa chiedermi perché mi sono accanito tanto con gli anni settanta. È un patto. A noi piace stare ognuno nelle proprie cose. Poi un giorno tutto finirà, e ognuno di noi dichiarerà tregua al mondo e farà qualcosa di meglio. Oggi ancora non è così, poiché non è ancora arrivato il momento giusto per fare di meglio.



Sulla panchina

    Sbuffo il fumo della sigaretta che mi ha lasciato Tonino a fine turno. Nel farlo, mentre vedo questi pini giganteschi davanti ai miei occhi, penso al viale di platani che mi conduceva a scuola da piccolo. E quegli alberi erano i miei baobab. Penso a mia madre che mi accompagnava con quell’aria sognante. Assente, a volte. Io ero contento e mi divertivo a scivolare ai lati dei gradini sul liscio di marmo levigato da mille sederi come i miei, o a scambiare le figurine con i compagni, poco prima che la campanella scolastica anticipasse i rintocchi del campanile comunale. La sfida a questo punto era tra il bidello e il messo comunale, quest’ultimo più statale dell’altro nell'essere calmo di burocrazia.

Tonino quando ha finito di sbrigare con le terapie e i vari giri nei reparti per verificare se ce ne stiamo tutti tranquilli, spesso gli rimane un po’ di libertà che spende ad ascoltarmi. Siccome sono stato professore d’italiano, e appassionato di storia contemporanea, lui vuole sapere da me quello che è successo davvero negli anni settanta, soprattutto in Italia. Dice che in quegli anni lì, terribili e creativi, si è trasformato tutto. Poi mi suggerisce che bisogna analizzare  a fondo tutte le questioni che sono state affrontate in quegli anni di fermenti e cambiamenti sociali epocali. Un po’ credo che abbia  ragione, e così ci mettiamo a fare queste chiacchierate storiche con l’intento di capirci qualcosa in più entrambi. A me piace farlo, mi tiene vivo dentro questo pre-obitorio fatto di zombie coi camici  e sciroccati vestiti malissimo. Anche se ci sono dentro anch’io in questa moltitudine umana barcollante di anime che ancora cercano qualcosa, tra gli infiniti viali e i bui corridoi, ma io almeno la mattina mi scelgo la camicia da mettere.

 Tonino mi chiama sempre professore, e questo mi lusinga un po’. L’ho fatto per dieci anni in una scuola privata, e fu un’occasione d’oro dopo altri dieci di gavetta tra i mille istituti della città, e doposcuola vari. Così un giorno a un convegno sulla “Didattica come strumento di emancipazione”, conosco Piero, il direttore della scuola “Socrate”, e facciamo una bella chiacchierata, sull’importanza degli studi per trasformare la propria vita in meglio. La chiacchierata è durata un intero pomeriggio al tavolino del chioschetto di viale Ippocrate. A settembre stavo già nel suo istituto a insegnare Italiano e Storia a ragazzetti un po’ viziati, un po’ ambiziosi, un po’ coglioni. Anzi, a dire il vero, ambiziosi lo erano soprattutto i loro genitori poiché credevano, iscrivendoli da noi, che poi avrebbero disegnato un percorso scolastico su misura per i loro figli d’allevamento. Illusi anche loro.

Tonino non si stanca mai di ascoltarmi e a volte resta anche oltre il proprio turno di lavoro, e questo accade quando c’è ancora da discutere sull’argomento iniziato e che non si può rimandare al suo prossimo turno, poiché si spezzerebbe il filo. L’incanto. Affrontiamo scientificamente ogni segmento di quegli anni, perché vogliamo costruire un atlante per le nuove generazioni. Questo lo dice Tonino che pensa di ricavarne qualcosa da queste discussioni, lezioni direbbe lui, poiché crede sia importante approfondire la conoscenza dei fatti che hanno caratterizzato gli anni settanta,  per riuscire ad orientare meglio nel mondo le nuove generazioni. Lui ci crede. Io invece, quando parlo con lui, passo il tempo nei migliori dei modi possibili qui dentro, e con una limonata fresca davanti in estate, o un orzo bollente d’inverno, è il massimo di quello che posso aspettarmi da questo posto. Allo spaccio-bar gestito dai pazienti le opzioni di acquisto sono poche. Io mi arrangio anche lì, tanto resistere per me significa soprattutto poter mettere tutti i giorni un vestito diverso, elegante, così da mantenere vivo lo stile nel tempo che mi rimane. A me è sempre piaciuto lo stile, pur dentro il peggio delle umane possibilità.

Esco poco dalla clinica. Anche se non ho limiti alle uscite, preferisco stare dentro. La mattina esco soltanto per comprare le sigarette, poi mangio una ciambella e bevo un caffè, mi leggo tutti i quotidiani del bar, e basta. Un tempo uscivo più spesso e anche per l’intera giornata, lo facevo anche per smaltire tutta l’inquietudine che producevano i miei tanti pensieri inquieti. Mi capitava di uscire in compagnia di Rosetta, un’assistente sociale che avevo conosciuto durante l’anno che aveva lavorato da noi. Con lei passavo giornate in giro con la sua auto a parlare e ridere di quello che eravamo stati. Si andava anche nei mercatini o nelle librerie. Qualche volta pure al cinema. Poi, scansato il pudore delle differenze di status, ci rotolavamo sul suo letto a due piazze. Lei viveva da sola e quel letto accoglieva pure qualche altro ragazzo occasionalmente. Così mi diceva. Non vedo più Rosetta dal giorno che mi ha raccontato cose troppo tristi sulla sua famiglia: non ce la facevo più, visto che con lei uscivo sicuro di trovare un’oasi femminile dopo le giornate vuote e maschili della clinica. Qualche anno fa mi ha scritto una bella lettera. Spiegava con delicatezza che forse è stato meglio così per noi due, cioè, dichiarava pure che con me è stata una cosa speciale, ma, a pensarci bene, sarebbe stato difficile proseguire. Si era fidanzata. Bastavano queste due parole ed io avrei capito lo stesso, invece, col gusto delle complicazioni, mi aveva fatto una disanima un po’ professionale e un po’ da ex fidanzata sulla nostra stramba relazione. Che poi non era così stabile, infatti nessuno di noi due pensava di essere fidanzato. Dopo di lei ho smesso di uscire in quel modo. Solo piccoli gesti quotidiani che mi aiutano a non smettere di conservare dignitose abitudini, soprattutto la mattina, prima che arrivi l’assistente con i suoi modi brutali a servirci la colazione e ribadirci rozzamente la nostra misera condizione. Io prendo solo i biscotti e m’incammino verso il bar.


