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mercoledì 28 novembre 2012

sette domande a Max Collini (offlaga disco pax)

Dopo aver assistito all'ultimo concerto a Roma degli Offlaga Disco Pax, in un'atmosfera intensa e densa emotivamente, la curiosità mi ha spinto, in quell'occasione,  di scambiare due chiacchiere con Max Collini per approfondire la sua conoscenza umana e artistica.
peppe stamegna




 

 


Com’è nato il progetto degli Offlaga Disco Pax?

Esattamente all’inizio del 2003.  Enrico venne a trovarmi per chiedermi se potevo essere interessato a utilizzare in altra forma i racconti che stavo scrivendo in quel periodo, racconti nati senza alcuna altra intenzione se non quelli di restare un esercizio di scrittura e niente altro. Avevo quasi trentasei anni, mi sembrò un’ idea bizzarra ma sposai la causa immantinente. Daniele era appena stato informato via telefono da Enrico della cosa e anche lui aderì al collettivo il giorno stesso. Iniziammo a provare, fu divertente ed ecco nati gli ODP. Quelle ore probabilmente ci hanno cambiato la vita, ma non ne eravamo certo consapevoli. Ancora adesso, dieci anni dopo, penso che il nostro inizio sia stato figlio di una congiunzione astrale di eventi cosmici irripetibili.
 
L’innesto dei tuoi testi con le musiche di Enrico e Daniele come avviene?
Spesso partiamo dal testo, nel senso che difficilmente Enrico e Daniele compongono senza tenere presente le atmosfere che per similitudine o per contrasto i miei racconti o le mie liriche suggeriscono loro. Non è sempre così, ma nella maggior parte dei casi si parte da quello. La sala prove è però fondamentale anche per la mia scrittura definitiva: solo con le musiche mi rendo conto di come il linguaggio può funzionare, la stesura del testo e la sua resa narrativa con la voce non può prescindere dal suono in cui viene inserita e non è raro che io cambi parole e frasi o almeno la loro lunghezza e costruzione proprio in funzione di questo.
 
 
Sei consapevole delle emozioni che riesci a far circolare durante i concerti? E dalla tua posizione sul palco, cosa provi?
Sembrerà strano, ma anche dopo quasi dieci anni e quattrocento concerti non sono mai completamente a mio agio sul palco. C’è sempre un tratto di tensione, di ansia da prestazione, di vago disagio nel mettersi a nudo e di scarsa adeguatezza al ruolo che mi rende terribilmente nervoso. Più che di trasmettere emozioni spesso sono preoccupato di tenere a bada le mie, ma di solito dopo tre o quattro brani il concerto diventa più sereno, mi tranquillizzo, nelle occasioni più felici riesco anche a lasciarmi andare un po’ di più e può accadere che mi esca una battuta o una considerazione imprevista su quanto succede. Se parlo sul palco tra un brano e l’altro e non mi limito alla sola presentazione del pezzo (già quasi sempre scritta sul leggio per non sbagliare) significa che sto bene e che sono rilassato, altrimenti è sostanzialmente impossibile che io scherzi o parli col pubblico più di quanto già faccia attraverso i testi. Non si direbbe, immagino, ma il palco mi annichilisce quasi sempre.
 
Da tempo leggo i tuoi racconti, già dalla mailing list “neosensibilista”. Riesci a rappresentare un presente ancora non del tutto raccontato, e per farlo spesso utilizzi pezzi di storia personale che gravitano intorno all’universo Reggio Emilia. Qual è la tua urgenza quando inizi a scrivere?
Proprio nessuna urgenza, da tempo sono diventato assai lento e poco prolifico nell’approcciarmi alla narrazione. Sarà che il gruppo ha assunto una sua specificità per cui ora scrivo pensando quasi esclusivamente a quello, per cui mi cimento molto meno nel semplice diletto. Non è una cosa voluta, così è avvenuto e così è al momento. Forse la responsabilità che comporta oggi stare negli ODP ha un po’ limitato l’aspetto gioioso della cosa, ma non posso farci nulla.
 
