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lunedì 20 aprile 2015

La manutenzione degli affetti

      I personaggi di questo libro di racconti camminano accanto a noi. Amano come noi. Tutto questo senza stringerci a loro, senza soffocarci nei loro sentimenti. In questi racconti si narra il presente e tutte le sue parole vivono tra di noi, ma non ci schiacciano né impauriscono. Ci accompagnano attraverso l’inquietudine, che percorre come una dolce serpe il libro. Lo stupore per i fatti quotidiani, anche se mostrati con raffinate lenti d’ingrandimento, sono carichi di elettricità e d’improvvisi turbamenti; cadute che nei giorni normali e quieti irrompono e deformano la realtà, costringendo ai personaggi ripensamenti e frenate davanti agli usci dei giorni. 


La “Manutenzione degli affetti” appare nel suo insieme come una sorta di mosaico del pensiero contemporaneo che, sorretto da uno stile diretto e acuto, forse aiuta a semplificare il groviglio incandescente dei sentimenti sottocutanei dei nostri giorni. Leggendo più volte alcuni dei racconti presenti nella raccolta, mi sono specchiato nei tanti specchi esposti: i sentimenti che si aprivano e dilatavano nelle descrizioni dei personaggi m’invitavano a pensare ai miei guai sentimentali, esistenziali, così come ero attratto dalla loro bellezza di racconti, tutto questo senza inciampare nelle buche del sentimentalismo, e neppure mortificandomi del mio essere solo lettore di passaggio. Ecco, questo libro di Antonio Pascale contiene un rispetto commovente per i lettori, ai quali presenta solo delle interessanti storie da ascoltare.
Una caparbia volontà di illustrare impressioni e vissuti attraverso gesti minimi, quotidiani, che fanno emergere uno stile asciutto e lineare, a cui l’autore si affida e confida per raccontare un mondo altrimenti trascurato e, forse, non visitato da altri, e solitamente neanche da noi. Quel mondo dove le persone dialogando con l’ambiente attraverso lampadine, ascensori, quadri, mettono in atto tic e modalità esistenziali, e così facendo mostrano tutte le conseguenze e le deflagrazioni che certe paure, certe ansie, certi affetti, e certe scelte irrompono nelle vite senza pietà. E poi sarà nel pensiero successivo, che non abita nel libro, la volontà di aggiustare o abbandonare certe storie, la manutenzione appunto, quella che ci permette di aggiustare il tiro e di continuare a vivere con dignità le cose delle nostre vite.
Fare i conti col passato, escludendo ogni salvezza possibile, ma elaborando vissuti incerti e fragili, caratterizzano e legano i racconti. Alcuni di loro sono proprio imparentati e scorrono paralleli, pur senza creare un’unica storia.  L’autore lascia  intendere che, le vicende di Rosaria e Alessandro, avevano bisogno di due racconti separati e quindi non chiude in cerchio le due storie; questo forse anche per rendere chiara una cosa: alcune storie possono essere raccontate solo attraverso gli occhi dei protagonisti, a cui lo scrittore si sottrae con maestria, lasciando emergere piano piano un vissuto doloroso che si avvicina ma non invade, né noi e né i due racconti “parenti”. Questa cosa è bella e fa della “Manutenzione degli affetti” una guida sentimentale a cui attingere di tanto in tanto, nei pomeriggi piovosi o nelle notti insonni, e perché no, anche al mare col sole che illumina ogni parola: leggerlo anche per non sprofondare comicamente nelle secche del presente. Almeno per me, che da qualche anno ne faccio uso in dosi minime ma costanti nel tempo.

