Logorrea come marea
Questa strada apre
proprio il cuore, mi fa sentire uno con la dignità al posto della pelle. Tutta
‘sta roccia che si tuffa in mare e quei boschetti di macchia aggrappati al po’
di terra che resta; dove ti giri giri vedi la storia. Mi viene voglia di dirlo
ad alta voce, ma a lei credo non interessi. Figuriamoci. Una volta da ragazzo
mi ero fissato che dovevo portarmi una ragazza di Caserta a dormire nel motel
che ho appena attraversato, così, per vedere l’effetto che faceva stare in una stanza
tra il lago e il mare, di notte, con i bagliori retorici del caso.
“Hai avvisato Giulio che
stiamo arrivando? quello vuole sapere se andiamo a cena da loro. Fanno la cena
dell’estate col pesce alla brace, guai a non andarci”.
“Azz, mi so’ scordato. Mo
lo chiamo subito. Mica ci perdiamo ‘sta cena”.
Ricordo di quell’amico
mio che aveva la madre ricoverata per i nervi. Mi parlava di una mela verde su
di un tavolo, e poi ‘sti mattarelli che ballano sbilenchi davanti a una
terrazza col mare sbarrato dalle inferriate. Mi raccontava queste cose durante
una delle tante notti passate insieme dopo il duro lavoro da camerieri: si
parlava fino allo sfinimento, e nel frattempo ci divoravamo tutti i panini e i
tramezzini avanzati al bar dove si sgobbava tutto il giorno. Gli volevo bene a
Pino, solo che alla lunga non era facile stare tutti i giorni con lui; i
problemi gli uscivano fuori suo malgrado, e la sua faccia a volte diceva quello
che le parole accennavano soltanto. Come per la storia della mela sul tavolo: a
me pareva che me l’avesse già detto. Era un po’ pesante, anche se sapeva far
ridire e poi aveva ‘sta voglia di aiutarti sempre. Non aspettava neppure che tu
glielo chiedessi. Pino, ma dove sei?
Queste curve che anticipano i tunnel mezzi bui
mi fanno pensare alle volte che le ho percorse con l’alcol nella testa; le
amiche sul sedile posteriore a fantasticare su di noi, che in silenzio ci difendevamo
cazzeggiando sulla giornata andata. Poi capitava di ritrovarti sdraiato sulla
sabbia con gli occhi chiusi a immaginare le traiettorie lente dei gozzi appena
partiti. Lei spesso dorme durante il viaggio. Eppure il panorama è bello, ed io
non sono un musone triste. Sarà il tempo passato insieme che fa cumulo e
produce distanze di sicurezza. Non so proprio come litigarci oggi, non saprei
quale appiglio usare. Intanto mi fa piacere pensare che potrei colpirla con una
battuta feroce o amarla come una ragazzina capricciosa. Oppure magari fermarci
all’improvviso, e fare l’amore sopra gli scogli come quella volta in Sardegna.
Era di giorno e c’eravamo solo noi e i trenta gradi all’ombra: davanti a noi
solo vento e mirto. Siamo ancora capaci di questo. Non come Mario che si
ritrova separato e con un mucchio di debiti e tre donne da mantenere, figlia
inclusa. Lui appena può scappa a Mantova dal cugino, dove si dedica a tutte le
droghe presenti sul mercato. Un paio di giorni al mese per ritrovare un’armonia
tra se e l’assurdo della realtà che si è ritrovato davanti agli occhi.
Poraccio. Mario era il miglior raccontatore di storie del mondo.
“ Fermati, che compro il
vino per stasera”.
Non è che io sia stato
tutto il tempo a guardare il mare, e no, me lo ritrovavo tutte le mattine in
faccia, mica lo sceglievo. Però ti faceva perdere tempo per bene, che, quando
ti annoiavi, allora ti bastava passeggiare lento lento sul lungomare. C’erano
tutte le storie su quel tavolo azzurro. C’era pure la mia, già scritta e non
ancora vissuta. A me piaceva andare tutti i pomeriggi davanti alla casa di
Antonella. Prendevo il motorino e passavo sotto casa sua. A quella piaceva e,
anche se era timida, me lo faceva capire, che lo desiderava davvero. Aveva
quella vocina delicata e paffuta, come di bambolina. La stavo sempre a pensare
quando mi sdraiavo sul terrazzo tra le lenzuola stese di censura, per un
presente ormonale irresistibile. Mi facevo le pippe come milioni di altri
ragazzi. Nei posti e nei modi che battevano pure il genio dei telefilm
americani, a volte, quando la noia spingeva verso repliche pomeridiane.