Ho avuto anche una moglie, certo. E pure due figli. Sono stato un discreto padre di famiglia, e un decente marito. Ma che fatica. Amavo mia moglie, e i suoi modi dolci e accoglienti. E le sue intuizioni fulminanti.  Un po’ meno amavo le sue pretese di vedermi normale. Ogni volta che avevo una crisi, e ne avevo una ogni tre o quattro anni, mi diceva che la dovevo smettere di fare il ragazzino. Come se dipendesse da me, le suggerivo con quel tono di voce spietato e senza convinzione che tiravo fuori in quei momenti di crisi. Aveva ragione, ora lo so. All’epoca ero avvolto in una nebbia sentimentale che mi faceva sentire bene sempre nel torto, quindi nel giusto: osservavo la mia situazione dal punto di vista del fallito senza futuro che mi ricucivo addosso. Invece, m’impegnavo pure coi ragazzi a scuola,  producendo anche buoni risultati. Ricordo che mi ero inventato un concorso per racconti brevi, rivolto ai ragazzi degli Istituti che gestivamo. Organizzavo con piacere ogni anno gite che per metà erano culturali e per l’altra metà puro divertimento. Per tutti. Vero pure che ogni tanto mi fissavo per certe situazioni ipocrite che si generavano nelle relazioni tra colleghi, ma durava solo qualche mese. E poi sfumava, questo almeno era come lo percepivo io. La scuola, con i suoi cicli di studi, mi dava la possibilità di cambiare ogni tanto le facce con cui avevo a che fare, colleghi inclusi. Avevo tre sedi, quindi avevo anche la possibilità di girarmele tutte e tre. Questo avveniva quando andavo in crisi, e uscirne significava cambiare aria. Devo ammettere che mi sono preso diversi periodi di aspettativa, oltre a riduzioni degli orari, e tante altre scappatoie per non scoppiare del tutto. Ma la mia ex moglie non sopportava più questo stato di cose. Voleva tranquillità esistenziale e serenità familiare. Mica aveva torto.

I miei figli chissà cosa pensano di me ora, dopo che per anni abbiamo condiviso casa e abitudini, fino alla loro adolescenza. Poi il crollo. La clinica. La separazione. Sto sragionando aspettando l’incontro con mia figlia, vorrei mettere in ordine il caos del mio passato, così per ripulire quei pensieri appiccicosi che da sempre mi perseguitano. Lo faccio sempre per esorcizzare il mio passato strambo, per sembrare migliore agli occhi di Giulia. No, è inutile far finta di essere normali, ché poi lei s’innervosisce quando lo percepisce. Ogni due o tre mesi passa a trovarmi. Mangiamo nella trattoria in collina, lontani dall’opprimente perimetro immenso della clinica. Parliamo un po’, o meglio, sono io che le faccio mille domande. Ricevo un paio di risposte lunghe, esaurienti ma articolate, in cui ci infila pure notizie della madre: le vanno bene le cose con Claudio. Ma di solito poi aggiunge frasi così: anche se secondo me la malinconia se la sta divorando in silenzio. Poi mi dà qualche informazione sul fratello che insegna a Mantova: vedessi come crescono le figlie. Mio figlio lo vedo solo a Natale e in estate, pochi giorni insieme per sconfiggere la paura dell’addio. Porta pure le figliolette, che oramai mi vedono solo come un nonno misterioso da temere cautamente.

Quando mancano pochi giorni dall’arrivo di mia figlia, comincio ad agitarmi già dal mattino. Parlo troppo, perdo un po’ quello stile riflessivo che mi crea una certa riverenza da parte degli altri qui dentro. In fondo questa calma artificiale, fatta di pasticche e riflessioni astratte con Tonino, mi fa stare bene ma, appena compare la realtà, la mia vecchia realtà che bussa al portone della clinica, allora mi tira fuori un’ansia urbana e passata, mai del tutto addomesticata.
Durante il primo anno in clinica non ho visto nessuno. Dico dei parenti o amici. Nessuno. Ero agitato e quando esageravo, magari urlando contro un altro paziente insolente o mi rifiutavo di prendere la terapia, gli infermieri mi sedavano nella maniera antica: botte. Lì per lì non soffrivo tanto, ché un po’ me le cercavo visto che per capricci esistenziali avevo mollato tutto per farmi condurre qua. Così, una ramanzina energica ci stava tutta, ammettevo in silenzio.   Ma poi, nei giorni successivi, quando i lividi diventavano neri, cominciavo a intristirmi. Allora chiamavo mia moglie, allora ancora non eravamo separati, magari alle sei del mattino e le urlavo che era una stronza, per niente umana, una carogna. E lei rincarava la rabbia dicendomi che non avevo combinato nulla nella vita e ora era giusto che stessi lì. Lo pensavo anch’io che fosse giusto stare qui, visto che là non avevo combinato granché. Quello che mi faceva piangere, non al telefono, ma dopo nel corridoio della mensa, era sentirmi dire “e i ragazzi non te li faccio vedere perché sei pazzo”. Ecco, questo non me lo meritavo. Adoravo i miei figli, e non potevo sopportare la loro lontananza. Almeno all’epoca. Di fatto, tra insulti, botte, mie agitazioni, non ho visto nessuno per quasi un anno. Poi sono cambiato. Sono diventato un paziente modello, a detta del dottore. Mi ero adattato bene, come sempre nella mia vita. Quando si tratta di sopravvivenza tiro fuori una forza oscura e funzionale.


Domani arriva mia figlia. Spero mi porti il libro che le avevo chiesto. Tutto questo pensare mi ha stremato, nemmeno la discussione sullo statuto dei lavoratori con Tonino mi aveva procurato tanta fatica. Una fatica dolce, una stanchezza che sa di cose belle dentro i fatti brutti. Panna e puzza di ferro bruciato nello stesso istante che ti avvolgono e stordiscono un po’. Ho sonno. Vado a sdraiarmi sulla solita panchina accanto al vecchio pollaio. Oggi Tonino è di riposo, andrà al cinema con Giovanna. Dormo un po’, prima che arrivi l’ora della cena. Prima che i pensieri divorino il ricordo di certe faccine che mi faceva mia figlia piccola, al parco, davanti alla fontana con quegli schizzi improvvisi. Quanto era tenera Giulia davanti a quell’acqua gioiosa che s’infrangeva arresa al vetro della Nikon, poco prima dello scatto. Poco prima del crollo. Poco prima.


“Ciao papà. Scusa il ritardo ma ‘sti treni sono sempre più lenti”.

“Non ti preoccupare. Vuoi un po’ d’acqua fresca?”

“Sì, grazie. Papà voglio farti subito una proposta: vieni a vivere a casa mia”.

“Ma stai scherzando? Vero?”

“No, ci penso da tempo. Cosa resti a fare qui? Non sei più giovane. Starai da me. Tanto col lavoro che faccio a casa ci sto solo la notte e un po’ la mattina. Faremo colazione insieme. Poi le giornate le passerai in giro per il paese. Al mercato del pesce. Oppure in casa a leggere i tuoi libri. No?”

“Giulia… a me non dispiacerebbe, ma come faccio… devo finire di raccontare la storia a Tonino”.

“Lo chiami al telefono, o lo puoi invitare di tanto in tanto a venire al paese. Papà, ora non puoi pensare a Tonino”.

“Non posso lasciarlo senza aver terminato la storia, lui ne ha bisogno”.

“Assurdo, assurdo. Ma come fai a pensare a queste cose? Boh!”.

“Sono contento che tu mi voglia vedere in giro per il paese, è bella come immagine, ci starei bene dentro. Però, capiscimi, sono quindici anni che sto qui e avrei bisogno di un po’ di tempo per disabituarmi. Mica posso uscire oggi all’improvviso. Dammi un po’ di tempo. Magari in autunno ti raggiungo”.

