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sabato 25 maggio 2013

trilogia della presunta onestà di mio cugino



Non me ne importa nulla di scrivere per diventare popolare, come dice mio figlio quando descrive i personaggi più in vista della sua scuola, no, scrivo per te. Per voi. E che sappiate bene cosa scrivo, cosa voglio dire; ora, nel 2013 avanzato, questa è la mia ridicola priorità. Dal vero, a cena o al parco, al telefono o via mail, è difficile, faticoso, delle volte impossibile. Scrivo per chiacchierare in pace. Per imparare a dire belle menzogne come nella prima riga di questo pezzo.
 
di Mimmo Jodice


E non mi accontento. Aspetto, e sono contento di piacere, di essere coinvolto in discorsi a volte più grandi di me, che, in fondo, quel me non ha letto ancora il meglio, e nemmeno ha vissuto molto, solo che si è fissato che vuol partecipare e provare a creare un mondo, una tana dove radunare amici e passanti curiosi.

Mi sono svegliato con questa frase nella testa: ricordo che avevo sempre voglia di dolce nel pomeriggio, da bimbo, ora, da uomo, vorrei che il dolce avesse voglia di me già dal mattino.

E poi, sempre come un chiodo nella testa appena sveglio, ma perché ce l’avevo già da ieri sera nei nervi e nel fegato, le canzoni di Giorgio Canali. Chissà perché.

 
 

giovedì 23 maggio 2013

block notes verde


L’ultimo film di Sorrentino mi ha lasciato un gusto strano nella testa. Speravo fino all’ultimo in un recupero, e che il film iniziasse davvero. Invece, ahimè, è stato un lungo prologo ridondante. Mi spiace, e mi pesa ammetterlo. All’uscita un nubifragio ha cancellato quasi tutto, ma stamattina mi sono svegliato con l’immagine della Santa negli occhi, e della sua ciabatta che tuona contro l’immobilismo della mondanità. Punto, e a capo.
 
 

Poi, vedi che non ci riesco? poi ho pensato, vedendo il film e tutte quelle scene su Roma e le sue albe, i suoi colori di marmi e di donne, ho pensato che io quella Roma non la conosco quasi per niente. L’altra sera infatti, cercando il Chiostro del Bramante, c’ho impiegato lo stesso tempo che forse ci avrebbe messo un semplice turista russo, includendoci una vodka al bar. Quindi, mi arrendo, e dichiaro la mia totale estraneità alla Roma di Flaiano-Fellini, Sorrentino- Gambardella, almeno dal punto di vista esistenziale. A meno che non vogliamo ammettere che l’estetica, il fascino di certi ambienti sia soltanto narrazione alta. Quasi fantastica, poco rappresentativa dei sentimenti sparsi a macchia di leopardo che fremono negli isolati quartieri della città. Allora ogni cosa avrebbe il suo posto, ogni libro il suo spazio, ogni personaggio la sua gloria. Ogni mio sentimento una propria mappa.

 

domenica 19 maggio 2013

ballando s'impara


La fettuccia di cento chilometri sembrava un corridoio, ai lati c’erano le stanze dei miei amici di questi mesi: Itri, Sermoneta, Aprilia, Pavona. Poi gli spettri: la spiaggia di mio padre, la palude di Pennacchi, le montagne della guerra. Ma io non ci sono in quella Storia, appartengo alle mie piccole cose e a quei vecchi poster appiccicati nella mia cameretta, messi lì con scotch e puntine, con l’intenzione di dichiarare guerra alla realtà. La sera prima di addormentarmi farfugliavo: non studio più, vado via con i pensieri e aspetto gli amici migliori del mondo. Che mi salveranno. Mi comprenderanno, senza sciupare in mosse vigliacche la mia sensibilità. Sì, il mio unico tesoro sempre disponibile e mai in disuso, era e sarà la mia sensibilità. Non confondetela con la bontà, per cortesia, sapete meglio di me quante nefandezze fa commettere un’alterata sensibilità. Quanta furia ideologica fa precipitare fuori dalla testa un’ottusa sensibilità. Certo, a dire il vero, a me scuote anche l’anima dilatandola come una sacca di linfa dorata, ma non perdona passi falsi; crea bei pensieri circolari, ma poi la notte rade al suolo ogni certezza. Tant’è, sono alla sua mercé. Per questo rifiuto di leggere certi grandi classici, e non mi preoccupo di acquisire conoscenze imprescindibili per uno della mia epoca. Perché la presunzione, effetto collaterale della sensibilità, mi evita lo sforzo di studiare. A lei basta solo osservare - fissare le persone come opere d’arte - per poi ricrearne mondi e mostri. E già.

