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sabato 30 giugno 2018

Figlio contento

   Stiamo nel b&b uno accanto all'altro. Tu ascolti musica, io provo a usare i social per bilanciare nel mio piccolo (invano, sia chiaro) la follia collettiva che sta incattivendo mezza Italia: l’odio esasperato, ottuso, per i migranti.
Stamani sono stato a vedere le mura greche. Dopo che ho percorso un tratto di sentiero mi è salita l’antica fobia per i cani. Nel sito c’ero solo io, così mi sono fatto coraggio e ho chiesto, dichiarando la mia fobia, al custode di garantirmi che non ci fossero cani in giro. Lui lo fa, ma i miei occhi supplicavano altro: capisce, e mi accompagna lungo tutto il perimetro di Capo Soprano. Chiacchiero con lui di Magna Grecia e della Madonna Delle Grazie, e alla fine ci salutiamo senza che nessuno dei due avesse imbarazzo delle proprie fragilità. Ecco, vorrei che la mia vita prendesse questa direzione. Non farsi paralizzare dal presente pressante, e abbandonarsi agli occhi degli altri, alle loro infinite e sconosciute sensibilità. Le differenze tra le persone spesso sono dovute ad agenti superficiali o passaparola velenosi, noi, umani scorticati di storia e paure, dobbiamo fare lo sforzo di capire chi abbiamo davanti, non necessariamente amarlo ma accogliere almeno le sue parole.


Pranziamo in una tavola calda fresca piena di piatti gustosi. Poi cominci a srotolare fuori tutto il benessere di questa breve vacanza. Parli di sport, di persone, di mamma e di luoghi come non avevi mai fatto prima. E hai gli occhi scintillanti che insieme alle mani mi disegnano scenari fantastici. Come ho detto a Daniela al telefono poco prima, voglio godermi questa tua rinascita senza troppa ansia.
Mentre prendo il caffè al bar, passa un video di Ultimo, e tu dici che è stato proprio bravo a emergere da San Basilio. Intanto, ci incamminiamo e cominciamo a parlare di tuo fratello, e dici che è bravo a fare beat, conosce le note e ha talento. Ti ascolto trattenendo l’emozione e le parole che stavano fecondando, voglio soprattutto ascoltarti: sentire quello che sale lentamente dai tuoi abissi. Non voglio illudermi che sia finito quel tuo malessere che esplode all’improvviso, però vorrei fare un passo di lato e vederti nei prossimi mesi camminare deciso e sereno.
Anche il sangue scuro delle nostre famiglie, come scrive coraggiosamente Simone Lenzi, ci condiziona e rompe gli argini della ragionevolezza, tant’è, la nostra resta una lotta contro quei mostri umani dei nostri matti antenati che ci perseguitano da secoli. Mica siamo gli eroi che li sconfiggeranno con una vita appena, macché, ce ne vorranno di generazioni più attrezzate delle nostre per sconfiggerli del tutto. A me oggi basta sentire la tua voce felice che dice: comunque so’ davvero contento, oggi.

Poi ci sdraiamo ad ascoltare Luché che canta un pezzo insieme ad Avitabile. Succede una cosa che mi fa sentire sceneggiato da Virzì. Il testo riguarda noi, parla di quello che ci stiamo dicendo con parole diverse in questi giorni. Racconta quello che sto provando a scrivere da questo mare metà inquinato e meta splendente: che ce la possiamo fare se diamo potere ai nostri occhi, alle nostre storie, alle nostre sensibilità. Tutti, nessun escluso. Vabbè, qualcuno lasciamolo col cerino acceso mentre si fa l'ennesimo stronzo selfie.

Una cuffia tu e una cuffia io, navighiamo su suoni e parole che trasudano malattia e paura, eppure vedi come sta evaporando tutto nell'aria? Figlio, mi riesci a vedere quanto sono contento mentre ti sto cantando?



venerdì 29 giugno 2018

Sicilia scaccia via quest'inverno di paure.

