La stanza con le
tapparelle abbassate è luminosa. Sdraiato e scomodo, ti guardo il collo
scoperto mentre le scarpe restano sospese nell’aria per alcuni secondi, poi
s’immolano pesanti sul cotto scurito dagli anni, e il tuo sospiro accelera
incauto. I corpi si schiacciano tra il muro e il letto a una piazza, le
lenzuola definitivamente a terra. Una stampa di Van Gogh mugugna sbilenca. Le
mani, quelle mani che hanno sfiorato l’umido tra le gambe ora penetrano la
pelle per sentirne il gusto tossico. Intanto le tue labbra gonfie di stupore
baciano tutta la pelle per ridurne la febbre: i seni pogano silenziosi.
Amore, la prima
volta che ti ho vista eri una canzone.
Nella casa
affollata di studenti, pensieri e alimenti rubati alla Coop, ci sono due corpi
in lotta per l’amore eterno, quello dei libri, o quello dei nonni, poco importa
oggi ai nostri muscoli in festa.
Da dentro a una
foto in bianco e nero su di un letto di vimini obliquo, dove ti sdrai per il
mio sguardo, dichiari muta: tranquillo, che un filo di solitudine vale una vita
di carezze. Lo sappiamo e per questo lottiamo, e si sente nell’aria il vento di
un piacere intermittente.
Ieri ho
ascoltato una storia tragica accaduta alla mia famiglia. Me l’ha raccontata mia
madre, in macchina, dentro all’inferno del raccordo anulare, mentre la accompagnavo
alla stazione. La coda di auto aumentava la tensione, e le lamiere mi
proiettavano fredde verso la disgrazia colorata di particolari emersi dalle mie
mille domande. Si tratta di un mio lontano cuginetto, che nel 1949, a soli tre
anni, morì. Il fatto è tragico ed ebbe risvolti irreversibili per suo padre.
Mio zio. Chiaramente, ne risentì l’intera famiglia. Oggi anche un po’ io. Mi appare l’enorme fragilità che irrompe e che
investe e modifica per sempre i caratteri, le abitudini, le scelte, le posture
- e le tante parole non dette - che hanno determinato la storia della famiglia.
La guerra era appena finita oltre che nella sua rappresentazione scenica, che
conosciamo a memoria dai film, anche dai cocci, dai corpi feriti, e dalle infinite
scorie psicologiche, che stavano appena appena facendo i conti con la gioiosa frenesia
di ricominciare daccapo. Da misere e scoraggianti macerie. In quel fermento di
donne formose e uomini smagriti, di case tirate su in una nottata e strade
polverose piene di bambini scalzi, in questo scenario accadde la disgrazia. Fellini
faceva ancora lo sceneggiatore.
Non riesco ancora
a raccontarla una disgrazia, un dramma così scioccante che rischia di
succhiarsi tutta la storia, a dispetto dei preziosi dettagli, delle ombre e
delle omissioni e delle comparse e dei silenzi, che avrebbero più spessore del
fatto centrale, almeno per la mia sensibilità. Eppure vorrei raccontarla,
poiché rappresenterebbe un inizio, un margine da cui risalire e raccontare
delle mostruosità familiari, che stanno lì, stese al vento dei giorni del
presente: ne vedi i contorni, le sbavature e le inconfondibili storture
narrative. Di fatto, ieri, prima di riascoltarla, ne conoscevo appena il dieci
per cento di questa storia; adesso potrei riempirne quasi la metà di cose vere.
Ma siccome il puro autobiografismo mi annoia ormai, non mi resta che aspettare
una tempesta perfetta che scompagini il vero, accettandone il fantastico; ci
sarebbe l’autofiction, direbbe Pascale. Il grottesco, Ammaniti. I racconti a
mosaico, Cognetti. La commedia, Piccolo. Lo psicoanalista, una mia amica.
foto di luciano d'alessandro
Ecco, a me piace
assai raccontare fatti privati che si mischiano ai fatti pubblici. Cose realmente
accadute, dentro abnormi e verosimili cazzeggi urbani. Scopate drammatiche al
limite di un amore, che sbattono contro fellatio liberatorie in parcheggi di stazioni lunari.
Innamoramenti improvvisi, prima di abbandoni tardivi. Conformismi astuti di grigiore,
accanto a discorsi diretti e umanissimi di compassione. Questo vale per tutti,
compreso te, vigliacco spione che non sai dichiarare il dolore.
Ho una voglia matta di scrivere pieno pieno di retorica, pomposo e ridondante, come un aristocratico che ammuffisce tra lo champagne e donne pacchiane. Vorrei comunicare tutto il peggio di me, quello che scarterebbe pure un satanista in forma, dal suo profilo online. Sì, uno spurgo di stagione, una valanga di amenità. Insomma, presentare il mio lato nero, la mia ombra strafottente e la mia lingua enorme e rossa come non mai. Mostrare tutta la mia antica ignoranza, la giovane volgarità, il mio humor che danza tra le facce sbigottite delle mie colleghe. Dentro mattinate di noia per niente spleen. Cioè, tirare fuori dalla cantina, dal fegato, il peggio di quest'inverno denso come il miele. Mentre lo faccio precipitare dai gradini e ruzzolando magari mi parte pure una scorreggia. Così, per presentare il ventaglio di cose losche che normalmente trattengo precisino, a modo, che non si sa mai. Vedere così se le cose si raddrizzano da sole, se prendono la giusta e bilanciata piega rozza che tanto mi manca. Ecco, l'ho fatto, d'ora in poi avrò davanti due mesi in cui mi gioco tutto, e Tutto gioca contro di me. Auguri cugino! Niente, volevo avvisare qualcuno...