Vorrei dichiarare guerra alla mia sensibilità dissociandomi dalla sua tirannia, ma poi, a pensarci bene, questo significherebbe uscire di scena dal migliore palcoscenico che abbia mai gestito; così rimarrei un ordinario impiegato al servizio del potente di turno, con umile onestà parteciperei alla riuscita della società. E poco più.

Allora, mi sa che sia più saggio tradirla amandola anche nei pomeriggi afosi: la farsa, la spocchia, la prepotenza e la carezza. La notte poi, nascondendomi, mi lascerò sopraffare sotto i colpi emotivi della regina delle mie giornate migliori: la beata inconcludente sensibilità.

 Al mattino fresco e rilassato mi rallegrerò di come cazzo faccio a sopravvivere in un mondo così. Semplicemente, la mia seconda moglie, la ridente e fuggitiva sensibilità, mi costringe col suo sguardo a ballare tra alberi e palazzoni in compagnia di pensieri bambini e di oscene signorine. Ballando s’impara.

Vorrei stare ora nel pensiero di me che guido l’auto verso casa, dopo un lungo viaggio, e sul sedile ascolto già le parole dei miei figli, e vedo i loro sguardi di stupore nello specchietto; questo mentre scorrono davvero immagini di capannoni luminosi davanti a colline fantasma, e sotto alcuni uomini che scappano fingendo di evitare le oscenità nell’ombra dell’alba blu.

 

lunedì 6 maggio 2013

i racconti di Mimì


 Questi racconti hanno un filo fragile che li lega: i personaggi gravitano tutti nel mondo della musica, da outsider o precari, improvvisati o in declino. Che appare come un mondo cui lo scrittore voglia suggellare con dei ritratti asciutti e memorabili. Da sempre diffido di scrittori di canzoni che passano a scrivere libri di narrativa. Da sempre aspetto che lo faccia qualcuno in particolare, da potergli concedere il lusso di sfidare la mia patetica diffidenza. Non di certo mi aspettavo che Mimì Clementi scrivesse questi racconti. A volte aspettare è un po’ come annegare; invece questi racconti emergono con freschezza salata, di un tempo chiuso, lontano, da cui congedarsi con stile. Nei personaggi ce n’è di stile, nelle loro movenze o nelle loro vite dissolute, e in certe scelte che disegnano un profilo, assai diverso da quello che conoscevamo già. Questo pare che faccia Clementi, che già nei testi delle sue canzoni, secche e aperte, mostra ritratti definiti da gesti o passi illuminati da una luce di taglio. E mi pare un po’ come il muro che ho appena tinteggiato, che quando ci sparo il faretto da sotto mostra tutte le parti non rasate per bene e i buchi tappati troppo in fretta. Poi mi siedo e dal divano vedo una parete uniforme e bella, e lo è soprattutto perché so di quante sfumature compongono l’insieme, e il valore aggiunto sta nelle piccole crepe e nelle ruvidità ricoperte di verde che ne alimentano la bellezza.

Questo libro di racconti è limpido e fresco, nei suoi dialoghi misurati, nelle essenziali e sensibili descrizioni degli ambienti e nella – sempre difficile -  discrezione di mostrare con dignità le debolezze umane, senza tacerle o esaltarle nel brodo della diversità. Tutto appare difettoso nei personaggi, tutto barcollante e prossimo a cadute la narrazione di certi ambienti. Niente appare di più, o sfocato, perché ogni parola è a posto, ogni attimo è scandito con cura. Ecco, la forma si fagocita ogni diffidenza e mi lascia godere dell’affetto che lo scrittore ha nei confronti dei suoi personaggi: Fausto Rossi riappare come nella canzone sotto l’insegna della Sony, ma con una dilatazione che lo restituisce ancora più commovente. Marylin martoriata che risucchia dentro la sua morte ogni presunta innocenza americana. La signora che chiede di essere intervistata e costringe il giornalista e la sua morbosità a bassa tiratura a retrocedere davanti a una vetrata di un ristorante cinese, dove la signora, attrice improvvisata in un film su Glenn Gould, attraverso una sorta di affinità elettiva gli lascia intravedere un grumo di amicizia, nell’ascolto e nell’attesa della reciproca conoscenza. Bello vedere da dietro il giornalista-musicista che si aggrappa alla signora di settantadue anni, arzilla di curiosità nel suo presente.

