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domenica 11 novembre 2012

pietra lavica da scalare


Ieri avevo una febbre di quelle sotterranee, che minano l’umore e le gambe. Allora pensavo male di certi amici e di alcuni parenti, capita a volte di odiare col gusto di farlo e anche bene, se è il caso. Mi erano arrivate pure otto mail d’interesse, dirette a me. Niente, sentivo la vecchiaia che bussava alle mie ossa. Non voglio arrivare alla vecchiaia, pensavo. Poi oggi mi sveglio e penso a mio zio di novantadue anni che ancora urla alla moglie e la venera nemmeno fosse una madonna. E vederlo aggrapparsi ai gradoni di pietra lavica, alti quaranta centimetri, questa estate, mi era apparso come un’epoca che dava un ultimatum alla nostra tarda giovinezza annoiata. Lui, che ha salvato il corpo morto della principessa Mafalda, in Germania, appena scappato dal campo di concentramento nazista, e noi che al massimo abbiamo occupato l’istituto di Ragioneria negli anni del craxismo, e sembravamo pure dei sandinisti l’indomani, con tutte quelle ragazzette che ci adoravano mute e noi che le evitavamo con gli occhi assonnati di gloria. Bah, domani non voglio aggregarmi al gregge urlante di rutti e rancore, no, ma almeno sbattermi ancora per un ardore moderno sì. Magari usare la chiarezza del linguaggio come battaglia per una nuova generazione di persone. Oppure commuovermi sempre di più quando vedo mio figlio e gli altri piccoletti che corrono dietro a un pallone da pallacanestro. Ecco, il coraggio della commozione nell’era del digitale. Mescolo queste due cose e divento bello mentre cammino per le piazze senza abbassare lo sguardo, con qualche residuo salutare di sensi di colpa nelle tasche. Che non si sa mai, qui la domenica sembrano tutti purificati, e a me della purezza non m’importa più ché aspetto solo le giuste parole. Forse sarebbero utili per le vostre orecchie sporche, o per colorare i vostri vestiti griffati, e magari per molestare nella notte la vostra spocchia che sta oramai al posto delle ginocchia, scorticate di strade sterrate negli anni settanta. Del tempo puro, che non c’è più come non c’è più Marco l’amico mio.  
Per convivere al meglio in questi anni violenti di pace.
 
L’altra sera mi sono innamorato di una poesia e allora ho provato, per l’ennesima volta, di capirci qualcosa in fatto di metriche o giù di lì. Un caos di endecasillabi a maiori e a minore, e poi quelle classificazioni infinite che ti fanno passare la voglia di seguire i poeti. In fondo non è del tutto vero, quindi, caro T., pure se non ho fatto il liceo e capisco poco di grammatiche e metriche, lasciami godere di certe parole raggruppate con grazia e stile, come una casuale bellezza ammirata di sfuggita alla fermata del tram. Tanto alla fine della corsa il caos inghiotte me te e tutta la tribù analfabeta senza meta.
 
Questo pezzo mi piace come mi sta piacendo questo autore. Se qualcuno trova l'originale in giro, anche musicassetta, mi faccia un fischio. Ci conto.
 
 
 

1 commento:

Capitan vongola ha detto...

AAaaaaaaa. Che piacevole lettura! E si, fruire di tutto, anche senza essere specialisti. E sti cazzi della metrica, poesia è ciò che ci va di chiamare così. Ono? Non è poesia? sono stornelli burini?, Pippe da matti? Cosette da giornalino della parrocchietta? e sti cazzi! basta che ci facciano emozionare, pensare, addormentare o riere. Bluuurp!