“In autunno! In autunno, perché? Hai sempre bisogno di tempo per te. Vero? Alla fine hai usato sempre la maniera più comoda di prendere tempo davanti a una scelta. Che però non hai fatto mai, vero? Ora è Tonino con le sue ossessioni a farti rallentare. Non può Tonino condizionarti così. Papà, pensaci bene, è un’occasione per ripartire con più dignità. In fondo, fare colazione assieme è stata tra le cose più belle che abbiamo fatto in passato”.


Giulia come sempre mi ha scosso col suo temperamento pieno di rabbia e desiderio. Mi spaventa l’idea di diventare un peso. E poi quanto potrà durare? Qui poi non mi riprendono più, che ti credi. Qui ho il posto fisso, sto meglio degli statali, e Tonino si sarebbe fatto una risata a questa mia battutaccia. E pure Giulia. Nei prossimi giorni nella testa di Giulia sarò mischiato al rancore e alla speranza. Io vorrei mescolare saggezza e dolcezza per una notte intera e poi decidere. Ma non ce la faccio. Non decido da quindici anni. Dovrebbero farmi un TSO al contrario. Un’ambulanza a sirene spiegate che mi sbatta dentro casa di mia figlia. Con le comari fuori a bisbigliare sbigottite. E poi? Niente, mi sa che finirò di raccontare a Tonino gli anni settanta. Dopo, nei giorni seguenti, scriverò una cosa carina e significativa a tutte le persone a cui voglio bene qui dentro; solo allora me ne starò ancora qualche giorno su quella panchina vicina al vecchio pollaio a decidere sul da farsi: alle cuffie avrò a tutto volume le canzoni di Modugno a sostenermi per l’impresa. E' il massimo che io possa fare per te. Credimi.

Al mare
  Alla fine ci vado al mare. Il professore sono mesi che me lo chiede. Finora ho sempre messo la scusa del troppo lavoro o del cinemino insieme a Giovanna, ma in realtà ero preoccupato per Giulia. Non volevo disturbarli, ché sapevo della sua gelosia per il nostro parlare all’infinito, così non volevo intromettermi tra di loro. Il professore non sta benissimo, mica per la figlia, no, è che non riesce a riabituarsi alla vita in una casa normale. In clinica aveva le sue abitudini, aveva i tempi scanditi, aveva me. A me il professore manca tanto, eppure quando lo immagino accanto alla figlia sono davvero contento per la scelta che ha fatto: la sua sensibilità se lo merita. Giulia è stata coraggiosa a invitarlo a vivere con lei, nonostante la sua infelicità amorosa che la fa vivere a metà. In fondo bastano due ore di viaggio e sono da loro. Questo treno mi fa pensare a tanti altri viaggi fatti da piccolo, ché mio padre quando è scappato di casa, dopo che ha massacrato la vita a mia madre nei dieci anni di matrimonio, si stabilì a Civitavecchia e io e mia sorella una domenica al mese ci toccava raggiungerlo per pranzare con lui. Pranzi in trattorie unte già all’ingresso. Si stava in silenzio. Le poche parole erano rotte da altre parole che bloccavano ogni emozione. Questo me l’ha scritto mia sorella anni dopo, perché lei ha saputo uscirne meglio di me da quel periodo, laureandosi in filosofia, e scappando in America. Questo treno invece è allegro perché mi sta portando dal mio amico professore. Queste cose brutte della mia infanzia non gliel’ho mai raccontate, forse un giorno lo farò, se cominciamo a vederci più spesso prima o poi ci scappa che gli parli anche di queste cose. Ma ho paura, che tutto finisca, poiché per lui oramai sono quello degli anni settanta, ma questo lo penso io, che alla mia età ho ancora tanto paura del giudizio degli altri. Devo riuscire a usare parole che sanno di vita mia alle persone a cui voglio bene. In questi mesi abbiamo provato a scriverci messaggi, ma non era la stessa cosa: dovevo sentire la sua voce, i suoi silenzi tra un periodo e l’altro. Comunque la sua voce telefonica non mi bastava lo stesso. A dire il vero una volta ci siamo pure visti, ma Giulia non lo sa. Una sera si è presentato in clinica, e meno male che mi aveva chiamato poco prima di citofonare in guardiania. Niente, voleva rientrare. Era furibondo con la figlia. Diceva che lo stava obbligando a fare cose per lui faticose, e certe volte anche ricattandolo: voleva farlo cambiare. Da anni non lo sentivo parlare così, mi stavo preoccupando. Conoscendolo, l’ho lasciato sfogare senza intromettermi, mentre ce ne stavamo all’ombra davanti al cancello di ferro verde al di là della clinica. Così mi ha raccontato che Giulia gli aveva imposto di uscire almeno un’oretta al giorno, perché gli ripeteva che non poteva stare tutto il giorno sopra il terrazzino a guardare sempre quello spicchio di mare. Mentre diceva spicchio di mare la voce gli era ridiventata delicata, e io lo so che in quel momento i suoi occhi stavano davvero riguardando quello spicchio di mare che si era depositato in fondo alle sue pupille. Alla fine dello sfogo gli ho detto di aspettarmi nella mia auto, poiché finivo il turno di lì a poco. Il professore, dopo che gli ho dato l’antidepressivo, ha cominciato a tirare fuori i veri motivi che l’avevano spinto a prendere il primo treno e scappare fino alla clinica. Sì, era contento di vedere tutti i giorni la figlia, di prepararle gli spaghetti alle vongole, di rifarle il letto, ma non reggeva più tutta quella normalità improvvisa. E poi ogni tanto scattava contro di lei, tirando fuori un tono di voce che gli faceva schifo e che somigliava a quello che usava contro la ex moglie, quando deliravano a tavola, distruggendosi tutto il tempo che passavano insieme con parole orrende. Dice che una volta gli era sembrato di sentire proprio la voce della ex moglie, mentre ascoltava un rimprovero di Giulia. Me lo raccontava singhiozzando, e anche io non reggevo più quella situazione nella la mia auto, in cui di solito stavo silenzioso con intorno solo sporco di scontrini e briciole di merendine, e canzoni. Ci siamo fermati nello spiazzo davanti al bar che ha i cornetti buoni. Appena ho messo il freno a mano l’ho abbracciato come non abbracciavo nessuno da secoli. E lui ha cominciato a piangere proprio bene, quasi dieci minuti di pianti stretti stretti ci siamo fatti. La gente che passava rideva, sghignazzava, e facevano certe facce che mi spingevano ad abbracciare ancora più forte il professore. Nel pianto mi ha detto che vuole una vita normale, che vuole fare il padre, ma che ha paura di fare ancora cazzate imperdonabili. Ché io normale non lo sono più, ripeteva singhiozzante dopo che si è calmato un po’. Sussurrava e piangeva, e noi non avevamo il coraggio di guardarci negli occhi, eppure non ci vergognavamo di quelle parole che rimbalzano dolci e dure nell’auto appannata in quello spiazzo pieno di via vai di gente che di notte sembra più a proprio agio. Una volta finite le lacrime siamo usciti dall’auto e ci siamo lasciati condurre dalle luci colorate e intermittenti della sala slot verso l’ingresso del bar. Ci siamo mangiati tre cornetti con la crema a testa. Poi l’ho accompagnato alla stazione e per un pelo ha preso l’ultimo treno. Prima di salutarci mi ha chiesto di promettergli che sarei andato a trovarlo. Così, eccomi qua. Resto un paio di giorni da loro. Il professore sta tutto contento e mi ha già fatto il programma: prima tappa il castello ex carcere militare, dove due criminali nazisti hanno “dimorato” negli anni settanta. Il professore dice che è un posto sconvolgente, a picco sul mare, ma quel mare i carcerati non potevano vederlo, tranne questi due nazistacci. Dice che dobbiamo riflettere sulla rimozione degli anni bui del fasci-nazismo, e che non basta indignarsi, ma bisogna raccontare bene quanto siano ancora insinuati come serpi in certe teste quei sentimenti folli e maligni che ci hanno fatto vivere anni tremendi, poco più di settanta anni fa. Così mi ha detto tutto allarmato al telefono. Ho cercato di abbassare la sua tensione, come faccio sempre con i pazienti ma stavolta avevo un’altra preoccupazione: volevo che davvero non si preoccupasse più del dovuto. Stavo in pensiero per lui.
Questo treno mi fa pensare bene, con le parole giuste, senza l’ansia che mi fa mozzare le frasi e non pensare fino in fondo quello che mi gira nella testa. Pare poco, ma a uno come me, insicuro e nevrotico ma buono - come dice sempre mia sorella filosofa - la cosa che più desidero è parlare in maniera chiara almeno con le persone che stimo. Per farlo ci vogliono pensieri schietti, che arrivino come anguille dalle stanze della ragione e poi dirette fino al bordo della lingua umida. E il professore l’ha capito, e forse anche Giovanna. Senza sapere nulla delle anguille e tutto il groviglio con cui ho a che fare notte e giorno, soprattutto la notte. Da ragazzo ci soffrivo, e non riuscivo a combinare niente per questo mio modo di fare e di pensare. Quando ho conosciuto meglio il professore, quando da paziente stava diventando un’altra cosa, insomma, dopo la prima chiacchierata sui decreti attuativi nella scuola, ecco, in quel momento mi sono sentito davanti a un padre, a un professore, e a un amico: tutti in una unica persona, che aspettavo da quarant’anni. Forse è sempre stata la mia unica e vera aspirazione che covavo sin da bambino, quando me ne andavo da solo a conoscere posti nuovi con quella freschezza e gentilezza verso gli altri che col tempo ho perduto. Per questo sto tutto contento su questo treno lentissimo. So che il professore mi aspetta con i suoi nuovi racconti-lezioni che avrà già ripetuto a mente almeno cento volte, conoscendolo. Anche lui aspettava da sempre uno come me, magari avrebbe preferito incontrarmi al bar o in biblioteca, invece che in clinica, ma che cosa importa mi ripeto ogni volta che lo penso. Quando mi ha detto che con Giulia certe volte usa il vecchio tono che usato contro la moglie, mi ha fatto pensare che deve ricominciare ad andare da uno psichiatra anche lì al mare. È vero che prende regolarmente le pasticche, ma la brutta bestia della depressione fiuta da dove entrare, e scapocchia le giornate, e ti fa dire cose brutte, lanciare sedie, sbattere porte: cose di cui ti penti un attimo dopo. Ecco, dopo le cose belle che mi farà vedere, i racconti che mi sroloterà, mi farò coraggio e glielo dirò. Ho capito che certe persone meritano tutta la verità che abbiamo a nostra disposizione per loro.