“La manutenzione degli affetti”, Antonio Pascale, nuova edizione. Einaudi.


lunedì 13 aprile 2015

il bar all'incrocio

L’altra sera ho fatto un colloquio di lavoro, in un bar, si trattava di assistenza domiciliare. Mentre Giampaolo spiegava il tipo di mansioni da svolgere, facendolo con sensibilità ma pure con quel disincanto di chi lavora da anni nello sciagurato mondo del sociale, ascoltavo e dentro di me risuonavano quegli anni faticosi di quando ci lavoravo, in quel mondo. E i bimbi, quelli con cui lavoro ora, mi passavano davanti coi loro capricci adorabili, e con tutte le loro instancabili mutevoli forme di crescita. No, Giampaolo, appari onesto eppure quello che proponi è vecchio, inutile alla mia storia. Nello stesso bar del colloquio anni fa stavo con Andrea e altri a discutere sul contratto capestro che una tale Cooperativa ******* ci aveva rifilato al secondo colloquio, rimangiandosi quello promesso al primo: basta, direi basta con questa commedia dei buoni che si accontentano. Un guizzo di cattiveria ci vorrebbe. Lavoravo in una casa-famiglia a trecento metri da questo bar. Ci sono rimasto tre anni a fare il topolino-educatore da laboratorio per gli scienziati-psicologi del telefono *******. Noi a tamponare l’orrore di storie infantili schiacciate dagli adulti e loro di sopra a gestire un potere fatto di bontà, di conferenze e di politici da sedurre: sempre in tiro stavano coi loro stivali taccosi e addosso quei foulard vorticosi come serpenti. Ma il magone che avevo la domenica sera prima del turno notturno, che mi trascinavo come una coda di dinosauro sulla Nomentana buia, col pensiero di mia moglie e mio figlio da soli in quella casa sfiancata sonoramente dai tir delle cave tiburtine, dico, ma a chi potevo raccontarlo quel benedetto magone? Di certo non ad Ammaniti-padre in supervisione (tra l’altro, lo riconosco, l’unico a capire in un’ora di riunione ciò che gli scienziati di prima (quelli taccosi) non avevano capito di D. in due anni di terapie).

-         Lavora, questo hai scelto a vent’anni, e ora vai, salva l’umanità intera: bimbi sfigati, uomini soli, donne distrutte, ragazzi senza giovinezza. Teneri disabili.

Poi, una volta in casa-famiglia era tutta una lotta con D. che non voleva dormire ed io a raccontargli storie sdolcinate con finali tristi che vedevano come protagonista Gigi D’Alessio, il suo eroe. E la notte su internet a cercare altri lavori, altre fughe, e altri piaceri inafferrabili che si allungavano fino al mattino.
Mentre il colloquio procedeva con ampie parentesi sui rischi di lavorare con gli psichiatri, e non con i pazienti psichiatrici, i miei pensieri sono volati in quella casa umida che protegge una donna sola, che ride da sola, e pensa da sola, e si incazza (anche) con me, ma sempre da sola, e vuole recitare fino alla fine una parte triste, trafitta già dalla sua infanzia di guerra, con la complicità di quel piccolo paese ottuso e splendido che si sta facendo odiare anche da me adesso. Lei lo fa con un randagismo ironico, al limite del comico: quando la ascolti non resisti e ridi, poi ti incupisci un po’, ma intanto hai pure riso di gusto. E non è poco, se consideri la sua storia, il groviglio che ha in testa, e la rabbia senza freno che sprigiona in certi pomeriggi estivi. Io lo so, e un giorno ve lo racconterò. Forse.
 Mentre sorseggio il caffè, e il colloquio volge al termine, parliamo di scrittura autobiografica. Poi anche di esperienze con pazienti psichiatrici, di un dormiente che seguivo (poi suicida) e di sua madre, che mi rifilava leccornie durante il risveglio patetico e tragico del suo unico inafferrabile figlio: io e lei in cucina e lui sdraiato in cameretta, bottiglie di birra accanto al letto. Fumetti. Cicche. Capelli lunghi e sporchi che schiacciati su quel cuscino mi sembrano una medusa. Lo invoglio a tirarsi su da quel letto lurido. Poi guardo la madre, lei abbassa lo sguardo e fa un altro caffè.  Mi accorgo che raccontando solitamente ometto la morte, la pazzia e l’insostenibilità di quegli sguardi tremendi. Di quegli anni. Uso il presente, illusione per non sentirsi perdente.

