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lunedì 14 settembre 2015

Adriana



    

    Adriana vive nel mio quartiere da tempo, in una casa popolare riscattata. Da giovane in borgata Adriana era un’autorità. Durante gli anni settanta, e nei primi anni ottanta, è riuscita insieme a quelli del comitato, donne soprattutto, a far trasformare la condotta medica in un Consultorio. Nella condotta pare che in quel periodo ci fosse un medico mezzo depravato. Inoltre, sono riusciti a trasformare la stalla del centro di riproduzione per cavalli del ministero dell’agricoltura, in un Centro culturale. Poi hanno fatto pressione insieme alle maestre venute dal nord, affinché le classi delle elementari fossero miste, nella scuola frequentata dai figli, e insieme a loro sono cresciuta e ho capito qualcosa della vita e ho imparato cos’è la Costituzione. Adriana definisce favolosa la scuola di allora: sono riusciti a creare anche un planetario in quel periodo, da poco ristrutturato. 
Adriana l’ho vista insieme all’allora presidente del Municipio nel documentario di Rulli e Petraglia all’inaugurazione del Centro culturale, mentre tagliavano il nastro. Dopo la visione ho parlottato con Adriana e mi ha raccontato quello che nel documentario era solo accennato. Un mondo ancora agricolo, lontano dal centro, dove un gruppo di persone s'impegnava a far avvicinare i servizi che le istituzioni egoisticamente trattenevano in centro. Era l’aria degli anni settanta a spingerli a fare cose così. Stavano sempre a baccagliare al Campidoglio, e riuscivano a ottenere risultati dopo trattative faticose. Adriana lavorava pure, faceva la sarta per il teatro e il cinema part-time, ma credo che la sua attività maggiore, oltre a fare la madre e la moglie, sia stata quella di assorbire il cambiamento che la sua epoca proponeva: una sorta di osmosi culturale borgata-centro-borgata. Voglio pensare a quegli anni pensando a persone così, non usando più la sterile rappresentazione della contestazione, ormai troppo idealizzata fino a farla dissolvere davanti ai nostri occhi.




   Adriana ora è stanca, anziana, eppure l’altra sera mi toccava il braccio per avere la massima attenzione mentre raccontava, costringendomi a guardarla negli occhi; così facendo è riuscita a trasmettermi una storia che quelli dell’estate romana sono riusciti solo ad accennare: loro mi hanno fatto vedere il documentario su un’installazione frammentaria che il vento rendeva ancora più difficoltosa la visione. A un certo punto una vecchina nel documentario racconta di essersi comprata il vocabolario d’italiano per conoscere le parole, e dice che lo sfogliava tutte le sere, soprattutto quando il marito pittore stava lontano per lavoro. Il tono trasognato della sua voce sommato a uno sguardo dolce e a una dizione conquistata in quelle notti di solitudine, oggi valgono più di mille ricerche sociologiche: si aveva fame di tutto, in quegli anni.






    


   Negli anni ho partecipato anch’io nel quartiere – ormai ex-borgata – alle inaugurazioni di parchetti, piazzette e asili, e sono stato ad assemblee con politici, a manifestazioni: ma questi sono gli anni del kilometro zero, delle decrescite abbozzate e dei contentini ideologici. Quel pezzo di storia era diverso, sempre pieno d’inciampi e contraddizioni come oggi, certamente, ma con la differenza che Adriana e le altre riuscivano a concretizzare alcuni diritti reclamati: alla salute e alla cultura in periferia, in primis. Mi sento ridicolo se penso a come ci abbiamo provato noi del comitato, con le richieste di una biblioteca, e di un percorso pedonale e ciclabile che unisse il quartiere vecchio dal nuovo: non per le richieste in sé, ma per le inutili discussioni tra di noi (sei, al massimo otto persone a ogni incontro), che ha prodotto nel giro di tre anni il dissolvimento del comitato stesso. In quel tempo ho contribuito a piantare decine di alberi, all’organizzazione di due feste di carnevale, alla venuta di una troupe del tg3Lazio, e, vera soddisfazione ahimè, a far smussare un’aiuola spartitraffico per agevolare le manovre con le auto. Niente, Adriana e le altre con i loro atti e fatti mi hanno insegnato che la concretezza segue un pensiero chiaro, deciso: ma tu cosa vuoi davvero?