Al porto 
  Il professore sta parlando divertito dei vari personaggi del paese che ha prima fissato a lungo, e poi conosciuto in questi mesi. Tonino gli sta di fronte con gli occhi spalancati mentre mangia con gusto il mais tostato. Giulia con il bicchiere ancora pieno di crodino in mano li sta osservando con la pace negli occhi, coperti da tondi occhiali scuri. Intorno quel puzzo dolce del mare in prossimità dei porti. Di fronte un pescatore con pantaloni di almeno due taglie più grandi sistema all’infinito le cose nel suo gozzetto, pur di non abbandonare la sua Elena al ritmo dello sciabordio che la infastidirà tutta la notte: tra un po’ stringerà la fune all'attracco e si avvierà sollevato e affamato verso casa. 
Tornando ai tre al bar, c’è Tonino che ha chiesto altro mais, e continua a chiedere   approfondimenti per ogni dettaglio che il professore, così dettagliato di sfumature nel raccontare, ha lasciato cadere passando troppo in fretta a un altro episodio. Poi ridono, e ricordano aneddoti della clinica e li mischiano con quelli della loro giovinezza, e bevono i campari, e si sfiorano di parole che solo loro due ne conoscono il significato più profondo: un codice animalesco che fiuta e svela il sentimento originario che sta nel fondo dei loro racconti. Giulia ogni tanto sorride e lascia scorrere questo momento che non avrà eguali nelle loro storie. In questo tempo ciascuno sta trattenendo il peggio di sé per soddisfare silenziosamente il piacere dell’altro. Un miracolo che va lasciato intatto, pensa Giulia, che pensa anche di come lei e Maria in due minuti di parole avrebbero disvelato molte più cose che suo padre e Tonino in due anni. Eppure stavolta non ha voglia di riscattare la sua intelligenza da femmina, e non ha nemmeno voglia di sbatterla in faccia alla sua anima. Come fa di solito per consolarsi davanti a una realtà tonta e dura che le strapazza la mente. Questa volta annusa tutto il puzzo del porto pensando di non poter vivere più senza il gusto di fissare sin dentro le ossa le persone che le piacciono, le stesse a volte che spendono parole buone e sguardi acuti per la sua storia, che non è ancora finita.
Ora rilegge nella mente, come ha fatto mille volte in questo ultimo anno, una lettera che scrisse tempo fa al padre ma che non ha mai avuto il coraggio di spedirgli.