Stasera tutti da Giulio,
con bocche piene di calamaretti a spettegolare di quei pochi che non hanno
avuto la fortuna di esserci, da Giulio e dentro le sue cene memorabili. Là si
profanano ricordi e s’imbalsamano le questioni presenti che spaventano. Là ci
si stringe dentro a un enorme paltò fatto di risa e complimenti, che poi alla
fine, quando sei in macchina, ripercorri ebete i momenti più allegri e ti viene
da telefonare agli altri per raccontarli già. Una droga queste cene tra amici
d’estate. Pure a lei piacciono, ma a me di più. Non ci dormo la notte a volte.
Mi metto a immaginare le scene e il pensiero si eccita così da profetizzare le
battute, per la prossima cena. Gli sguardi. Le risate.
A Pino piaceva stare fino
alla fine della serata a chiacchierare. Non smetteva mai, mi sa che non voleva
tornarsene a casa sua. Non che ci stesse male, ma voleva stare con noi per
sentirsi più libero. Di dire quello che cazzo gli passava per la testa. Come si
fa nelle feste da Giulio: un’infantile logorrea che altrove sarebbe bloccata da
sguardi di fastidio.
Nell’ottantasette Pino si era fissato
per una tipa roscia di Napoli. Non era proprio bella, ma camminava bene e
parlava anche meglio. Era perso. Mi costringeva ad andare allo zen alle tre di
notte a ballare. Claudio Coccoluto diventava il nostro jubox: Clash e Cure a
rotta di collo. Io, Pino, la roscia e un’amica mora, a ballare con circa cento
metri quadri a disposizione. Ogni tanto si buttava pure qualche villeggiante
fighetto nella pista deserta. Poi verso le quattro di solito sorseggiavamo vodka&tonic,
appena scroccato a Maurizio al bar. L’uscita di scena delle due napoletane era
improvviso, e a noi restava una passeggiata meditativa lungo la staccionata che
dava sulla spiaggia. Ognuno verso un punto indefinito. Anche se di solito io a
sud, e lui a nord. La fine della
malinconia era uno sguardo tra noi nemmeno Tognazzi e Gassman; accenno di
saluti ai superstiti e ai baristi affaticati, e ritorno in auto silenzioso.
Sfumava insieme al gas di scarico della dyane ogni pensiero gigante: stasera è
la serata giusta. Sto in forma, vedrai che su rock the casbah le ballo intorno
ai fianchi. Vedrai. Sì, vedrai.
“Vabbè invio un sms a Livia, così lei
avvisa Giulio che andiamo”.
Ecco l’albergo dove lavorava Pino. Mi
raccontava che ci dormiva pure. Si è fatto tutta la stagione lì. Era appena
finito il periodo da incubo con la madre ricoverata e con tutta la famiglia che
si frantumava. Così mi diceva, e a me veniva in mente le case che crollano
durante il terremoto. Insomma, diceva che lì c’erano enormi cameriere
dell’entroterra che la sera si acchitavano e ci provavano col maitre, e se
andava male scendevano di grado. Con lui mai, poiché era un piccolo comì. Gli
restava di innamorarsi di ragazze ricche di Roma. Una sera un gruppetto di
romani lo portò in una discoteca. Era la prima volta per lui, gli pareva un
posto dove tutti pensavano al sesso. Alla fine passò, così mi raccontò, tutta
la notte tra il divanetto e la finestra. Diceva che non sapeva proprio cosa
fare. Io invece in quel periodo mi godevo la spiaggia cogli amici. Sgobbavo sui
libri tutto l’inverno, poi, appena arrivava giugno, mi aggregavo ai peggio
fancazzisti del litorale: lucertole di giorno e ragni di sera. Le ragazze
baluginavano come insetti da catturare; a volte una birra in più constatava la
mancata cattura.
“Allora, che hai deciso di arrivarci
domani alla cena. Su, accelera un po’”.