Nelle cose che scrivi scorre molta Storia. Come se ci fosse una volontà di recuperare facce, gesta e umori che altrimenti si perderebbero. C’è la volontà di sanare una ferita storica, personale?
Se c’è è del tutto involontaria, non è uno scopo preciso quello che agisce sulla mia “poetica”, se così vogliamo chiamarla, se non raccontare una storia, qualunque essa sia. Certamente il mio imprinting culturale è legato a un periodo che sta tra il riflusso, il declino e poi la fine del patto di Varsavia e il conseguente nuovo ordine (o disordine) mondiale. La scomparsa del PCI che ha accompagnato tutto questo è il lutto fondamentale che ha segnato il mio esistere in quel momento, è quella la vicenda che in qualche modo incide anche adesso sul mio sentire.
 
Che cosa stai leggendo in questo periodo? E cosa ascolti?
Da parecchio tempo leggo appassionatamente tonnellate di romanzi gialli svedesi, con una predilezione assoluta per Henning Mankell. E’una cosa imprevista: fino al 2008 non avevo mai letto un giallo in vita mia, nemmeno Simenon o Conan Doyle, per dire. Questa passione è nata per caso un giorno in treno, mentre snobbavo come tanti altri la trilogia di Larsson mi sono trovato davanti il primo volume: apparteneva alla signora di fronte a me e che nel frattempo stava leggendo altro. Me lo ha prestato, l’ho iniziato, mi sono appassionato all’istante, sono sceso dal treno e l’ho comprato subito per poter continuare la storia. Da lì è nato l’amore per la Svezia, paese che ho poi visitato nel 2009 viaggiando in macchina da Reggio Emilia fino a Stoccolma e soggiornando anche a Ystad, la cittadina del commissario Wallander (un posto che sta a Wallander come Vigata a Montalbano, per capirci).
Kurt Wallander è il personaggio che ha segnato la carriera di Henning Mankell, lo scrittore che ha influenzato più di tutti assieme alla coppia  Maj Sjöwall e Per Wahlöö i tre romanzi di Larsson. Ora che ho esaurito i capiscuola mi accontento delle seconde file: Asa Larsson, Camilla Lackberg, cose così. Non è la stessa cosa, ma si fa come si può. So che molti si aspetterebbero da me letture più sofisticate, ma io sono un geometra, non ho studiato filosofia, la mia cultura letteraria ha dei limiti e mi piace leggere anche per il mero divertimento che questo comporta e non sempre ho voglia di applicarmi. Di recente ho letto “La vita agra” di Bianciardi, ero sempre stato prevenuto, chissà poi perché, e invece è stata una bellissima sorpresa. Ringrazio davvero chi me lo ha regalato, facendomi superare un pregiudizio atavico davvero immotivato.
 
Ti trovi a tuo agio nella scena musicale indie italiana? Quali sono i gruppi con cui vorresti collaborare?
Di norma mi trovo a mio agio ovunque, l’ambiente “indie” non è poi così diverso da ogni altro ambito lavorativo e/o ludico. Certo, ha le sue regole a volte un po’ astruse, ma è da lì che in qualche modo e con varie sfumature veniamo, anche se ai primi concerti a più di qualcuno sembravamo dei veri alieni! Non essendo un musicista non so rispondere precisamente alla seconda parte della tua domanda, ma il “collega” che ammiro di più in termini di espressività dal punto di vista letterario è Simone Lenzi dei Virginiana Miller. Per la mia sensibilità i suoi testi sono bellissimi e in qualche caso “importanti”. Ho letto di recente anche il suo romanzo d’esordio “La Generazione” e lo consiglio. Da quel libro Virzì ha tratto spunto per la sceneggiatura di “Tutti i santi giorni”, il suo ultimo film. Ovviamente libro e film non sono proprio la stessa cosa e per quanto il film sia divertente il romanzo, come quasi sempre accade, mi ha colpito di più.
 
 
 
 
 



 

 

 

