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venerdì 28 giugno 2013

le cellule depresse di cugina memoria


Sento il contraccolpo del suicidio annunciato di alcune centinaia di mie cellule depresse. Erano giorni che ne avvertivo i segnali macabri e invadenti: l’ultimo ieri sera quando alle sette, poco prima della doccia, non mi hanno lasciato andare al Circolo degli artisti. Anzi, no, l’ultimo è stato un’ora fa, quando mi hanno costretto a mettere un cd dei Marlene Kuntz, di qualche anno fa. Mi andava di ascoltare Nina Zilli, così, per cazzeggiare in vista dell’imminente depressione estiva, e per illudermi di non dover cadere come sempre davanti alla fila di auto che vanno al mare, a mezzogiorno, prima di mangiare il panino con la mortadella, ma subito dopo aver evitato un collasso nervoso all’incrocio sull’Appia. Insomma, queste cellule mi hanno abbandonato dopo il mio ennesimo rifiuto di volteggiare con loro nel cielo disperato dei pomeriggi vuoti; che restano comunque vuoti, ma di un vuoto necessario, di un magone stagionale che anticipa la resurrezione invernale, quella sì che sa scaraventare ogni rottame all’aria, e fa piangere le cassandre da quattro soldi che ronzano intorno al caseggiato. Maledetta felicità gonfiata dai pubblicitari milanesi, estranea a me come lo è lo smog sul Gran Sasso; sì, se ne parla, tra un sentiero e un torrente, tra una risata e un bacio, ma è tutto così lontano! Ora, per farvi capire, la vedo giù a valle oltre l’autostrada, dietro le ultime case in pietra, di là del lago artificiale verso quei palazzoni pieni di gente in canottiera a righe.

 

Occasionale stupore di voler scrivere tracce bislacche, chiare solo a me. Avevo deciso di spegnere come cicche gli ultimi slanci, le ultime testimonianze al presente, e volgere lo sguardo verso facce e luoghi autentici. Non credo esistano più di quanto ce ne siano in questo specchio di bit dove mio cugino elargisce onestà come se fossero caramelle sulle teste dei bimbi nel ’44, nelle strade di Roma in festa. Certo, un’idea, uno slancio l’avrei pure: ci vorrebbe una festa liberatoria da organizzare per tutti quelli che leggono e sbuffano, spulciano e piangono dentro queste schermate indiscrete. Va', prepara il giardino e le sedie, le battute e le tovaglie, che qui bisogna apparecchiare la tua storia.

martedì 25 giugno 2013

ascoltare è dimenticare

vita rubina
 
                  ...mi rimprovera le cose che non ho voluto fare...

mercoledì 12 giugno 2013

solitudine (fermo per inventario)


c


"Dodici anni fa giurai a me stesso, preso dalla mano della poesia, di scrivere tanti racconti sui sentimenti umani, così labili, partendo dalla A e arrivando alla Z. Sono poesie in prosa. Ma alla lettera S, nonostante i programmi, la poesia mi ha abbandonato. E a questa lettera ho dovuto fermarmi. La poesia va e viene, vive e muore quando vuole lei, non quando vogliamo noi, e non ha discendenti. Mi dispiace ma è così. Un poco come la vita, soprattutto come l'amore”. Scritto da Goffredo Parise a proposito de "Sillabari".

giovedì 6 giugno 2013

mille euro al mese!


foto di luigi ghirri
 L’altra sera mi sono visto Piazza pulita. Ho subito un surreale dibattito con Grillo in una piazza che urlava contro La7 e i suoi giornalisti e i giornalisti in studio che parlavano di Grillo che ce l’aveva con loro. Tre ore così. Il tema strisciante che straripava dal video era l’impossibilità di vivere in un futuro decente per le prossime generazioni. Quest’ultima frase ronzava nella mia testa e mi ha costretto a stare sveglio fino alle tre. Giravo per casa a caccia di tranquillanti naturali: osservare i miei figli dormire sereni; intuire nel buio mia moglie placida e sognante; camomilla; pc a ruota libera; aprire la porta e sentire il buio sulla pelle. Poi, stremato all’idea che alle sei mi sarei dovuto svegliare, ho preso d’istinto un libro di Carver e mi sono letto il suo ultimo racconto: quello che riguarda gli ultimi giorni in vita di Cechov. E leggendo del brindisi dei personaggi col cadavere ancora caldo davanti, in una stanza all’interno della foresta nera, allora, chissà perché, in quel preciso istante ho pensato alla caducità come elemento che condiziona tutto quello che facciamo. Incluso osservare inebetiti un programma tivvù, in cui si recita il rancore e la banalità. Se si vuole, tutto questo può arrestarsi, lasciando entrare nelle nostre teste il peso della bellezza  (cit.) della vita. Fuori le scorie dalle nostre storie, ché alla crisi siamo già abituati da un pezzo, coi nostri mille euro al mese abbiamo costruito un mondo fantastico e privo d’invidia, di dolore e umanità come grappoli allegri che scendono su di noi.
L’indomani mi sono svegliato con la bellezza di Carver nei polmoni, e con la giornata che prendeva forma di rosa, ho sorriso in silenzio a tutti i bimbi che mi capitavano davanti, poi ho preso un caffè lungo chiudendo i conti con la notte.

lunedì 3 giugno 2013

parlo da solo

foto di josef koudelka


Stavi in mezzo alla carrozza, ti reggevi ai tubi freddi e guardavi gli scarponi. Due anfibi che ti avevano prestato, stretti, pesanti, ti costringevano a sederti. Avevi lavorato quattro ore presso il magazzino della panineria più diffusa del mondo. Trascinavi i carrelli zeppi di patatine e insalate, carne e maionese lungo i corridoi luccicanti della stazione Termini, con l’orrore negli occhi di incrociare altri occhi che ti conoscevano, e avrebbero riconosciuto un fallito, mica tu che eri partito carico di desideri. Stavi sulla metro e pensavi a un enorme buca. Avevi gli occhi gonfi e la schiena piegata. Non fissavi nessuno, come al tuo solito. Avevi voglia di sprofondare sul prato, o sul letto. Sei sceso e hai preso l’autobus facilitato dal sole di mezzogiorno. In tasca una ventina di euro sudati con disprezzo. Era luglio e molti chiudevano un anno di lavoro e pensavano alle vacanze. Tu chiudevi un anno di lavoretti e pensavi al lavoro che avresti cominciato a settembre. Un lavoro tutto nuovo, in un ambiente mai sfiorato prima: sensazioni da affrontare col cuore in spalla. Così fu.

Poi quella stanchezza spaesata e quello sguardo sarebbero tornati come torna la tramontana, ma per fortuna non torna quel terrore di buca aperta davanti ai sensi.

 

Stai in piedi e aspetti il referto, la paura si mischia alla noia e lo sguardo spazia dall’Eur ai Castelli, lasciando il presente che si sgretoli davanti alla macchinetta del caffè. Passerà, caro professore passerà, e gli sguardi avranno ancora alberi e fiori ad ostacolare il vuoto bianco.

Invece il vuoto che vedo sulla tua schiena, bianco di notte, lucido di crema, mi appassiona e fa volare verso le cose belle, e oggi basta così.