Mamma mia, ho capito che
ti pesa stare in macchina con me, ma siamo quasi arrivati, così potrai parlare
con Livia tutto il tempo. C’era quel nostro amico che aveva bisogno di
sangue. Allora partiamo una mattina
fresca di giugno, alle sette. Maurizio aveva bevuto l’ultima birra alle tre;
noi, anche se sobri, una volta arrivati all’Umberto I, davanti agli occhi
dell’infermiera vogliosa di sangue, scopriamo che solo uno di poteva donarlo.
Duecento kilometri, quattro ragazzi che insieme facevano cento anni e trecento
kili, riescono a lasciare per l’amico solo un sacchettino di liquido vinoso. Il
ritorno silenzioso e lungo ci ha fatto fare un balzo in avanti di trent’anni.
Dopo il saluto ricordo solo l’asfalto misto a pietra che i miei occhi seguivano
per raggiungere prima possibile casa. Mia madre e tutto il mio dorato mondo
bambino; mi sa che quel pomeriggio frullava nella testa una frase tipo: non
esiste la morte né la vecchiaia, solo un eterno stare dentro al presente. Poi
in un pomeriggio senza vento squilla il telefono grigio: ha vinto la leucemia,
Piero non ce l’ha fatta. Ricordo che anch’io non ce la facevo a raggiungere il
bagno. Volevo vomitare i cinque minuti appena trascorsi.
“Fermati che voglio
prendere il tabacco.”
La sorella di Pino mi
teneva ore al telefono. Sembravamo due fidanzatini. Pareva che dovessimo
confessarci da un momento all’altro arditi desideri, invece alla fine solo un
almanacco sulle cose da fare. Giorno per giorno. Per tutta l’estate. A
settembre Gianni mi dice che hanno scopato. Ma chi? La sorella di Pino. La
conosci, no? Un po’, rispondo. Vabbè quella, niente di che, credimi. Vabbè,
dico io. Mi sa che mi sono innamorato della sorella di Pino. Da oggi però. Ieri
mica tanto. Domani le chiederò cosa vuole fare dopodomani. Questo pensiero mi
torturava come una lucertola in preda al sadismo di un ragazzino alle tre di
pomeriggio in estate, senza amici.
Certo che l’azzurro del
cielo qui non conosce sfumature. Domani voglio stare tutto il giorno a
osservare questo enorme e muto cielo. Altro che parenti e shopping. domani mi
sveglio e mi sdraio già dalle otto in terrazza. Devo pensare tutto quello che
vale la pena ricordare. Lasciatami in pace. Amen.
“ Meno male siamo
arrivati. Ma quanto ci abbiamo messo? alla faccia”.
Le solite due ore, magari se uno
chiacchierasse un po’, passerebbero prima.
“ C’è sempre più traffico
in uscita da Roma. Senti, comincia ad andare tu. Io vado a salutare zia, così poi
prendo pure il vino”.
“Sì, cosi io aiuto Livia
a preparare. Prendi la falanghina, mi raccomando”.
Prima prendo ‘sta falanghina
e poi me ne vado da zia. E mi rilasso su quel bel divano-sprofondo, con quei
cuscini che stanno lì dagli anni settanta. Ligi al dovere di sopportare culi
familiari e per niente misteriosi. Intanto vado al bar di Maurizio, ma sì, che
stasera voglio arrivare da Giulio rilassato; senza la solita eccitazione che mi
fa dire tutto nella prima ora, poi bevo, e alla fine rido sdentato fino
all’alba. E checcazz, voglio mostrare anche un’altra faccia stasera.
“Ch’ sì beglie, come stai
amico mio?”.
“Uè ma sei proprio fresco
come ‘na rosa e maggio. Maurì, ma non c’avevi cinquant’anni l’anno scorso?”
“ E no, ora sto a
quarantanove. Mica stiamo in città qui, che il tempo si stringe. Lo vuoi un
caffè?”.
“Come no, lungo e strong.
Daje che devo arrivare fino alle tre di notte”.