Caro papà, 
ti scrivo dalla cameretta dove sono stata bambina, ragazza, tua figlia. Sì, perché da un certo punto in poi non lo sono stata più, e una volta ho pure detto a un ragazzo che non ti avevo mai conosciuto. E quello per sei mesi ha visto tua moglie come una ragazza madre. Mi sono vergognata di questo, ma non di certo durante quel periodo pieno di rabbia e di odio per il mondo ottuso che dominava e annientava quella mia giovinezza, appena fuori da quella finestra. Ho passato anni nascosta in quella cameretta, dove nascondevo anche quei pensieri tremendi di scomparire. Una notte era già tutto pronto per farlo. Poi una pagina di libro, l’aria fresca alla finestra e l’aver visto il mio fratellino dormire abbracciato al suo amato gatto, mi hanno fatto esplodere in un pianto che ha svegliato tutto il vicinato. Sono fatta per vivere fino alla fine, con l’idea che il meglio non sia un Principe azzurro, ma che sia una possibilità di cambiare una convinzione ottusa, e ripartire da un altro punto, da un altro posto. Adesso lo so che questo mio pensare un po’ ottimista e un po’ disperato è tutto quello che mi hai trasmesso tu negli anni. È vero che ho l’affetto saldo di mamma e di mio fratello, ma tutto quello che vivo fuori da questa casa lo vivo con te negli occhi, che mi fai sbattere ai muri, e mi fai piangere senza motivo, e mi fai amare per un sorriso imprevisto. Non te lo ammetterò mai. Eppure è così. Ti ho sempre cazziato per le tue ossessioni e manie, per i tuoi legami ossessivi per le persone amate, che si sgonfiano poi al cambio di stagione, fino a farti rimanere solo. No, non ho più voglia di fare la figlia che dà lezioni al padre scombinato. Resterai scombinato per sempre papà, anche nei miei pensieri, però per me sarà soltanto avere un papà scombinato insieme a un papà e basta. Ho deciso di accettare questa storia che ci lega e che in passato ci ha strangolato e che probabilmente ci farà litigare altre mille volte. Non importa, qui al mare ho imparato anch’io a fissare oltre quel qualcosa che non è un orizzonte, un’isola e nemmeno una bella immagine remota della mente: non è niente, solo una tregua che sa di sale e aria. Papà, domani ti insegno come si fa. 



domenica 13 ottobre 2019

Svegliami a mezzanotte

   Ho letto un libro. In poche ore l'ho finito. Non è la prima volta, ma stavolta avrei voluto continuare a leggere per ore questa storia, Svegliami a mezzanotte, di Fuani Marino, poiché credo sia una storia interrotta. Come solo le più belle storie sanno essere. Una intensa e fragile storia scritta senza impressionare, se non attraverso i fatti e i pensieri che emergono limpidi nel libro. 


 Sulle questioni letterarie non so scrivere, lo so, epperò caspita ho letto centinaia di libri contemporanei, e tra i primi libri letti annovero niente di meno che Meno di zero. Insomma, seppure ancora non mi sono chiare questioni grammaticali della lingua italiana, di certi libri so riconoscere la qualità attraverso lo stile. Anche per delle piccole profonde verità, scritte come si deve, impronunciabili altrove. Ecco la mia letteratura preferita: una bella  discrasia tra le pagine e la mia testa. 
  Un tempo scrivevo sul mio blog certe specie di recensioni fulminee e "de core", che molti apprezzavano, inclusi gli autori stessi. Quel tempo è finito, e i detriti dolci che sono arrivati fino ad oggi, in una giornata di mal di schiena e resoconti, mi spingono a ritornare sul blog per scrivere: la lettura di Svegliami a mezzanotte ha smosso un nervo che non vedeva l'ora di essere smosso: il nervo grezzo della mia storia.
  Insomma, ho recitato la parte del diverso, di quello con una storia un po' stramba, cercandomi un lavoro che potesse dissimulare e ammettere tale storia, senza dire fino in fondo qual è il fine vero di questa commedia: raccontare il mio indicibile, con sintassi accettabile. Tranquilli, parenti e amici, niente che non sappiate già, ma raccontato un po' meglio.
   Non mi piace svelare parti del libro, preferisco fare incuriosire il temerario lettore. Nel caso di Svegliami a mezzanotte, mi permetto solo di citare il brano del libro in cui l'autrice ammette, non prima di seminare dubbi, che si tratta soprattutto di un libro politico. Concordo, ma rilancio quello che ho percepito io: c'è pure tanta poesia, attraverso emozioni trattenute solo per aumentare la potenza del libro. Però chi legge i contemporanei dovrebbe saper fiutare il sentimento sospeso, e può prendere quelle parole e vederne meglio le venature, le punte e intuire da dove arrivi la linfa che l'ha generate. Fino ad arrivare alla radice più misteriosa: che non svela l'albero magari, ma una vita, una storia, forse sì.
  Per questo mi viene voglia di leggere altre mille pagine di questa storia, oppure aspettare paziente il prossimo libro di Fuano Marino.  

lunedì 23 settembre 2019

Tutto è cominciato

  Questo è come se fosse un comunicato social per le persone che sanno che sto facendo un lavoro, e invece ne faccio un altro. Un esperimento tra la vita cerebrale e la realtà. Un gioco, serio.

   Tutto è cominciato la notte di San Lorenzo. Si festeggiava con gli amici alla casetta, si, Lorenzo nostro stava a Berlino e ci sembrava strano, ma a me e mia moglie piace pure la malinconia che soffice passa dal vino e si tuffa in chiacchiere allegre di passato e cieli aperti. 
   Ad un certo punto E. mi chiede: allora questo nuovo lavoro? Io rispondo in maniera vaga, come è vago e ignoto il cielo stellato-soffitto che sta sopra le nostre teste, i nostri bicchieri, i nostri pensieri intimi. Faccio cadere il discorso mentre E. cade dalla sedia, e ridiamo di sguardi e di gola. Ne approfitto e distraggo i commensali raccontando di fatti comici accaduti a E., a me, negli anni. Anche di potature di alberi, di vacanze da fare, poi parliamo. 
  Quando vanno tutti via, resto sull'amaca un po' ubriaco, un po' così. All'improvviso sento scendere un'aria gelata nella testa. Mi vedo lontano dalla famiglia per il lavoro, precipito in un buco nero e urlo e a furia di giravolte non mi fermo più: resto bloccato mentre giro nel vortice e non riesco a toccare più mia moglie, i miei figli. Me ne vado a dormire, e un po' passa.
  I primi di settembre conosco i miei nuovi colleghi, la sede di lavoro, il reale stipendio che avrei percepito, e penso no, non mi convince. Passo tre giorni attorcigliato a pensieri e visioni di me come sarei diventato, poi mi fermo, ne parlo ad alcuni amici, quei pochi che in questi anni mi hanno detto negli occhi certe cose ignote pure a me. Senza confessargli il mio intento: li faccio parlare, li ascolto. Poi  mi mangio a morsi l'orgoglio e dico no, non vado. In quei tre giorni tengo all'oscuro mia moglie e i miei figli, percependo ancora quella paura del buco nero di giravolte bloccanti: stavo in bilico e volevo vederli stabili, almeno loro.  
  Ho pure un battibecco telefonico con colui che mi aveva scelto per fare il coordinatore, a cui, con un decrescere dalla rabbia sindacale alla umana necessità di lavorare dignitosamente, comunico che non accetto l'incarico a partita Iva con una mansione da dipendente. Perché, alla fine, sarebbe stato un incarico di operatore-referente, caro mio estimatore che volevi farmi "un regalo".
   Il mio vero, mastodontico problema era di essere rimasto l'ultimo del mio corso di laurea a non fare ancora il coordinatore. Il vero risorgere è stato capire che io non ho mai davvero avuto il coraggio di fare carriera nella giungla delle cooperative sociali, nel terzo settore in generale. Forse, neanche in altri ambienti lavorativi: voglio solo vivere, scrivere e amare i tic degli altri. Stare vicino ai miei figli, mia moglie. 
   Sono ripartito dalla casella di partenza e, come nel gioco dell'oca, ora faccio l'assistente del Sostegno scolastico, e se il bidello mi chiede di andargli a comprare le marlboro io mi sento come dentro a un racconto della Parrella, mica un ragazzo di bottega. 
   Potrei scrivere un saggio sulle reali condizioni di lavoro dei lavoratori delle cooperative sociali, del terzo settore in generale, tante ne ho viste e subite in quel mondo. Ma, come dice A., sarebbe meglio che cominciassi seriamente a raccontare le più avvincenti situazioni comiche, inverosimili e poetiche che ho vissuto anche in quel mondo: trasformarle in racconti, farci frittate con la mia realtà. 
      Tanto gli altri stanno nei fatti propri, più impicciati di te, quindi, ricordati che sei quel minuscolo punto polvere laggiù tra gli ulivi non lontano dal mare, sei lì che racconti storie comiche su una sedia di plastica bianca, sotto l'acacia piantata vent'anni prima, perché innamorato del viale di acacie vicino all'università. Sei là, tra gli amici in un agosto normalissimo. Eri là, oggi sei qua nella periferia romana senza mare, e sgonfia di aspettative. Osservo nonni che vanno a prendere i nipoti al nido e, una volta messi sul seggiolino, gli chiedono: ci canti tutti al mare? Sì, cantiamo. Cantiamo canzoni d'amore.
 Vedrai che andrà bene, abbraccia il futuro, ché ti appartiene.