 

mio padre io e le storie


Mio padre aveva un corpo tozzo di muscoli e nervi, io no. Aveva uno sguardo torvo e penetrante, io no. E mi voleva bene, questo senza corredo di parole, poiché quelle poche che utilizzava riguardavano debiti, ingiurie o litigate con mia madre. Ma anche battute fulminanti o accenni di canzoni a tema - se pioveva ne aveva un paio all'occorrenza - e suoi dolci ricordi d’infanzia. Riusciva a recuperare, l’affetto intendo, con lunghe passeggiate silenziose che a me apparivano mete graduali per arrivare all’amore totale. Solo per me. Così non era, ma ricordo la sua gioia quando capiva che lo ascoltavo fremente la sera sotto le coperte: racconti tragici o comici, di paura o realmente accaduti. Storie. Mio padre era semi-analfabeta, ma leggeva tutte le riviste accumulatesi durante l’inverno, che mia zia da Roma portava al paese. Tutte. E le rileggeva pure; avesse avuto dei genitori sensibili almeno la “Domenica del corriere” gliel’avrebbero comprata. Invece, solo fatiche di mare. Io leggo, da sempre, anche se a scuola in italiano avevo al massimo cinque. E la grammatica sta a me come la legalità sta a Berlusconi. Mio padre non mi seguiva coi compiti, gli interessi o gli stimoli che gravitavano intono a me, e io, spero, invece di farlo coi miei figli. Ma è un altro discorso, un’altra epoca, altri figli. Inutile leggere la storia come se fosse una strada lineare e priva di buche…Quest’articolo mi sta facendo riflettere molto e quasi spaventando dal piacere. Ma cosa scrivi? Cosa stai aspettando?


 Lasciarmi andare verso strade già calpestate e lo stesso amare la vita come un topo ama rosicchiare la guaina isolante del tetto. Qualcosa dentro ci sarà, allora rosicchiamo il più possibile e facciamo tanto fracasso ché tanto una trappola prima o poi ce la becchiamo pure noi.

domenica 25 novembre 2012

caldo gelo tra di noi


Cala il gelo quando diciamo chi siamo. Io col mio inadeguato e barcollante stare al mondo e tu, sereno, col tuo attaccamento agli affari che contano. Ma tu sei buono, lo so, e ti voglio bene, lo sai, ma questa fratellanza non può più durare in questa fetta di storia di abbondanza maledetta che stiamo vivendo. A me tocca di continuare a starmene tra le pieghe sentimentali dei giorni e a te in quelle che condizionano la realtà, e che decidono, e che armano i nostri giorni futuri. Il presente ci rende uguali, fratelli, ma non lo siamo. Ammettiamolo! cazzo, ammettiamolo. In questi anni mi sono fatto pressare dai sensi di colpa di una famiglia fragile, e così lo Stato, il sistema, e alcune decine di cooperative sociali, mi hanno lasciato espiare tenendo a bada delinquenti e adorabili pazzi. A volte anche bimbi molto più sfortunati di noi, oltre alla indefessa assistenza di anime sensibili in preda a crolli ciclici. Pensavo di essere forte e unico, nel mio settore e tra gli amici. All’improvviso un vento glaciale ha spettinato tutte le mie velleità, e sono rimasto seduto ore e ore sul gradino di marmo: fuori il grigio mangiava il blu, e gli uccellini anticipavano la migrazione esotica.

Ci sono stati giorni di sbandate emotive fatte di conati e arrabbiature. Qualcuno mi ha abbracciato e altri scacciato con eleganza contemporanea: vai dallo psicologo! E ci sono andato, e ora sono tornato nel traffico delle parole, soldi, amici, vino e votiamo Vendola, così giochiamo bene il nostro ruolo di guardiani del giusto. Bah, intanto oggi mi sono visto un film che mi ha schiaffato in faccia la realtà che ci giostra da anni da renderci quasi tutti piccoli piccoli ogni mattino, sotto pensiline minuscole e la pioggia a vento che ci inzuppa; e noi subito a scriverci poesie su, per far arrivare il bus in ritardo, che si sa che il romanticismo rallenta ogni movimento. Ci resta il piacere dei corpi freschi che ancora sentiamo addosso, e tanta legna da ardere per stordire dentro serate ventilate nelle nostre strette e immense case.
 

Venendo a scrivere al piccì mi sono staccato dagli affetti, credo che ogni vera scelta debba seguire quest’andamento rinunciatario. Ecco, io non cambierò mai. E vincerò lo stesso. Scrivendo di me e di te, che siamo stati belli anche senza trucchi.

lunedì 19 novembre 2012

manifesto


Oggi ho visto un manifesto che pubblicizzava un evento letterario. Dichiarava che si trattava di letteratura libertaria, ribelle o giù di lì. C’era scritto di editori precari e anche scrittori precari, e poi una serie di figure precarie o ribelli o clandestine. Slogan. Solo slogan. Fino all’altro ieri anch’io campavo di slogan, i  miei manifesti erano le parole prese a prestito da situazioni gonfiate già da altri. Dagli anni settanta fino all’altro ieri. Sono stufo. Sono sereno. Perché ho scelto di parlare con i miei piedi, e di raccontare con le mie debolezze. So di poter far meglio ma anche di non fare nulla. Avrei dovuto strappare quel manifesto pieno di slogan, ma perché? In fondo non m’interessa contrastare qualcuno o qualcosa, vorrei soltanto affermare il mio mondo, il mio limite verde.