Questo perchè ieri sera mi era venuta 'sta cosa qua:
Sarebbe leggero
passeggiare tra quelle forme morbide, quelle pietre assumerebbero d’incanto silenzi
umani. Farebbero entrare tutti, mostrandoli diversi, forse autentici, e alla
fine, l’ultimo che andrebbe a dormire, spegnendo l’ultima lampada, avrebbe una
scossa di pace tra le dita.
“Io non combatto più, mi sembra inutile. Voglio restare passivo, guardare il mondo con calma. Ogni altro programma non mi interessa”. (F.F.)
A Roma le voglio
bene, non c’è che dire; e alla Tiburtina ancora di più, altrimenti, come avrei
fatto a sopportarla in questi anni con le sue buche e tutta quella monnezza ai lati delle strade?
In questi mesi
però la Tiburtina m’immalinconisce sempre di più, coi suoi scatoloni illuminati
a sala giochi che si alternano ad altri scatoloni pieni di macchine invendute.
Dal bus vedo quel disoccupato che conosco, legge avidamente Il Messaggero, nemmeno
fosse Madame Bovary, con gli occhi spaventati incollati all’attualità; a
quest’ora le prostitute ancora non ci sono in strada, stanno in casa a
preparare gli zaini dei loro figli biondi. Intanto, su infinite linee gialle di
lavoro in corso, vedo impiegati in bilico con l’auricolare collegato a you porn:
l’audio sesso per ora può bastargli dentro a quel nero impermeabile. Se sapesse
mio padre in che strada mi ha lasciato circolare. Be', non mi direbbe nulla. Il
suo silenzio mi ha concesso il mondo. A me bastavano una città, un lungomare,
un mestiere. Ma questo non gliel’ho mai detto. Né scritto.
Scrivevo queste
cose ieri poiché stavo a piene mani nella pozzanghera dell’impasse, quella
fangosa che ti paralizza i pensieri; e la faccia stava quasi a terra. Oggi,
invece, oggi è stata una giornata di sbalzi d’umore, a me tanto cari; so che senza
gli sbalzi vivrei a metà le mie esperienze. Eh, già, annuisce l’amico mio.
Sbalzi in ordine
cronologico: sofferenza sull’assenza su di un campo di basket, che poi è solo
un’attesa di forme migliori. Poi una piazza con il via vai di ragazzini coi
loro padri, madri e fratelli di ogni età, stavano appiccicati l’un l’altro a
scambiar figurine e desideri: di voler fermare quegli attimi tra la colla e la
pagina, che sembrano grumi di felicità che sta per sbocciare nei caldi esili muscoli.
E li vedevo e volevo stringerli tra le braccia per poi non scomparire mai più nell’ammuffita
caverna. Meno male che mi hanno aiutato le mille facce dei cingalesi, egiziani
e marocchini nella luce del mercato di piazza Vittorio. Il piccolo l’avevamo perso, tra i banchi del pesce e patate giganti,
due minuti e la famiglia si stava paralizzando davanti al nulla. All’improvviso
sbucano decine di occhi dai bulbi bianchissimi che capivano prima di ogni paura
quello che stava accadendo: una catena di sguardi, chiamate e rassicurazioni
hanno risolto il caso. Ecco il piccolo che tornava insieme a un ragazzo che in
altri contesti forse avremmo ridotto a clandestino
disperato, in cerca di speranze inutili. Ma chi siamo noi per decidere le
mosse di vita degli altri? Davvero riusciamo a entrare nelle loro teste piene
di ritmi a noi sconosciuti, e di comprendere i loro colori accesi, e apprezzare
le loro promesse di amori eterni in lingue sconosciute, e accogliere le tante
parole piene di carezze che abitano nei loro pensieri? davvero crediamo di
poterlo fare con uno sguardo stanco? niente, abbiamo acquisito l’arroganza di
conoscere gli altri dalle nostre frustrazioni. Dai nostri casini politici.
Dall’assenza d’amore. E pieni di quest’assenza ci vestiamo in maniera impiegatizia
e costruiamo idee di mostri grigi che tiriamo fuori nei momenti peggiori, per
divertire gli amici o il nostro capoclan di turno. Le fidanzate annoiate.
Da quando sto
dentro a tre bei progettoni, due di lavoro e uno di piacere, non riesco più a
muovermi disinvolto. O di scrivere sciolto. Incapace a costruire mi dileguo.
Poi ritorno appena posso e tiro fuori il meglio, che c’è, lo so, per questo mi
lascio commuovere beato dall’intero banco di frutta esotica che non sono
riuscito a comprare. Troppo lusso, e troppe storie da contenere. Oggi prendo solo
delle pere.
Dodici anni fa giurai a me stesso, preso dalla mano della poesia, di scrivere tanti racconti sui sentimenti umani, così labili, partendo dalla A e arrivando alla Z. Sono poesie in prosa. Ma alla lettera S, nonostante i programmi, la poesia mi ha abbandonato. E a questa lettera ho dovuto fermarmi. La poesia va e viene, vive e muore quando vuole lei, non quando vogliamo noi, e non ha discendenti. Mi dispiace ma è così. Un poco come la vita, soprattutto come l'amore”.