Giampaolo, tu sarai un buon coordinatore, ed io forse non lo sarò mai, pur avendo sfiorato e fatto sfumare questo status tante volte: ora sono stanco di status, e pronto a mille oscenità sociali. Come questo mio scrivere così; al corso di scrittura autobiografica, che durante il colloquio mi hai detto di aver fatto anche tu, ma ahimè lì non insegnano che il troppo di noi raccontato può diventare una bolla di sapone per salvarci il passato. Domani io voglio bucarla quella bolla, e poi leccarmi la liscivia mischiata allo smog che discende giù dolcemente, come eccitante: per gli anni che ci restano per combattere e amare.
Coraggio, amico abbi coraggio di scartavetrare questo imponente passato: poi lasciateci divertire a impiastricciare le mani nei colori che ci ritroviamo.


“A letto, il bacio”, del 1892. Toulose Henri de Toulouse-Lautrec



Ps
Sì, sto cercando lavoro da integrare al mio part-time: tra quei milioni di lettori di questo blog se ce ne fosse uno interessato a offrirmene, sappia che metto a disposizione tutta la fantasia che ho. Per le referenze chiedete ad A. a E. a I. e a O.

Ps2

Durante l’arco di tempo che ho  scritto questo pezzo non ho fatto male a nessuno. Ho fatto l’amore. Ascoltato Fiumani e poi Beethoven. Annaffiato le piante del giardino. Ho letto al piccolo I ragazzi della via pal, e visto le foto che il grande ha fatto a Romics. Ho inviato decine di messaggi, e navigato un po’ disperato e un po' contento su internet. Ho telefonato a mia madre tutti i giorni. E pensavo ogni mattina a come dar retta a Kurt Vonnegut: Quando siete felici, fateci caso.





lunedì 6 aprile 2015

Che io sia stato un buono

Che io sia stato un buono, e di una certa sinistra, a giudicare dalla giornata trascorsa, non si direbbe. Che io sia stato un buon amico, un marito perfetto, a giudicare dalla giornata trascorsa, non si direbbe. Che io sia stato un buon figlio, un fratello adorato, a giudicare dalla giornata trascorsa, non si direbbe. Che io sia stato uno con mille sogni nella testa, e cento progetti da raccontare, a giudicare dalla giornata trascorsa, non si direbbe. Che io sia stato un appassionato di sport, e di calcio in particolare, a giudicare dalla giornata trascorsa, non si direbbe.
Oggi ho toccato con la mano il fango che da sempre è appiccicato ai miei piedi, che nel frattempo, di anno in anno, di guaio in guaio, di fallimento in fallimento, io sotterravo davanti a tutti. E tutti sorridevano, e chi mi faceva i complimenti, e altri ancora incoraggiavano questa pasticciona cazzata chiamandola originalità. Bah! Tra i pochi che ci videro bene, c’era un tale a Firenze che, con affetto anche lui, mi disse: ma tu non sei come vuoi far crederci (forse sei pure meglio). Tra parentesi il sottotesto che avrei voluto aggiungere allora, invece di prenderlo come un affronto inaudito a uno come me: che soffro! ma rido! e creo! io sono un uomo tutto nuovo! Sì, anche peggio di quell’altro pagliaccio che lo canta pure.

A giudicare dalla giornata appena trascorsa, e scrivendo davanti a questo specchio spento, posso dire con ostentata razionalità che io mi sono rappresentato troppo, e male, e che in fondo avrei fatto meglio a stare nel mezzo del silenzio a cercare idee potenti: ora dovrei stappare le vecchie cazzate passate e starmene dentro la meglio fantasia che ho. Così vediamo come va a finire; intanto affogo fino all’ultima goccia di me imbalsamato dall’affettuosa indifferenza altrui. Sì, un po’ è colpa mia, ma, dillo cazzo dillo, ma… e dillo: SIETE TUTTI STRONZI scritto sulla parete della mia cameretta a quindici anni, lo riscriverei ancora. E mi ci farei una foto strafottente da diffondere su internet. Stronzo anch’io, figurati.


foto di Diana Arbus

Scivere il secondo tempo, come si deve, è ciò che ci tocca dopo i quaranta, almeno credo.