L’altra sera ho assistito a un concerto di un gruppo che fa musica gradevole, con impegno e stile. Eravamo una ventina a sentirli eppure oggi penso commosso alla loro gentilezza e al loro furgone pieno di strumenti e ambizioni. Giusto che sia così altrimenti perché non cantare soltanto per la propria fidanzata?

L’altra mattina ho coordinato un gruppo di papà coi loro bimbi, credo sia stato un momento di serenità per me e per le loro storie acerbe. Ci sporcavamo le mani assieme senza conoscere i nostri segreti intimi, e con essi le nostre ambizioni, le nostre fughe da vicoli stretti. Vedere una collaborazione viva tra i bimbi e i papà e tra bimbi e bimbi, e tra me e tutti loro, in una stanza di luce obliqua che metteva in rilievo le forme appena realizzate, be’, tutta questa mescolanza umana mi ha proiettato fuori dall’incubo durato vent’anni. Il piano è resistere, dice il cantante.

domenica 18 novembre 2012

lago ghiacciato


 

 

Tonino scende di corsa le scale del policlinico. Una volta all’uscita si ferma e guarda il grande piazzale del parcheggio. Sembra ghiacciato d’auto. Minuscole persone che staccano dal turno anch’esse. Il gabbiotto del parcheggiatore è buio, si riconosce per abitudine d’orizzonte. Il tondo fascio dei lampioni gialli non arriva a coprire l’enorme lago ghiacciato. Qua e là ciuffi d’erba sopravvissuti al calpestio pensieroso dei visitatori ansiosi di arrivare il prima possibile dallo specialista, o dal parente ricoverato. Il rumore di tazzine scaraventate con stile da baristi scalmanati è solo ricordo di giorno, niente, ora c’è soltanto il lago ghiacciato.

 
“Pronto, dimmi!”
“Ciao Grazia, niente, sto in rosticceria e volevo chiederti se ti va di mangiare con me il pollo alla diavola”.
“ Ti ricordo che non viviamo più assieme da mesi, sei un po’ distratto…”.
“ Già, ma avevo voglia di divorare il pollo con te”.
“ Senti finiamola qui prima di sprecare venti euro di telefonata per niente”.
 
Stasera la città è vuota di partita di calcio e il percorso lavoro-casa si accorcia, la mancanza di code gli fa balenare nella mente la possibilità di telefonare a Sara, dopo il categorico e scontato rifiuto di Grazia. A Sara piace ricevere telefonate la sera, all’improvviso, e risponde sempre come se fosse la CHIAMATA. Mentre tentenna prima di chiamarla sfoglia la posta della pubblicità della cassetta condominiale. Viaggi fantastici e pizze consegnate a domicilio con soltanto quattro euro, con la birra in omaggio, se prendi pure il supplì. Di fronte la vetrata sporca da lavori in corso interrompe la trasparenza. Fuori, nel piazzaletto mattonato marrone si vedono piante solite da condominio, almeno romano, almeno urbano. Dentro all’atrio parte la telefonata. Interrotta un attimo dopo dal segnale tutu tutu. Allora sale i due piani fino a casa lentamente. Forse sta trascorrendo lo stesso tempo che c’impiega solitamente Sara nel baciarlo, poco prima che gli sbottona i pantaloni, quel lungo bacio dove passano milioni d’intenzioni, sogni e aspettative di fine settimana di vita. Una volta Sara ha pianto dopo quel bacio. Voleva spiegargli con parole miste a lacrime la sua condizione di ragazza trentenne laureata, sottopagata, e con una credenza piena di carciofi e melanzane sottolio, scamorze e soppressate. Da mangiare nelle serate fredde, da sola, perché con quella con cui divide la casa proprio non le va di dividere pure il cibo tribale che sua madre le invia ogni mese. Allora mentre piagnucola si mette a raccontare di quel ragazzo del suo paese che la tormenta per tutto il mese d’agosto, a cui non ha dato nemmeno un quarto del bacio che da solitamente a lui, ma che, lo stesso, insiste peggio di un operatore di sky per quei cazzo di abbonamenti. Ti piace il calcio? E i film? Ma va va, questo Sara lo dice proprio mentre sta passando il guado lagnoso per approdare alla cintura di Tonino, slacciandogliela anche stavolta. Subito dopo si disperdono in una nuvola rossa il ragazzo opprimente del sud, la rompipalle di sky e tutte le pieghe tossiche del giorno. Tonino con una smorfia testimonia il passaggio della nuvola e accetta sereno il rimedio.
 