  Leggendo Gli anni, di Annie Ernaux, ho riflettuto su quel noi che ha contraddistinto l’epoca del dopoguerra con l’Io che rappresenta questi nostri anni: non c’è soltanto contrapposizione tra plurale e soggettivo, forse la verità è che ci sono epoche più grandi di noi, e poi ci siamo noi, con il nostro oscillante Io che preme insoddisfatto, affamato. Non sempre le istanze coincidono con i veri desideri, e per quanto mi riguarda poche sono le volte che vado a dormire con l’idea di aver aggiunto davvero un tassello, una conquista in questo mio tempo evanescente, ma bellissimo.
Oggi Adriana è il ritratto in cui voglio specchiarmi: un tassello in arrivo dal passato.
    


mercoledì 2 settembre 2015

La mia vita vera è dentro questo file?


 1.
    Passare una serata davanti a uno schermo in riva al mare, dove proiettano un film su Nick Cave, stelle cadenti che si spengono in acqua, poi alla fine, mentre ascolto Ettore pronunciare mondi lontani, lascio entrare beatamente il film nella vena del mio entusiasmo. Ma arrivo a casa e penso, con l’insonnia addosso, a quel ragazzo che cade e muore sulla scogliera: postilla tragica che rimescola la visione nella mia mente.
   
 


  

L’indomani andare a una sagra all’oratorio per mangiare pesce fritto a cinque euro, vino rosso incluso, e poi digerire giocando a basket, sudatissimo, tra ragazzini e madri. Ecco la vita che non ha un senso e rotola via in queste notti d’agosto, paralizzato dai pochi soldi e con la canonica voglia di cambiare tutto. Mai niente, davvero.
    Questi miei giorni estivi: elencare fatti lontani, nominare persone preistoriche, tuffarsi in mare di pomeriggio, stare su twitter come un bimbo, leggere furiosamente. Organizzare una cena tra vecchi amici dove, mentre gli uomini un po’ stempiati parlano di calciomercato e delle loro scappatelle su skysport nelle sere d’inverno, le mamme scambiano pareri febbrili per l’imminente inizio della scuola, altri un po’ sparsi dietro cespugli si infervorano parlando di progetti che realizzeranno a settembre. Io senza progetti e senza sky mi stacco da terra e osservo queste persone un tempo a me familiari (e ora?), e mi aiuta, per capirci qualcosa in più, questa luce fioca alogena: poi scendo e ho una parola per ogni loro desiderio. Intanto parlo con P. delle presentazioni di libri a cui ho assistito durante l’anno, come se fosse la mia vita vera. La mia vita vera è dentro questo file, negli occhi che mi ritrovo quando resto da solo e mi faccio spaventare dal futuro. O nel sudore appiccicoso di quando tento di potare gli ulivi, e sta anche nella delusione di vedere affogare proposte di lavoro dentro una solitaria mail estiva. La vita vera sta ora nei desideri incessanti che non riesco a raccontarvi: colpa di quell’odore acre che sa di rassegnazione. Questo sono. Sta pure nelle dormite napoleoniche, coi sorrisi dei figli al risveglio o coi loro benedetti e rari capricci. Sta nella devozione a una moglie sognante e umorale che cerca l’agognata (meritata) pace nei fortini altrui, e mannaggia alle famiglie-famiglie, queste famiglie che si risucchiano le nostre battaglie di crescita. La vita vera sta nei pensieri per una madre sempre più rimpicciolita nella sua storia di vestiti cascanti, a fiori, che delira dolcemente già dal primo caffè. Sullo sfondo ci sono i messaggini evocativi degli amici, a volte tranchant o elusivi e spesso lontani come quelle isole che neppure quest’anno riusciamo a visitare: siete troppo cari voi di Laziomar.
 
murales a Gaeta


   Ho scritto un racconto di morti e resurrezioni, un tentativo di far gemmare storie che stanno nell’aria di questo Golfo, che ho trattenuto nei miei pensieri a forma di gatto, negli anni di silenzio. Ora non so cosa farne di questo racconto, ma chi l’ha letto dice: meraviglia! (ma senza immagini dice tutto e bene, nello stesso magnifico istante).

Fa caldo per tutti. Scappiamo tutti. Scriviamo tutti. Spettegoliamo tutti. Ma nessuno vuole apparecchiare coi bicchieri di cristallo queste serate estive. A nessuno piace la solitudine degli altri. Tutti aspettano. E usano tristi bicchieri di plastica.