https://youtu.be/IN6Twf0p4kA
PS
Leggo questa mio scritto e sembro ammantato di un'aura tragica, in verità la mia più intima aspirazione è fare ridere il prossimo, quindi, ridete insieme a me: a coglione, ancora non sei riuscito a fare il coordinatore!  
              

sabato 17 agosto 2019

Viaggio di bozze

   Il treno parte alle nove. Il sole è già alto sul golfo che visto dalla stazione assomiglia a un uncino: si vede una lunga nave rossa e nera entrare nel porto. Con la coda dell'occhio Gina la osserva, poiché col resto dello sguardo scruta l'uomo che l'ha sposata ieri mattina, intento a fissare il sedile verde vuoto di fronte: starà a pensa’ all'amore di stanotte?
     L'amore in quella stanzetta profumata di gigli e sudore, dopo lo sposalizio lunghissimo, dove i due sposini si sono liberati della muffa bigotta delle loro case di provenienza.  

   Andiamo a Roma, in viaggio di nozze. Ci ospita mio fratello, staremo qualche giorno da loro. Mi sembra ieri che a Roma andavo per  l’Istituto per orfani, poco prima della guerra. Non sono triste ma neppure felice come dovrei, così come mi ha fatto immaginare Elide: vedrai quant'è bello fare l'amore senza pensieri tutti i giorni.

    Salvatore pare si scuota mentre Gina pensa tutta assorta nello scompartimento, tanto che i pensieri di Gina gli sembrano potenti e pare che i vicini li ascoltino per l'intensità e volume. Così si mette a fissarla: ad ascoltarla.
- A ch' stai a pensa’, Ginetta mia? 
- Niente, a come staremo da mio fratello…

   E le parte un sorrisetto coi denti nascosti che tradisce la paura di non sentirsi libera in quella casa piena di bambini piccoli, nella casa del fratello a Roma. Salvatore afferra la malizia e tenta una carezza ma gli esce di cartavetra, così si volta deluso e si mette a seguire tutto tonto la scia della nave laggiù nel golfo.

   Una volta in treno le gambe di Gina sono più disinvolte, e la sua nuova gonna nera di raso emette un suono conturbante che Salvatore coglie al volo provando a essere all'altezza, sfoderando uno sguardo che dovrebbe essere penetrante, ma che Gina interpreta solo torvo, e forse stronzo.                    

      - Perché m’ guard’ stuort’?
      - Ma che dici, Gina?
      - Sì, mi stai a guarda’ male.
      - O madonna mia, ma sii scem’?
      - Vedi, pensi ch’ so’ scem’ e bast’.
      - Se dici 'ste cose si propri’ scem’.
      - Tu pensi che so’ scemetta,       vavatten’ va (non lo sopporto con 'sto naso a patata mentre mi fissa come fossi una gatta).
      -Ma io ti voglio ben’ accussì (tanta bella ma tanta strana chesta femmn’, allor’ avev’ ragion’ Giosina).

  Salvatore non riesce a reagire, a tranquillizzarla, e oramai vede entrare solo montagne brulle dal finestrino. 
   Alla prima galleria le dà un bacio, col corpo resta sul suo sedile, torce il collo e teso cerca le sue labbra aperte e morbide. Le lampadine fioche dell'Accellerato aiutano la scena a sembrare più oscena, ma lo sfrecciare di un Espresso proveniente da Latina fa tremare le bocche: si scontrano i denti, e a Gina sale un pensiero freddo, di sgomento. 

- E ch’ paur’, m’ parev’ ch’ veniss’ accuogl’

  A questo punto Salvatore, che assorbe tutta la sensibilità di Gina nel suo corpo ossuto, le dà ragione: mamma mia ch' paur’! E rientrano ognuno nei propri pensieri tiepidi.   
     
     Gina mangia un biscotto. Salvatore si è addormentato e russa con la bocca aperta. Gina lo guarda come si guarda un cugino dopo pranzo e vorrebbe fuggire via, tornare a casa dalla madre. Lo lascia intendere il suo camminare avanti e indietro nel corridoio, dove si ritrova a urtare tutta agitata un uomo. Questo la prende per le braccia, per non farla cadere. Lei si lascia prendere e sente la propria debolezza, tenuta con forza dall'uomo, come una casa pericolante. Tutto bene, signorina? E lei gli sorride per quel signorina guadagnato sul campo.   
    Rientra nello scompartimento e bacia Salvatore ancora insonnolito. Approfittano di un’altra galleria, più lunga, più eccitante di quella di Fondi e così, una volta sbucati a Priverno, appaiono appagati e felici davanti a tutta quella pianura non più malarica, ma gravida di un futuro di benessere e kiwi. Pure il controllore se ne accorge, e gli sorride al meglio della sua burocratica presenza.

    I pendolari in cravatta sulla banchina di Latina gli mettono buon umore, e fanno pensare a cappuccini giganti, schiumosi, presi prima di andarsi a conquistare il benessere negli uffici di Roma. Ora lo scompartimento è pieno, Gina e Salvatore appaiono ancora più piccoli e soli in quella moltitudine chiassosa, coi loro vestiti buoni s'immolano agli sguardi beffardi dei pendolari.