“Sara cara, come stai?”
“ Benone! E tu, cucciolo mio, come va? Non ti sento mica sereno, come mai?”
“ Niente, solo stanco di una giornataccia di lavoro…ma cosa fai, ora, che fai?”
“ Sto andando al cinema, vieni pure tu, dài”.
“ Al cinema? No, no, mangio qualcosa e vado a dormire. Grazie però”.
“ Vabbè non insisto, perché tu sei proprio un capoccione. Un bacio”.

Sbatte la porta sovrappensiero. Ma il rumore lo scuote lo stesso e gli indica il tormento da seguire. Così si siede davanti al portatile e comincia a scrivere.

 
Stavo nel salone dell’ostello. Come spesso accade in questi luoghi s’incontrano persone, quindi spensierati si chiacchiera fino tarda sera. Stavo lì con Grazia, e anche lei come me era affamata e curiosa di persone da conoscere. C’era un ragazzo. Del sud. Pareva un po’ ubriaco. Diceva cose sconnesse e s’intuiva una rabbia mista a rancore per alcuni parenti di giù. Non era tutto chiaro. In questi casi capita che uno diventa personaggio per quella serata  e si prende tutta la scena. Questo ragazzo lo aveva fatto con un po’ di aggressività. Scherzavamo cercando di abbassargli d’istinto l’aggressività, ridendo delle sue lugubri battute. Almeno ci abbiamo provato. A un certo punto questo ragazzo alza il tono della voce e fa vedere la pistola che ha con sé. Dice che deve ammazzare un parente. Tutti restano col fiato strozzato in gola. Nessuno parla più. Dopo dieci minuti mi ritrovo in bagno e vedo questo ragazzo e la sua pistola in evidenza. Ho paura, per la prima volta ho paura davvero della morte. Di quella improvvisa. Quei cinque minuti in bagno assieme a quel ragazzo con la pistola sono stati tremendi. Perché quel ragazzo cominciava a delirare contro gli ospiti dell’ostello e maneggiava la pistola come fosse una compagna perversa con cui fare cose strane. Una volta nella stanza, nel mio posto a piano terra del letto a castello, mi sono messo ad ascoltare i discorsi di politica che gli altri due dei piani alti stavano facendo. Il craxismo e le sue schifezze era il tema, tenerezze al confronto del pistolero pazzo in bagno. Quella paura per una morte casuale, violenta e improvvisa ancora oggi è viva nella mia mente. E anche oggi voglio scacciarla, stavolta al posto di Craxi c’è Sara. Anche se lei ora sta comoda al cinema e io qua mi slaccio i pantaloni da solo.
 
Le ossa del pollo formano un quadro astratto, tipo cubista. La faccia di Tonino un po’ espressionista riflette nel piatto cubista e si pietrifica. Fuori le macchine si rincorrono dopo la partita. I vicini vedono un film porno a tutto volume. Il cinema dove siede Sara è mezzo vuoto. Tonino forse pensa a Grazia, alla sua irriducibile volontà di abbandonarlo ogni giorno, dopo ogni telefonata. Anche in quelle serate mondane dove s’incontrano da amici, pure col sorriso leggero riesce a trasmettergli una chiusura ermetica al suo cuore. Grazia non è cattiva, solo delusa. Poteva aspettarsi di tutto da lui, in fondo quando l’ha scelto era così strambo nelle sue manie. No, l’ha abbandonato alle sue manie per il fatto che non aveva più voglia di stare con uno che si era rassegnato a fare il portantino, assunto tra l’altro da una cooperativa, quindi sottopagato, pur di non insistere con l’università, la scrittura e un mondo di intellettuali brillanti. Loro in fondo ne facevano ancora parte di questo mondo, ma solo a sprazzi, come outsider senza portare nulla di originale in quei sabati sera di vino e risate. A lei questo pareva assurdo. Infatti, sforzandosi come una ribelle marxista degli anni venti, si era iscritta all’università e dava esami tra turni massacranti allo sportello reclami dell’agenzia delle entrate. Un lavoro fatto di pazienza e strategia, altro che statali imboscati, qui si salva il paese dalle insurrezioni quotidiane! Così raccontava agli amici quella sera, e mentre lo faceva provava quel gusto di donna impegnata che le ricordava certe donne degli anni settanta che rigorose e belle rappresentavano un cambiamento possibile.
 Intanto Tonino contava gli ossicini del pollo grattandosi il capo lentamente.