 Scrivo mentre stai dal professore A., scrivo mentre non ci sei, perché mentre ci sei cerco di stare con te. Non riesco più a starti lontano, ché ho paura che resti troppo da solo, e star solo oggi non è più come quando stavi solo l'anno scorso.
In questo pomeriggio luminoso sto davanti a un Campari che mostra la scorza d’arancia come una vela malconcia. Intorno a noi ragazzine viziate sorseggiano coca cola qui nel bar al confine dei Parioli. Forse non sono viziate, poiché non so quasi nulla di queste ragazzine, ma vedo quel loro modo sgraziato di accavallare le gambe, o di chiamare il cameriere, che stavolta mi fanno andare d’accordo col pregiudizio. Quando il bicchiere di Campari era pieno, c’eri anche tu seduto al tavolino che divoravi un tramezzino: sbirciavo mentre fiutavi gli sguardi di quelle ragazzine vocianti di biondo.
Poi sono venuto a prenderti, insieme al libro che non riuscivo a leggere nella mano, e nell’altra stringevo lo smartphone; arrivi tu, apri il portone e mi dici di entrare. Il professore col suo amabile, calmo e roteante modo di parlare mi fa sapere che il percorso termina davanti ai tuoi progressi che gli hai appena raccontato tra questi arazzi e libri, che ci mancheranno un po’. Spiazzato, accenno mugugni, che il professore interroga subito. Ripercorro in un minuto le tue espressioni, le tue parole, da gennaio ad oggi, e ammetto che il professore sa quello che fa, nel congedarti pur restando disponibile dopo l’estate. Così entriamo in auto sorridenti. Metti il Cd di Rancore e  passiamo in rassegna i testi di Rancore, e questa passione filologica spero resti come testamento emotivo nei tuoi racconti futuri.
Eccoci in macchina verso casa, ora la musica col bluetooth fa uscire sentimenti ammazzati dentro un’auto in Florida; mi fai ascoltare quel rapper che dici di avermi fatto già ascoltare l’estate scorsa. L’estate prima della tempesta, quella che sembra un’era di rabbia fa.
Passiamo a prendere mamma, sta lì con le sue buste di soddisfazione equo e solidale e il suo sorriso somiglia sempre di più al tuo sorriso di questi giorni: lo stesso che è in quella foto da bambino su quella bici gialla, anni fa. 2005, o giù di lì, quando è nato tuo fratello.
Vorrei piangere ora, ma io sto piangendo ora, e sto scrivendo come non facevo da secoli.
Intanto studio le mappe siciliane del nostro prossimo viaggio. Quello stretto, quel fuoco, e quella storia sapranno accoglierci come si aspettano i sogni al mattino? Ora spazzare via questo lirismo sdentato e scrivere del mio crollo di oggi. Un chiodo lungo un anno che premeva nella testa, “gli altri” che non sopportavo più, il tuo ennesimo risentimento che ho bloccato all’istante, e poi quella tua insopportabile rabbia esplosiva contro tuo fratello, insomma, tutto quel peso di nuvole nere che c’era oggi Roma.


Maledetto questo tempo di cattiverie esibite come medaglie, fatto di parole povere, concetti assenti, sensibilità soffocate per una rabbia bambina di non avere il macchinone nero, né un lavoro donato, né una fidanzata bionda. È che fa ringhiare anche persone insospettabili contro le facce spaventate dei migranti.

E noi che parliamo così bene quando difendiamo i più deboli, e noi che staremmo sempre su un treno a fantasticare mondi a suon di musica e libri. Ah, Il lamento di Portnoy, che mi sto godendo in questa ciclotomia passeggera che mi fa vedere tutto nero, ma poi leggo e tutto scompare.


Ora stiamo sul pullman uno accanto all’altro. Io scrivo, messaggi a casa, altri sui social, e tu ascolti il nuovo pezzo di Ernia - senti ch’è bella, pa’,e mi presti una cuffietta - e io che ascolto e penso alle tue insicurezze sempre più evidenti eppure sempre più scacciabili. So quanto ho contribuito in questi anni a farle crescere, perché crescevano anche in me. Scusa, scusatemi, in questi mesi ce la sto mettendo tutta a trasmettere energia buona a tutta la famiglia, e sto usando tutte le migliori parole che ho per voi.
A volte cedo, altre rinasco, poi ricado, e poi ancora mi rialzo e soffio dentro alla mia testa una sorta di tisana del pensiero: blocco ogni scatto aggressivo e riparto che sembro Gandhi in un centro commerciale.
Arrivati in questa cittadina spellacchiata e già generosa, poiché ti ha concesso di sfoderare sorrisi e battute in quantità che trabocca una quasi felicità.
Dal letto del b&b scrivo in mutande e registro sullo smartphone questi segnali di disgelo emotivo, e sto benissimo.
(Continua)