Continua...





giovedì 11 luglio 2019

Dietro le quinte

Mi sono appassionato al reportage sul premio Strega on the road di Claudia Durastanti. Quando lei e i cinque finalisti girano piazze e luoghi libreschi per farsi conoscere o fiutare dai lettori. Mi piacciono i dietro le quinte e se un giorno potessi scegliere un lavoro, sceglierei il dietro le quinte. Di qualsiasi lavoro. Basta che io stia dietro le quinte, o di fianco, e allora potrei diventare la persona più acuta e intelligente della terra, da quel punto li. Ma devo rimanere lì, e poi dovrebbe esserci qualcuno che mi riconosca, e quel qualcuno non deve essere un'amica, un figlio, no: deve essere il nuovo datore di lavoro. Insomma, il mio stare in disparte, al centro dello stare in disparte, potrebbe essere la svolta della mia magra vita lavorativa.
Scrivo da qui, in disparte, ma sperando come un cane di arrivare al centro dei tuoi occhi: i tuoi occhi profondi che sanno cogliere la mia unicità. Che scemo, alle soglie dei cinquanta che faccio lo scemo e prego una qualche musa che mi aiuti a coniugare IBAN e talento nell'epoca più stronza che mi potesse capitare.



sabato 22 giugno 2019

Voi due, e le origini delle mie emozioni

  Questa foto dei miei genitori sulla lambretta, parcheggiata davanti alla Vetreria con la sua alta ciminiera di mattoni rossi, rappresenta l'origine delle mie emozioni.  Mio padre guidò solo una volta una Lambretta, prestatagli da mio zio, e ci andò a sbattere contro un lampione. Era il 1962 in questa foto, non c'ero ma vedo per la millesima volta quell'accenno d'abbraccio tra i due, con quel loro sguardo sgombro di preoccupazioni in quell'attimo d'abbraccio, e oramai mi sembra di essere io a scattare e fissare per sempre la foto in cui nacque la mia famiglia d'origine. Da lì a poco sarebbe nato mio fratello. Intuendo quei loro pensieri densi per un presente di pochi soldi e di fantasmi che si portano appresso dalle loro case di provenienza, oggi, giugno 2019, io li vedo più chiaramente e potrei fotografarli nuovamente. Invece me ne sto qui con gocce di sudore sulla fronte che sanno un po’ di quelle lontane preoccupazioni, di quel loro vivere provvisorio e intimo, di attese, senza minimamente immaginare la decadenza che improvvisa e scura sarebbe piombata in casa nostra negli anni successivi a quella foto. Oggi ho uno smartphone su cui scrivere di loro, ignari e lontani dalla mia potenza espressiva, dalla mia angoscia di non averli amati abbastanza una volta diventato adulto: perché vi siete fatti detestare nel momento in cui avevo più bisogno del vostro amore? Quell’amore lasciato mangiucchiare giorno dopo giorno dal vostro disagio di adulti somiglianti a ragazzini spersi in uno zoo d'inverno. Eravate due persone strambe, ma sapevate farmi ridere quando mi ritrovavo in mezzo a voi nel lettone, in certe serate paurose, in cui i racconti della cavalla zoppa o quelli di sfottò di certe persone dei vicoli, andavano a sostituire i libri della buonanotte. Eppure un po’ mi vergognavo quando vi incrociavo in via Indipendenza, quando camminavate separati da quei due metri di musi: di litigate lì lì per esplodere. Mi vergognavo anche quando tu, papà, mi venivi a vedere come se io fossi un attore teatrale da ammirare, mentre facevo soltanto  il mio lavoro di cameriere. Però ero contento, e sentivo quell’amore semplice e buono che mi trasmettevi da quei tuoi occhi a forma di foglia che sapevano di gelato al limone, come quello che servivo svelto ai villeggianti. Sentivo quel sapore solo dopo che te ne eri andato da quella tua poltronissima, che ritornava balaustra arrugginita del lungomare.
Nelle vie del borgo, l'altra sera, mentre passeggiavo coi miei figli, mi pareva di sentire ancora certe urla sgraziate di mia madre, e subito dopo i passi di mio padre che scappava da una litigata con lei e si rifugiava sulla scogliera di mare nero petrolio: nascosto dal gigantesco Faro verde. Poi la notte, dopo che si è addormentato il piccolo, mi è sembrato di sentirvi ancora una volta che dicevate cose disperanti su di me: ma che farà di buono? Non è capace a niente. Mentre stavate pugnalando il mio futuro, e forse per voi era solo uno sfogo di un giorno così e così, io vi ho visti piccoli piccoli coricati di sbieco su quel lettone a forma di culla.  Da subito ho succhiato latte e realtà voracemente: volevo riscattare la vostra debolezza, e mi pare di non aver fatto altro in questi anni dopo di voi. Come coppia vi ho fatto esistere ancora solo nei miei pensieri gialli, come dentro queste mattinate calde e ferme nella mia casa romana. Come coppia non avete fatto storia, né troppi danni clamorosi, e se vengo ancora in questa villa delle sirene piena di mare e pini a pensare alle vostre umanissime anime perse, a prendere il caffè, e a scrivere di voi, beh, forse vuol dire che un po’ d'amore è rimasto incastrato tra le scapole e i miei disordinati, brizzolati capelli.

venerdì 7 giugno 2019

Ritornare a Roma, da me

Poi ci ritroviamo alla stazione Centrale sfatti e contenti di rientrare a casa, seppure col rimpianto di aver visto troppo poco della Milano che desideravamo amare. Ho comprato un libro di Agnello Hornby a mia moglie, un manga al piccolo e La vita agra per me. Questo libro nelle prime pagine parlava di Brera, e io non lo sapevo. Gli scrittori mi spiano. Insomma, arriviamo a Tiburtina a trecento all’ora verso mezzanotte. L’indomani mi ritrovo al Tecnopolo dove ho un orto, mi siedo su di una panchina sgangherata e comincio a scrivere un resoconto di scuse e amore per i figli e mia moglie. Oggi vado al lavoro: un pic nic per il progetto che seguo a Fonte nuova, il mio secondo lavoro, quello che ci permette di non chiedere prestiti e ci fa andare a Milano fuori stagione. Amo lavorare per i figli. Sto su questa panchina con davanti lecci e aziende tecnologiche e penso che un po’ di city life c’è anche qui. Mi viene da piangere, invece rido e scrivo, trattengo le lacrime come trattengo la vergogna di non aver letto ancora il Don Chisciotte e altre decine di libri “fondamentali” per imparare a scrivere. Però Socrate ripetuto dal figlio forse vale una collana Adelphi, credetemi, ché in quel momento il mio ascolto vale cento volte il leggere solo per compiacere il mio ego velleitario pieno di pruriti invidiosi, arroganti, che ho avuto (anche) in questi anni di apprendistato disperato. Dolce quel suono di Conosci te stesso, e ora il mito della caverna somiglia a quel pergolato di glicine di donne e bimbi che in una domenica mattina scacciano stress e fantasmi di una settimana appena svangata. Vi osservo da quasta panchina e mi riempio di amore che in un giovedi mattina davanti alle colleghe proprio non riuscirei a provare: ferma tutto, e siediti nella pura riflessione accanto ai lecci di veltroniana memoria, in quartieri che non finiranno mai di costruire né di distruggere. Sbarazzarsi della retorica del “ce la puoi fare” se scrivi tutti i giorni: ho scritto tutti i giorni per anni, e sono crollato davanti a una analisi grammaticale ieri pomeriggio. No so studiare, e i miei figli non sanno studiare, mia moglie non sa studiare, eppure con un sguardo potremmo fare ottocchi la prefazione del Giovane Holden nella nuova edizione tiburtina. Non ce la faccio, mi arrendo e saluto con affetto e gratitudine l’amica scrittrice che mi ha voluto bene, e a cui ho dedicato uno sprezzante thread che ha riscosso un discreto successo da parte di indignati, e di padri di famiglia spaventati guerrieri come me.
Ho scritto questo pezzo perché me l’ha chiesto Diamiladì, che non ho mai visto ma con cui comunico quasi più che con mia sorella. Questo è il mio tempo, questi i miei sprazzi di curiosità donati come si donano abbracci e parole in una stazione del nord che somiglia al mio soggiorno.

domenica 5 maggio 2019

Non trascurate Milano!