 
La strada lampeggia insegne e il vento anima il silenzio, Sara si è fatta accompagnare a casa di tonino. Citofona. “Posso salire cucciolo?”
Il pantalone a terra forma una V e dirige lo sguardo verso i suoi piedi minuti. Le unghie viola sembrano morte e le caviglie mostrano una tensione appena vinta. Tonino osserva il corpo rannicchiato di Sara rimbalzando di tanto in tanto lo sguardo verso il soffitto, come un flipper impazzito dove non si vince mai. Di scatto, dopo averle studiato ogni venatura e ogni piega della carne, le accarezza la nuca ripetendo, anche se con un ritmo più lento, gli stessi movimenti del pompino appena ricevuto. Subito dopo Sara si è addormenta di colpo, succede che si addormenti sopra la sua pancia dopo l’intimità di quei momenti. L’aria della stanza è umida e fa pensare alle lagune con quei rospi sazi a fare da guardia al buio lungo la riva sabbiosa. Dopo averla accarezzata, va allo scrittoio e comincia a scrivere nervosamente.

 
Quella volta della paura per la morte improvvisa in effetti è stato solo una prova, per i miei nervi, la mia sensibilità. Avevo bisogno di capire dove stava riposto quel buco nero, quello della memoria sporca di esperienze da custodire al riparo da tutti. Quello delle botte prese dai parenti. Quello delle violenze subite, viste, nei racconti e dal vero. Più dai racconti, certo; anche se ricordo bene quella volta che abbiamo prelevato una donna dalla sua casa, alle due di notte, per portarla sulla spiaggia e dove alcuni di noi l’hanno palpeggiata pesantemente, anche se lei era consenziente già dall’uscio di casa, risultava comunque una scena insopportabile; di certo non era del tutto consenziente la mia coscienza che si è messa a urlare agli altri di farla finita, visto che quella signora era anche un po’ ritardata, e anche madre, con una sua vita normale di paese. (Maledizione! Ma chi frequenti?) Ma ormai era tardi e alcuni amici con quel nostro accento siciliano marcato stavano già volgarizzando di più la scena, con parole sconce che provocavano risate e cazzi dritti al resto della banda. Quella notte ho deciso di fuggire via da Milazzo, e ho percorso con la mente tutte le schifezze vissute a cui non avevo dato un peso fino ad allora. Certi ambienti sono vigliacchi già dalla nascita, e non lasciano spazio alle cose belle da immaginare. Solo schifezze e violenze. L’Espressonotte che mi ha condotto a Roma era pieno di questi attori schifosi, con quella loro puzza di piedi che prendeva alla gola. Fanculo, dormo nel corridoio.
 
Il primo autobus del mattino fa la sua curva con la solita scioltezza. Il bar è già aperto, e il via vai rende la strada viva e densa di attese. Ognuno di loro si aspetta qualcosa. Quella donna con il vestito nero oggi ha un colloquio di lavoro importante. Il signore con il giubbotto di pelle e il casco che gli pende dalla mano, sta immaginando come sarà la ragazza conosciuta su Facebook, cui offrirà un cappuccino al miglior bar del quartiere. Quel ragazzo con i capelli biondi accelera per non perdere il treno, quello che lo porterà all’ingresso del liceo, e infine, tra le braccia di Cristiano, che non lo sa ancora nessuno, ma già è diventata una cosa importante.
Tonino rientra nel salotto stringendosi le braccia. Osserva lo sguardo infantile di Sara mentre va verso la cucina. Il primo caffè va bevuto da solo.