Capita spesso che le parole colorino troppo le storie, soffocandole in anguste stanze, dove manca la necessaria sfumatura. Quello che riesce a fare Mimì Clementi in questo libro, sfatando diffidenze e pregiudizi che a volte mi costringono in scantinati polverosi della mente, è quello di riscaldare i racconti senza incendiarli, seppure le vite là dentro appaiono prossime all’autocombustione.

Grazie a Ettore per avermelo prestato, alleggerendomi di un’inutile diffidenza.

sabato 4 maggio 2013

la poesia è sempre in fuga



poesia di Dino Campana

La sera fumosa d’estate
Dall’alta invetriata mesce chiarori nell’ombra
E mi lascia nel cuore un suggello ardente.
Ma chi ha (sul terrazzo sul fiume si accende una lampada) chi ha
A la Madonnina del Ponte chi è chi è che ha acceso la
[lampada? - c’è
Nella stanza un odor di putredine: c’è
Nella stanza una piaga rossa languente.
Le stelle sono bottoni di madreperla e la sera si veste di velluto:
E tremola la sera fatua: è fatua la sera e tremola ma c’è
Nel cuore della sera c’è,
Sempre una piaga rossa languente

giovedì 2 maggio 2013

senza titolo


Ci sono delle volte che mi viene voglia di entrare in un centro sociale, o in certi parchi affollati di tardo-frikkettoni, e implorare: amici, il vostro conformismo tocca sublimi e imbarazzanti vette. Fate finta di niente e sdraiati beati  abbassate la guardia, al resto pensa papà, zio o qualche padrone cattivo. No, amici, così non va. Il vino è buono, le patate son biologiche ma i discorsi sanno di muffa che schiattano i miei ultimi neuroni libertari. Voglio passeggiare tra oleandri senza masticarli per forza, e osservare donne eleganti senza sfiorarle mai. Non per questo non ami gli oleandri rossi o non desideri le donne bionde. C’è stato un tempo di spavento dove avevo paura del vento che veniva da Ovest: ero piccolo nel mio cappotto. Oggi mi lascio vestire dal mio tempo, e non cedo al richiamo dei bei tempi.

A uno a uno vi fisso e non provo più amore. In quel recinto scalcinato, tra gonne lunghe e bimbi viziati, orti sinergici e tarantelle tristi, non sento più niente. Non vedo che tentativi già falliti. In questi rifugi anticontemporanei, in queste gabbie ecosostenibili io sento stanchezza che nella mia testa diventa amarezza. Potevamo di più, potevamo il mondo intero di sogni, amori e futuri inesauribili. Potevamo. E non siamo. Solo passaggi di testimone, che sono sempre gli stessi da quarant’anni. Basta, per oggi basta così. Perdonatemi amici, e nel farlo usate la vostra infinità genuinità, e lasciatemi sparlare di un mondo che ho sfiorato di ammirazione e mai amato fino in fondo. Allora meglio lasciarci da buoni amici, ché non capirsi come veri nemici.

Ho scovato questa poesia di Carver, essa mi ha spinto a scrivere questa cosa lugubre, non so davvero il perché, ma come dice Carver: scrivere è un processo di rivelazione.

raymond carver

TRA I RAMI

Sotto la finestra, sul balcone, ci sono degli uccellini malridotti
che si affollano attorno al cibo. Sono gli stessi, credo,
che vengono tutti i giorni a mangiare bisticciando. C’era un tempo,
[c’era un tempo,
gridano e si beccano. Sì, è quasi ora.
Il cielo rimane cupo tutto il giorno, il vento viene da ovest e
non smette di soffiare... Dammi la mano per un po’. Tienimi la
mia. Così va bene, sì. Stringimela forte. C’era un tempo in cui
pensavamo di avere il tempo dalla nostra. C’era un tempo, c’era
[un tempo,
gridano gli uccellini malridotti.