domenica 10 giugno 2018

L'esordiente e la coca cola

Due parole, due parole buone per descrivere una sconfitta liberatoria. Sono rimasto due mesi ad aspettare che mi convocassero quelli della casa editrice L’eruttiva, per definire l’uscita del mio libro di racconti. Ero pronto per la collana esordienti. I racconti erano autosufficienti e avevano bisogno solo di un editing finale, così mi disse con un tono flebile Antonio Campanella, editor che mi accolse con una coca cola tenuta come una sigaretta, in un pomeriggio tiepido poco prima dei miei quarantotto anni. Quella sera fu una delle ultime volte che mi incazzai platealmente in casa, dopo un diverbio col figlio grande. Poi uscii, vagai con una paura di rovinare tutto e tutti, e feci un patto con i miei demoni tirando fuori una smorfia di sorriso che si  specchiò dentro una vetrina di un compro oro. Mi sono detto: da oggi faccio l'esordiente, basta capricci, lagne o altri drammi ereditati da una vita sempre in salita, quella vecchia vita spesa perlopiù a compiacere gli altri. Comprai lo spumante e brindammo in piedi: col contratto in una mano e nell’altro il calice, confessai ai ragazzi di queste mie velleità letterarie. Da sempre le avevo strozzate a colpi di vergogna e insicurezza. Il piccolo disse: io lo sapevo già, ho letto un tuo file aperto. Mia moglie era raggiante e il grande mi dava pacche sulle spalle a ritmo di “bella papà”. La famiglia, a cui ho dedicato i miei ultimi anni e a cui ho sottratto squarci di vita intima destinata a creare mondi paralleli, parentesi sofferte in cui cercavo di dare il meglio di me a dispetto del mio frustrante e amato lavoro e della mia storia interrotta a quindici anni: la famiglia che mi cingeva e amava davanti a una tavola apparecchiata. È da quando ho sedici anni che vorrei scrivere un libro. Ingenuo, curioso, caparbio e carico di un’ignoranza linguistica e lessicale insormontabile, attesi fino ai quarant’anni prima di iscrivermi a un corso di scrittura di Antonio Pascale. Da lì in poi gioco a ping-pong con le mie velleità. Frequentando come un imboscato presentazioni di libri, dove spaesato sudavo sotto quelle mie camicie colorate. Poi arrivò la scrittura matta e incessante per il blog, e gli amici sorpresi che mi incoraggiavano, e la scrittrice curiosa che mi sosteneva. E quelli che mi leggevano senza mie sollecitazioni pruriginose, mi gratificavano ancora di più. Poi arrivò Elisa a suggerimi di andare a un incontro pubblico con questi editor della casa editrice L'eruttiva. Ci andai un sabato mattina, e Campanella insieme al suo capo stavano seduti tra gli scaffali nella stessa libreria dove feci il corso di scrittura. Il destino, pensai, il coglione che sono, penso ora. Sì, perché se fossi stato più intelligente quella coca cola a mo’ di sigaretta che teneva Campanella, con quella sua posa stanca, avrebbe dovuto farmi riflettere: cosa significa autosufficiente quando parli di racconti di un esordiente? Campanella me lo disse in un incontro successivo, senza il suo capo, lo stesso che poi disse che Campanella fu radiato, e da quel momento in poi la linea editoriale cambiò. Un po’ dubitai, a dire il vero, dopo l’incontro della coca cola, ma per comprimere il timore della riemersione di antiche paranoie ereditate in famiglia, mi zittii da solo, in macchina, dentro un pomeriggio radioso e appena ventilato che mi accolse all’imbocco del Gra. E bevvi tutto d’un sorso quella aspettativa frizzante. Ci campai una primavera intera, la stessa che vide il figlio grande imbrigliato nella sua adolescenza inquieta. Ecco, L’eruttiva mi diede quel più di vita che sto utilizzando ancora per ascoltare meglio le paure e i desideri di mio figlio. Oggi colgo il mio stato di grazia per ringraziare anche la casa editrice L'eruttiva. Ciao a voi.
Il destino, penso ora, quello che ci facciamo sceneggiare da editor con la coca cola penzolante in mano, è un racconto scritto male senza trama né sospensione: una lineare cazzata che sa di panna e preti vecchi, donne incantate e limonata. Il destino, bah, sempre meglio un mattino fresco con una dolce erezione tra cinguettii e bip-bip dei compattatori che penetrano nella mia finestra.