 

 






 

domenica 11 novembre 2012

pietra lavica da scalare


Ieri avevo una febbre di quelle sotterranee, che minano l’umore e le gambe. Allora pensavo male di certi amici e di alcuni parenti, capita a volte di odiare col gusto di farlo e anche bene, se è il caso. Mi erano arrivate pure otto mail d’interesse, dirette a me. Niente, sentivo la vecchiaia che bussava alle mie ossa. Non voglio arrivare alla vecchiaia, pensavo. Poi oggi mi sveglio e penso a mio zio di novantadue anni che ancora urla alla moglie e la venera nemmeno fosse una madonna. E vederlo aggrapparsi ai gradoni di pietra lavica, alti quaranta centimetri, questa estate, mi era apparso come un’epoca che dava un ultimatum alla nostra tarda giovinezza annoiata. Lui, che ha salvato il corpo morto della principessa Mafalda, in Germania, appena scappato dal campo di concentramento nazista, e noi che al massimo abbiamo occupato l’istituto di Ragioneria negli anni del craxismo, e sembravamo pure dei sandinisti l’indomani, con tutte quelle ragazzette che ci adoravano mute e noi che le evitavamo con gli occhi assonnati di gloria. Bah, domani non voglio aggregarmi al gregge urlante di rutti e rancore, no, ma almeno sbattermi ancora per un ardore moderno sì. Magari usare la chiarezza del linguaggio come battaglia per una nuova generazione di persone. Oppure commuovermi sempre di più quando vedo mio figlio e gli altri piccoletti che corrono dietro a un pallone da pallacanestro. Ecco, il coraggio della commozione nell’era del digitale. Mescolo queste due cose e divento bello mentre cammino per le piazze senza abbassare lo sguardo, con qualche residuo salutare di sensi di colpa nelle tasche. Che non si sa mai, qui la domenica sembrano tutti purificati, e a me della purezza non m’importa più ché aspetto solo le giuste parole. Forse sarebbero utili per le vostre orecchie sporche, o per colorare i vostri vestiti griffati, e magari per molestare nella notte la vostra spocchia che sta oramai al posto delle ginocchia, scorticate di strade sterrate negli anni settanta. Del tempo puro, che non c’è più come non c’è più Marco l’amico mio.  
Per convivere al meglio in questi anni violenti di pace.
 
L’altra sera mi sono innamorato di una poesia e allora ho provato, per l’ennesima volta, di capirci qualcosa in fatto di metriche o giù di lì. Un caos di endecasillabi a maiori e a minore, e poi quelle classificazioni infinite che ti fanno passare la voglia di seguire i poeti. In fondo non è del tutto vero, quindi, caro T., pure se non ho fatto il liceo e capisco poco di grammatiche e metriche, lasciami godere di certe parole raggruppate con grazia e stile, come una casuale bellezza ammirata di sfuggita alla fermata del tram. Tanto alla fine della corsa il caos inghiotte me te e tutta la tribù analfabeta senza meta.
 
Questo pezzo mi piace come mi sta piacendo questo autore. Se qualcuno trova l'originale in giro, anche musicassetta, mi faccia un fischio. Ci conto.
 
 
 

mercoledì 7 novembre 2012

una poesia di Fortini scoperta questa sera

Avessi studiato da giovane
quand'ero pazzo di me.
Non avessi sciupato il tempo
non so nemmeno perché.
Non avessi creduto nel mondo.

Me lo disse una donna spettro
a Milano nel Quarantatrè
mentre bruciavano le strade
il fumo faceva tossire
e per quello che non si vedrà
si cominciava a morire.

Una donna terribile
come una Furia "Bada" mi disse
"tu credi troppo al domani".
Ma troppo parevano belle
le ragazze, le vive mani
sul nero delle rivoltelle
i pianti la libertà.

Oggi sarei come il buon Cases
come Folena, come Caretti
che conoscono i doveri,
ordinari, autori seri
cui si schiudono i libretti
degli esami nei bui chiostri
delle dolci università.

Avessi studiato da giovane.
Non sapessi la verità.