Che bella persona che è Maurizio,
non si fa schiacciare da niente: morti, violenze, sfighe commerciali. Sta
sempre col sorriso di chi ha davanti il meglio del mondo. Eppure quella volta a
Pino l’ha massacrato di botte. Che c’entra, poi si sono chiariti, ma quello che
successe in quella notte resterà strano per sempre. Gianni anni dopo mi disse
che c’era di mezzo un sospetto di abuso: la sorella piccola di Maurizio
molestata da Pino. Ma può essere? gli dico. E quello: certo, Pino si era
innamorato ma quella aveva dodici anni e lui diciotto. Sì, in effetti Pino
quando si fissava faceva paura, ma fino a mettere le mani addosso, pareva
strano. A me Pino ha detto che Maurizio era solo geloso e quella sera, bevendo
due bottiglie di vino in un’ora, ha cominciato a delirare fino a saltargli
addosso con violenza. Maurizio è sempre stato imprevedibile e violento, ma
spesso lo faceva per senso di giustizia. E per un’antica vocazione al massacro,
che, con l’adesione al gruppo degli autonomi bolognesi verso la metà degli anni
ottanta, culminò nella quotidiana azione di saccheggi e piccoli attentati. Per
un anno intero. Poi si disintossicò lavorando come cuoco per tre mesi di fila
in una casa vacanze per disabili.
“Ciao Maurì, ci vediamo
domani per la colazione. Prenoto un cornetto alla crema”.
Certo che queste case
così alte e strette lasciano intravedere tutti i misteri. Di sicuro le anteprime
arrivano con i suoni: qui tutti sentono tutto degli altri. A volte le persone
le riconosci dalla voce, mica dalle facce. Ci sono infinità di vecchiette che
appaiono ogni tanto dalla porticina, poi, appena senti la voce, completi il
quadro. Chissà magari non ci abiterei più per un periodo lungo, ma per un
mesetto forse sì. Un mesetto da solo.
“Pronto, dimmi tutto”.
“Come stai, ti sei
svegliato meno male?”
“Sto da zia, ora arrivo.”
“Ma è quasi l’una. Verso
le nove ti ho chiamato, e tua zia ha detto che ti sei addormentato e nel sonno
deliravi. Come con la febbre, diceva. Allora ti ho lasciato stare…”.
“Ma perché? Dico, almeno
potevi venire, o chiamare ancora”.
“ Vabbè, ma ho parlato
con tua zia anche dopo, alle dieci. Poi non volevo disturbare”.
Ma cosa è successo? Cazzo,
ho fatto pure un sognaccio. C’era Pino che andava alla cena da Giulio. Io non
c’ero. Stava in mezzo agli altri che raccontava della sua vita a Firenze:
gestiva una latteria-libreria. Stava con una ragazza di almeno venti anni meno
di lui. Pareva sereno, sicuramente brillante come un ragazzetto che dentro al
mese di agosto non lascia niente a nessuno. Infatti, le donne della serata,
compresa mia moglie, pendevano dalle sue labbra. Tutte a fargli domande. Lui
rispondeva con garbo ironico: un fiume di racconti che non aveva bisogno
d’argini. Gli argini erano i corpi abbronzati delle donne, e la foce erano le
facce intontite degli uomini. Diceva che era tornato per via di alcuni
documenti; pratiche da sbrigare per la madre ricoverata in una casa per anziani
fragili. Vicino ad Arezzo. In collina. Di mare non ne voleva più sapere. Verso
la fine del ricordo del sogno c’era un fruscio tra le siepi e corpi di donne in
chiaroscuro; volti non se ne vedevano, ma solo corpi nudi: mi pareva di
riconoscere anche mia moglie. E Livia. Le foglie si agitavano, le risa
rimbombavano appena, giusto per far impallidire la faccia arrossata di un
bambino. Osservava tutto e restava deluso. Pensieroso ascoltava lo sconcio
della natura. Cosi pareva, così sognavo. Ma ricordo tutti questi dettagli? O
c’ero? Ma il tanfo di vino che sento, a cosa è dovuto. Una macchia rossa sul
pavimento e un urlo tra le case mi fanno scappare fuori. Un vento tiepido leva
dalle strade quel po’ di sporco rimasto del giorno. Fisso tutte le stelle
presenti e mi accontento del sogno spezzato, che mi costringe a tremare come un
bambino.
“Ci sei mancato ieri
sera, stavamo sempre a parlare di te, in fondo in fondo c’eri”.
“Come no, stavo proprio
là a bere vino e a cantare sotto al ciliegio le canzoni di Battisti. Ché non mi
hai visto?”.
