Adriana vive nel mio quartiere da tempo, in una casa popolare riscattata. Da giovane in borgata Adriana
era un’autorità. Durante gli anni settanta, e nei primi anni ottanta, è
riuscita insieme a quelli del comitato, donne soprattutto, a far trasformare la
condotta medica in un Consultorio. Nella condotta pare che in quel periodo ci
fosse un medico mezzo depravato. Inoltre, sono riusciti a trasformare la stalla
del centro di riproduzione per cavalli del ministero dell’agricoltura, in un
Centro culturale. Poi hanno fatto pressione insieme alle maestre venute dal nord, affinché le classi delle elementari
fossero miste, nella scuola frequentata dai figli, e insieme a loro sono
cresciuta e ho capito qualcosa della vita e ho imparato cos’è la Costituzione.
Adriana definisce favolosa la scuola di allora: sono riusciti a
creare anche un planetario in quel periodo, da poco ristrutturato.
Adriana l’ho vista insieme all’allora presidente del Municipio nel documentario di Rulli e Petraglia all’inaugurazione del Centro culturale, mentre tagliavano il nastro. Dopo la visione ho parlottato con Adriana e mi ha raccontato quello che nel documentario era solo accennato. Un mondo ancora agricolo, lontano dal centro, dove un gruppo di persone s'impegnava a far avvicinare i servizi che le istituzioni egoisticamente trattenevano in centro. Era l’aria degli anni settanta a spingerli a fare cose così. Stavano sempre a baccagliare al Campidoglio, e riuscivano a ottenere risultati dopo trattative faticose. Adriana lavorava pure, faceva la sarta per il teatro e il cinema part-time, ma credo che la sua attività maggiore, oltre a fare la madre e la moglie, sia stata quella di assorbire il cambiamento che la sua epoca proponeva: una sorta di osmosi culturale borgata-centro-borgata. Voglio pensare a quegli anni pensando a persone così, non usando più la sterile rappresentazione della contestazione, ormai troppo idealizzata fino a farla dissolvere davanti ai nostri occhi.
Adriana l’ho vista insieme all’allora presidente del Municipio nel documentario di Rulli e Petraglia all’inaugurazione del Centro culturale, mentre tagliavano il nastro. Dopo la visione ho parlottato con Adriana e mi ha raccontato quello che nel documentario era solo accennato. Un mondo ancora agricolo, lontano dal centro, dove un gruppo di persone s'impegnava a far avvicinare i servizi che le istituzioni egoisticamente trattenevano in centro. Era l’aria degli anni settanta a spingerli a fare cose così. Stavano sempre a baccagliare al Campidoglio, e riuscivano a ottenere risultati dopo trattative faticose. Adriana lavorava pure, faceva la sarta per il teatro e il cinema part-time, ma credo che la sua attività maggiore, oltre a fare la madre e la moglie, sia stata quella di assorbire il cambiamento che la sua epoca proponeva: una sorta di osmosi culturale borgata-centro-borgata. Voglio pensare a quegli anni pensando a persone così, non usando più la sterile rappresentazione della contestazione, ormai troppo idealizzata fino a farla dissolvere davanti ai nostri occhi.
Adriana ora è
stanca, anziana, eppure l’altra sera mi toccava il braccio per avere la
massima attenzione mentre raccontava, costringendomi a guardarla negli occhi; così
facendo è riuscita a trasmettermi una storia che quelli dell’estate romana sono
riusciti solo ad accennare: loro mi hanno fatto vedere il documentario su
un’installazione frammentaria che il vento rendeva ancora più difficoltosa la
visione. A un certo punto una vecchina nel documentario racconta di essersi
comprata il vocabolario d’italiano per conoscere le parole, e dice che lo
sfogliava tutte le sere, soprattutto quando il marito pittore stava lontano per
lavoro. Il tono trasognato della sua voce sommato a uno sguardo dolce e a una
dizione conquistata in quelle notti di solitudine, oggi valgono più di mille
ricerche sociologiche: si aveva fame di tutto, in quegli anni.
Negli anni ho
partecipato anch’io nel quartiere – ormai ex-borgata – alle inaugurazioni di
parchetti, piazzette e asili, e sono stato ad assemblee con politici, a manifestazioni: ma questi sono
gli anni del kilometro zero, delle decrescite abbozzate e dei contentini
ideologici. Quel pezzo di storia era diverso, sempre pieno d’inciampi e
contraddizioni come oggi, certamente, ma con la differenza che Adriana e le
altre riuscivano a concretizzare alcuni diritti reclamati: alla salute e alla
cultura in periferia, in primis. Mi sento ridicolo se penso a come ci abbiamo
provato noi del comitato, con le richieste di una biblioteca, e di un percorso
pedonale e ciclabile che unisse il quartiere vecchio dal nuovo: non per le
richieste in sé, ma per le inutili discussioni tra di noi (sei, al massimo otto
persone a ogni incontro), che ha prodotto nel giro di tre anni il dissolvimento
del comitato stesso. In quel tempo ho contribuito a piantare decine di alberi,
all’organizzazione di due feste di carnevale, alla venuta di una troupe del
tg3Lazio, e, vera soddisfazione ahimè, a far smussare un’aiuola spartitraffico per
agevolare le manovre con le auto. Niente, Adriana e le altre con i loro atti e fatti mi
hanno insegnato che la concretezza segue un pensiero chiaro, deciso: ma tu cosa
vuoi davvero?
Leggendo Gli anni,
di Annie Ernaux, ho riflettuto su quel noi
che ha contraddistinto l’epoca del dopoguerra con l’Io che rappresenta questi nostri anni: non c’è soltanto
contrapposizione tra plurale e soggettivo, forse la verità è che ci sono epoche più
grandi di noi, e poi ci siamo noi, con il nostro oscillante Io che preme
insoddisfatto, affamato. Non sempre le istanze coincidono con i veri desideri, e per quanto mi riguarda poche
sono le volte che vado a dormire con l’idea di aver aggiunto davvero un tassello, una
conquista in questo mio tempo evanescente, ma bellissimo.
Oggi Adriana è il
ritratto in cui voglio specchiarmi: un tassello in arrivo dal passato.
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