F. Fortini (1957)

sabato 3 novembre 2012

sonolivo


Poi raccogli le olive e sei contento. Stanco certo, ma pure soddisfatto. Sono anni che faccio il contadino per finta. Non so riconoscere le più comuni malattie dell’olivo, né il tipo d’oliva che raccolgo; frantoio, itrana, bah, sfumature grigioverdi e poco più. Non me ne fotte di diventare un bravo olivicoltore, neppure di fare il contadino quasi vero. No, sono retaggi romantici che mi hanno riempito il cervello da ragazzo, oggi voglio imparare l’Infinito a memoria, che dovrei già sapere, infatti, lo so, ve la dico? Ma no, vi dico che adoro certi ritmi che vivo tra gli alberi, cani, gatti e foglie dure. Acqua lete come se fosse vino, e birretta che sposa il panino con mortadella e melanzane sottolio come ricompensa maschile. Ogni tanto giochiamo a fare i contadini tipici, e l’erba alta intorno si fa una risata frusciosa. I rovi brindano al pericolo decespugliatore scampato, anche oggi come ieri le serpi neanche si nascondono. Sopra un cielo macchiato di nuvolette isolate. E le barzellette tra cesoie e rastrelli. Risate tra rami e cassette. Ricordi che si stendono accanto alle reti, che mi ricordano i pesci argento e neri che saltavano in spiaggia nell’ottantatre. Mio padre se ne sta in una scatola argento tra nonni antenati e fiori finto fresco. E le guance tue sono rosa, e sento scorrere il tuo sangue accanto al ruscello esangue. Vi abbraccio e parlo come un forsennato, parlo e ti accarezzo come un pazzo.

Sento un odore di silenzio senza lamento. E dei seni che aspettano bocche e delle mani che cercano confini di carne da contenere. Per non scappare più e aspettare una telefonata o una mail, avvolte a pensieri d’affetto.

giovedì 1 novembre 2012

nessuna sorpresa


A me certi cattocomunisti stanno proprio antipatici. Nel profondo, dico. Ma non voglio scrivere di loro, no, troppo facile sarebbe oggi, con le nuvole grigie piene d’acqua sulla mia testa. Doveva essere giornata d’olive e reti, panini da addentare sotto gli alberi verdi. E invece. “Il Bidone”, di Fellini, mi ha addolorato e reso solo. Neanche la dolcezza di mia moglie bastava, né i saltelli di mio figlio o lo splendido testo di quell’altro grande, su Formia, la casetta e tutti gli affetti di questi anni. Che per me sono diventati anche di formazione montessoriana, di lotte brutali contro il potere, vero o immaginario. Di solitudine barattata su twitter, e questo blog. Che serve a me, non di certo al mio dolore. Di Fellini voglio ancora vedere tutti i suoi film, anche quelli meno riusciti, ché là forse si coglie il limite e quindi la bellezza dell’artista. Come per certe canzoni che avresti voglia di aggiustare, se solo fossi tu l’autore, ma perché? In fondo ai bordi delle strade i sassi coprono i fiori ma te li lascia sempre immaginare. Io immagino voi davanti a queste parole inodori e provo un brivido per voi. Di me, che fino all’altro ieri ero semianalfabeta e oggi volo di parole e coraggio, beh, domani ci darò un taglio. E ricomincio con la formazione montessoriana, per berla, sgasata da ogni facile esaltazione, così come si beve l’acqua alle fontanelle di città afose. Ricominciare a pensare in piccolo, e nel farlo aspettare il mattino con le sue colorate misurazioni. Acciuffare la mia sensibilità ragionevole. Riscrivere meglio.

Autonomia-libertà-condivisione, per me queste tre parole legate mostrano un manifesto programmatico da attaccare a ogni angolo del mondo. Ai bambini non lo dite, ma creategli le condizioni per vivere di poco e sognare tutto il resto.

Queste parole amare di dieci minuti fa mi sono uscite fuori come ieri sbucavano improvvise le teste delle persone al passaggio dei bambini, con i loro ”dolcetti o scherzetti”; erano teste sorridenti di spavento, che alle loro spalle lasciavano intravedere il set della loro storia fatta di salotto comune dalle pareti sgargianti e sgombre di presente. A me le loro caramelle sembrano scadute da un pezzo, tenute apposta nel cassetto per illudere anche quest’anno quei bimbi eccitati sull’uscio. Vi perdono, perché oggi non voglio odiare nessuno. E illudermi ancora.