Ecco, questa strada di
ritorno verso la città con queste infinite curve lente che sfiorano le colline,
lascia sentire quel po’ di acido che le ginestre liberano nell’aria. Ma quanti
pensieri neri mi riporto in città? Non sono stato alla CENA, non ho liberato
nessuna delle mie caustiche battute. Non ho amato. E poi perché quel sogno:
Pino che torna con tutta quell’arroganza e con la voglia di prendersi tutto.
Pino poi, se guardiamo
bene la storia, mi ha fregato per bene. Già allora, quando andava a letto e si
drogava con Selene. Quando me l’ha raccontato sono rimasto bloccato per venti
minuti. Lui parlava e io sprofondavo. Non volevo neppure menarlo, non riuscivo
a pensarlo nemmeno. Selene era il mio amore ancora bocciolo. Lui lo sapeva, lui
ha fatto il giardiniere esperto: coglie poco prima della fioritura tutto quello
che c’è da cogliere. Sì, ma qui siamo ragazzi dentro a un racconto piccolo e
fragile, dove le parole non dette fanno la differenza. Mica stiamo dentro un
racconto di Hemingway, qui a malapena arriviamo davanti a dieci occhi; per metà
frettolosamente notano una battuta, una parolaccia, uno scatto erotico. E il
resto? Meglio lasciar stare e continuare a leggere le storie degli altri. Caro
Pino il ricordo ora mi spezza le gambe, e non provo nessuna vertigine.
Questa terrazza sul mare
di giorno è proprio una cartolina. Ma di notte, col rumore stridente delle
poche auto che passano, e con le macchine che traballano dal troppo sesso
consumato di fretta, be’, di notte forse è meglio non venirci. Invece sono qui
davanti a questo strapiombo oleoso di nero. Questa macchia scura che non lascia
vedere nulla, mi si staglia davanti agli occhi. Ma io scendo. E sento fruscii
che intervallano la risacca là sotto. Precipito quasi, correndo come un bambino
pauroso nel sonno: sento un gemito. Vedo una faccia, appena un profilo in
realtà. Un cerchio di uomini e donne che fissano un fuoco tenue, già consumato
dalla notte umida. Il rumore di un gozzo d’altri tempi copre le voci. Tutti
stanno pensando, nessuno si muove: eppure sto qui già da venti secondi. Tra di
voi, dopo la discesa. Un’onda meno timida delle altre arriva fino alla prima
ragazza, questa non se ne accorge neppure. Allora inizio a urlare, visto che c’è
un branco di cani che mi fissa, appena dentro la luce del fuoco. Nessuno mi
aiuta. Arriva una coppia. Arriva mia moglie. Arriva Pino, subito dopo. Prendono
posto nel cerchio. Il guizzo dei pesci nel mare allerta un gabbiano, ma non si muove
neppure lui. Non so proprio cosa fare in mezzo a questi pazzi immobili, non
riesco a star fermo. Entro in acqua lentamente, come mi aveva insegnato zio
Vincenzo. Anche in questi momenti non riesco a fare le cose a cazzo.
L’educazione si è presa gran parte della mia giovinezza. Quella di Pino proprio
no, che c’entra, resta una brava persona, ma appena poteva tirava fuori la
natura dalla sua testa e dal suo corpo scattante. L’acqua è fredda, nera e
accogliente. Nuoto leggero verso il gozzo: là qualcuno mi ascolterà. Taglio il
mare in due, e da lassù, sopra la litoranea, si vede uno squarcio che cerca un
riparo. Le persone intorno al fuoco non si vedono: ma i gemiti restano. Mia
moglie resta, ma non la vedo più. Pino è da qualche parte, me lo sento e la
malinconia improvvisa me lo testimonia. Sulla barca un vecchio che non
s’impressiona: chè succiess’, stai ad affugà? Viè ‘ncopp, che ‘nu post’ c’sta.
Iamm, che aggià pisca stanott. Neanche mi presento. Mi accuccio e lascio
guidare a lui. Intanto il chiarore rimette tutto a posto sulla spiaggia.
Intanto Pino sta su di un letto sfatto di Firenze, e mia moglie si prende il
suo ultimo sbuffo in faccia.