2. 
   Stiamo andando da tua nonna, in lontananza fulmini che si scagliano in mare come tre milioni di anni fa, e io ti mostro lo spavento senza camuffarlo con ansie stagionali. Ripariamo in un bar, avviso l’amico, accorso per donarmi L’eco di uno sparo. Lui stava sotto e dentro quella ‘tempesta”. Ripartiamo e troviamo un ingorgo che blocca le due strade: con una virata decido di percorrere la strada panoramica che attraversa le frazioni. Il cielo è di nuovo terso, si vede Ischia, le torri in successioni e noi due dentro l’auto che sfreccia sulle facce delle vecchine nere. Alla radio ascoltiamo l’ultima canzone di Freddy Mercury, poi i Beatles, parliamo di Aids e dei sentimenti che si appiccicano per sempre a certe canzoni. Ti agiti, senti nausea e me la mostri senza disperare. Chiacchieriamo, e penso a quella poesia di Carver, e il cielo mi rapisce i polmoni.
Comicamente, non sapendo dove buttare l’immondizia, riparo in un ingresso di una banca e la butto nei loro enormi secchioni gialli. Ridiamo all’idea che mi becchino con le telecamere del bancomat. Entriamo nel budello che divide i vicoli, guardiamo una vetrina di scarpe, ma io guardo anche il tuo profilo, i tuoi lineamenti che pare stiano lì per lì per far esplodere la tua sognante personalità. Arriviamo da mia zia novantatreenne e lì, seduta come una ragazzina, c’è anche tua nonna. Poi cugine, e neonati che non conosco. Si parla di abitudini in città, e si percepisce una cordiale estraneità coltivata in questi ultimi trent’anni, tra me e loro. Mio zio è morto da circa un anno e la sua assenza la colmiamo parlando tutti contemporaneamente. Usciamo. Salendo le “Scale dei scalzi” scatto una foto e ti racconto della direttrice suicida e della sua leggenda che assieme ai miei compagnetti violammo arrivando a quel terzo piano inagibile, impenetrabile dagli altri. Tu sorridi, assorbi la mia ennesima storia e cammini ancora più veloce di me.


3.

   In questi giorni di mare e campagna, di nuvole e chiacchiere, ho capito che il mio fallimento in questo posto di mare è frutto di una vecchia paura: evitare i conflitti e stare nel quieto vivere individuale. Anche se poi litigo con un erborista mezzo stregone che con un pendolo in una mano, e l'altra che tiene la mia, dice: non puoi mangiare i fichi d'india, sono negativi per te (ma va va, io me li mangio eccome). L'Antonio Pascale che è in me lo ha divorato in un'ora scarsa di argomentazioni ragionevoli. Peccato però che mia moglie, sconsolata ma d'accordo con me, dice che sembravo un po' Sgarbi mentre lo attaccavo per le sue scemenze grilline e terapie radiononmiricordocosa. Tant'è.

(E non andare più per mare con l'ansia al posto della ciambella, mai, perché se poi ci vai anche col pedalò semini il panico in famiglia, contadino scemo che non sei altro). 

Tanta rassegnazione che sai gestire sempre di più, con il fegato che si presta a bilanciare il guaio: bevi e ridi, ridi e scordi. Famiglie, amici, pensieri arcinoti che vanno a braccetto con i risentimenti: ecco lo stato dell’arte dentro la mia testa. E tu mi dici di non scrivere cose tristi, ma come faccio amore mio a usare i colori dentro questa istantanea di tempesta? Pieno, vuoto, fermo ora mi berrei un litro di vino e canterei stonato le rime dei miei avvenimenti e impiegherei i giorni che mi restano per raccontare ciò che rende la mia ombra, soltanto un’ombra raccontabile: vedrai amore mio che contrasti che nemmeno Giacomelli coi pretini: poi di domenica arriveranno tutti i colori dei pittori amati, direttamente dal mare.

foto di Mario Giacomelli
P.S.
Le mie vacanze vere le ho passate a Circello, dalla mia amica Antonella, dove abbiamo ricevuto affetto e accoglienza dalla sua famiglia, e generosità e semplicità dal paese, in soli due giorni. Le mie Maldive sono lì, tra forche caudine e dolci montagne.


Circello, agosto 2015