  Siamo stati a Milano. Un viaggio agognato da anni: un giorno vi porterò nella città più vicina ai vostri sogni che ci sia. Più o meno questo il mantra che recitavo ai miei figli in ogni fine settimana, per contrastare la paura di morire di domenica a Roma, insoddisfatti. Parla per te, potrebbero dirmi.
A Milano ho fatto subito una cazzata alla romana: ho acquistato una Milano card inutile, condizionando tutta la mattinata; e meno male che siamo sbucati col treno direttamente al bosco verticale.
Col nostro trolley abbiamo passeggiato già dalle 8 di mattina per quei viali. Poi sdraiati su quelle panche ergonomiche sembravamo un urban family. Fa niente che una volta alzati, all’incrocio, stavamo già litigando per via del mio accanirmi con questa Milano card: attivala, e su, pa’. Per poi accorgersi che si doveva aspettare le 12 che aprisse il punto vendita in galleria, nonostante l'avessi attivata online. Arrivati in hotel a Lambrate, ci siamo fatti una doccia e poi di nuovo fuori: ci aspettava il corteo della Liberazione. La mia ansia di arrivare e non godere di tutto il soffice e benefico corteo antifascista, minava gli equilibri famigliari. Una volta al Duomo mi sono ritrovato a cantare Bella ciao a due metri da Fabio Fazio, mentre passava Gino Strada, e poco prima che mia moglie si facesse una foto con Pif e stringesse la mano alla Boldrini. Il massimo per un curioso mitomane come me. Intanto i figli zompavano tra la Mondadori e la Feltrinelli in cerca di manga, film e musica rap. Poi ci siamo ritrovati nella coda anarchica del corteo, e abbiamo ballato tutti e quattro anche appresso ai loro camioncini sgangherati di birra e passato.
Poi ai Navigli, dove il piccolo ha preso un tè da portare via presso un negozietto in un vicoletto zeppo di piante e silenzio. E il grande ha voluto (miracolo a Milano!) che li fotografassi sotto al megacartellone degli Avengers.
La sera rientriamo in hotel e io ho una crisi da troppo carico organizzativo. Gli rimprovero di non sapersi organizzare, che nei giorni precedenti glissavano ogni volta che parlavo di Milano. Un pazzo. Visto che non avevamo proprio cenato, e non riuscivo a stare in quella stanza, esco e affronto il deserto di Lambrate. Un egiziano con gli auricolari sussurra al suo amore lontano, un vecchietto rientra a casa con una spesa piccola piccola. Entro al Lidl e prendo la cena per i figli. Riempio disperato due buste e affronto il viale del ritorno. Le bottiglie sfondano le buste e sembrano dei cannoni contro eventuali cani randagi, Sudatissimo mi fermo al centro di una mega rotonda giardino e, davanti a un tavolo da ping pong di pietra, mi do uno schiaffetto. Parlo da solo, maledico “il modo in cui sono fatto…”, piagnucolo. L'egiziano è ancora lì a sbaciucchiarsi con la fortunata donna e guardandolo mi arriva un sollievo tra i polmoni e la giacca: sfranto e madido non mi faccio più pena perché anch'io amo, o so amare almeno. Rientro, do istruzioni su come prepararsi le cose nel cucinino comune dell'hotel e mi faccio una doccia. In quell’oretta in cui sono mancato avevo il cellulare spento. Il grande mi aveva scritto: torna pa’. Il piccolo aveva detto alla madre: ma lui è fatto così, con sorriso e saggezza che mi riempie di orgoglio e allegria in differita.
L'indomani una tregua di nuvole e umore ci fa visitare il castello Sforzesco e analizzare il perché di varie posture di San Sebastiano nei dipinti.
Poi arrendersi alla non finita pietà Rondanini. La strana e bellissima coppia al bar di parco Sempione ci serve uno spritz, mentre il piccolo noleggia una bike sharing e il grande si avvia al Duomo per incontrare amici dell' instagram. Prendere al volo un tram e arrivare al cimitero monumentale. C'è Manzoni al centro, ma pure tanti Levi e milanesi lontanissimi e distribuiti come in una anagrafe capovolta in cui la burocrazia mette radici e racconta. Casa Manzoni era chiusa, optiamo per City Life, e ci facciamo inghiottire da metro-parco-centrocommerciale senza che arrivi mal di testa o mal di gente. Il piccolo prende l'ennesima bici e noi sogniamo di vivere in mezzo a quel tanto e silenzioso che ci è sempre mancato: le basi sicure per fare quello che ci va di fare, senza rompere al prossimo.
Il grande sbuca alle Tre torri e ha le vertigini per tanta geometria rassicurante. Si decide di andare in via Paolo Sarpi, e così mangiamo da cinesi cinesi con l'ansia di disturbare con le nostre richieste. Poi prendiamo il tram nel verso sbagliato e salta l'uscita Navigli o Brera solo con i figli. Fa niente, oggi è stanchezza piena.
L'indomani vado col piccolo a Brera. Mentre lui punta al Mantegna per accorciare la distanza per lo Starbucks promesso, io rallento e penso che a volte vedere “tutte le opere” in un museo è da pazzi, perlomeno farlo di seguito. Non sarebbe meglio mettere un bar tra una stanza e l'altra? Dove rivedere in mente quelle opere, o su un libro, magari sorseggiando un caffè? Inutile, non ho più il coraggio di dimostrare di averle viste tutte, come in un pacman che dà status da intenditore. Siamo vecchi ormai, facciamo i bambini davanti all'arte, su.
Esco da Brera, il piccolo prende la …. e io da Google Maps scopro che là di fronte c’è la casa di Lalla Romano. Una vecchina sta entrando e chiedo se quel nome sul citofono corrisponde alla scrittrice. Mi fa, certo, abitava qui la Lalla, brava giornalista… Mi pareva di essere in un racconto, in una scena del romanzo italiano del Novecento. Ho preferito questo alla visita del suo museo, mi perdonerà Lalla Romano?
Poi abbiamo incontrato il grande e mia moglie. Si doveva andare a pranzo da un’amica d'infanzia di mia moglie, in campagna. La metro arriva anche lì, tagliando fiumi e campi verdissimi.
Milano in fondo non me l'aspettavo ancora più verde dell’ultima volta che l’ho vista.
Arrivati, e invece della cotoletta ci aspettava uno spaghetto alle vongole, per noi che crediamo nelle contaminazioni creative era un segnale preciso per le nostre vite.
Se volete continuo col viaggio di ritorno e le riflessioni e scuse del giorno dopo a Roma. Diciamo che questo era solo il primo atto...