Oggi ho dormito proprio
tanto tanto. Ora ce ne torniamo in città, ma stavolta voglio fare la pontina,
che sono anni che l’ho abbandonata per la più comoda e larga autostrada. Quando
parto con la macchina che è già sera mi viene da pensare alle volte che questa
strada la facevo da solo, anche in piena notte. Con ogni tipo di carcassa.
Sempre salvo, comunque.
“Fermati a quel bar di
Terracina, così ci prendiamo un caffè come una volta”.
“ Come no; vado proprio
in automatico quando sto da quelle parti, è una tappa obbligata, amore mio. Ti
ricordi quella volta che poi abbiamo fatto subito dopo l’amore?”.
Già, e chi se lo scorda?
Quel seno tra i denti, illuminato dagli abbaglianti che pareva fosse una scena
di un film anni trenta. Ed io unico protagonista. Lei la diva. Mamma mia, quasi
quasi ci provo…vabbè, magari tra un po’. Ora voglio pensare: ché questi
pensieri traboccano senza pietà. Sto sempre a pensare a Pino, che poi mi fa
pensare a Marco: quella volta gli ho lanciato tutti quei sassi addosso. Ma
come, il mio primo compagno, che avevo scelto dal balconcino con le ringhiere
verdi, da dove con le mie gambe penzoloni stavo in attesa che mia madre mi dicesse:
ora viene Marco a giocare con te, sei contento? Ero il suo primo amico e lui il
mio primo compagno. Dopo la sassaiola non ci siamo parlati per anni. Due
rancori a forma di cuori. Gli sguardi aspettavano la prima mossa, o il segnale
dell’armistizio: per caso arrivò, causa amici in comune con la passione per il
pallone. Che poi ci siamo ritrovati – dopo altri dieci anni così e così – alla
prima edizione del concerto del primo maggio, tutti e due soli, con la fortuna
di poterci raccontare addosso. Mi parlò di Rubbia e delle sue capacità
scientifiche; io replicavo come al solito improvvisando racconti allegri sulle
mie peripezie o fobie, a secondo del tema. Sulle nostre teste una coltre di
smog invisibile che ci avrebbe accolto di lì a poco come cittadini, provocando,
forse, poiché toccherebbe chiedere conto magari a Rubbia, la morte di uno dei
due. La sua, poiché io mi ritrovo qui a raccontare spietatamente fatti
altrimenti sotterrati anche loro, tra preservativi e papaveri. Non penso mai a
mio padre morto. I miei pensieri si fermano sempre al livello del mare. Come
dicevo prima, e là che ci sono le storie da tirare su col retino. Seppure col
tempo abbia recuperato un po’ d’amicizia con Marco, niente cancellerà quel
lancio cinico di sassi. Avrei potuto ammazzarlo stecchito su di un sentiero
avanzato allo squarcio di una strada, che stava tra la sua bella casa in
collina e la mia, al di sotto, tra i vicoli ammuffiti. Vabbè, mica per odio di
classe che l’ho fatto. Solo per odio. Sì, a volte ho provato odio feroce e,
come Maurizio, l’ho trasformato in ottusa violenza. Io? E sì, proprio io.
Allora perché pensare male di Pino, che poi ha fatto solo quello che sentiva di
fare, fregandosene delle mie romantiche attese? Ma io non odiavo Pino, anzi.
Volevo essere come lui, spaccone e malinconico che scopava quasi tutti i
giorni. Pino a un certo punto non volevo vederlo più. Con la scusa che mi ero fidanzato,
lo evitavo con stile. Una volta ho proprio fatto finta di non vederlo: quando
mi sono accorto che stava di fronte a me, al tavolino del bar “Polo sud”, be’
proprio in quel momento mi sono tuffato nella bocca di Barbara. Quella per poco
non soffocava, di certo non era abituata a essere presa in quel modo in
pubblico. Tanto che nel giro di alcuni minuti stavamo già sulla spiaggia a
rotolare tra lattine vuote e mozziconi appiattiti. Quella volta Pino finalmente
ha capito: non eravamo più amici al quadrato, solo amici. E a lui non bastava.
Lo conoscevo, voleva le cose piene piene, a metà le lasciava cadere. Era così,
e non mi dispiaceva che lo fosse, ma io dovevo respirare, e anche un po’ stare
con la fidanzata. Eh.