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lunedì 22 ottobre 2012

letto due volte, per ora.


L’altra sera mentre guardo lo “Spazio bianco” in tv mi è venuto in mente un altro racconto di Valeria Parrella, Behave, letto un anno fa. Il collegamento forse sta nella disabilità subita dai protagonisti; la disabilità che per i più è fonte di pietà, simpatia, diffidenza, ma, per un genitore che la subisce è senz’altro e soprattutto dolore amaro. Da quella condizione emotiva in giù poi ci sono tante altre cose intense, chiaramente. Come ci sono questi due genitori innamorati, due persone che riescono a stare in silenzio per ore perché si fidano uno dell’altro, insomma, una coppia che con il loro affetto discreto mi ha commosso attraverso gesti consapevoli, parole tenere e un attenzione ammirevole per il figlio un po’ storto. Colpisce e non va più via lo sguardo del padre che osserva il figlio mentre attende di sedersi al Behave, dove fa la pausa pranzo tutti i giorni, e attende con la bocca aperta e non risponde alle domande degli altri avventori, i quali lo scavalcano o deridono, e penso che questo sguardo sia di un padre che sa ascoltare (vedere) il proprio figlio in difficoltà, senza intervenire immediatamente. È un tipo di difficoltà legata ai ritmi, alle abitudini e pensieri di una persona non comune, unica, che lascia perplessi gli altri, ma non il padre, che, ascoltando la voce interiorizzata della moglie, lascia che il figlio utilizzi il suo tempo come meglio creda.

Il personaggio che ci narra la storia non prova rimorsi o rancori, a parte un po’ con Dio ogni tanto, ma vive, e qui la Parrella secondo me dipinge benissimo il carattere, l’esperienza della disabilità a modo suo, in equilibrio tra affetto e dolore, senza cadere o scappare; ci racconta il suo affetto attraverso uno sguardo lucido venato di simpatia che poi culmina nel dialogo tra i due all’interno del pub Behave, che dà il titolo al racconto.

Nel mezzo della storia c’è la morte della moglie, che sta nel mezzo solo nel filo narrativo, poiché la morte c’è già stata e probabilmente ha contribuito a rendere la narrazione a tratti malinconica, e non per questo pregiudica quella dignità che dà il ritmo alla storia. A un certo punto il suo sguardo obliquo si sposta sulla città che si sta trasformando mangiandosi il passato, e questo gli procura un po’ di scoramento che poi diventa una stoccata un po’ nostalgica contro la modernità, gli architetti e giù di lì. sullo sfondo la Liverpool che non cè più.  Il figlio risponde con un atteggiamento fresco di persona attaccata alla vita, quindi pronta al cambiamento. Credo sia la miglior risposta che un genitore possa aspettarsi da un figlio che cresce, nonostante gli inciampi,  e vede solo verde davanti a sé. Poi c’è la sua capacità di fiutare chi è vivo o chi è morto, osservando le persone che transitano davanti alla panchina, dove sosta assieme al suo amico, appare un tentativo di considerare l’umanità in base a quello che fa, e non a quello che pensa o dichiara. O cerca di mostrare goffamente. Le sue lapidarie valutazioni sono una sorta di lotta contro il conformismo e l’ipocrisia, la stessa che ci ammazza in certe serate, e in certi ambienti che subiamo.  

Infine narra di una stretta al braccio atrofizzato di un africano assiderato nel canale di Sicilia, che arriva come un pensiero sempre evitato. Come la morte, come la vita per quello che è per davvero, che il dialogare tra il padre e il figlio ci trasmette nell’ultima immagine del racconto.

martedì 16 ottobre 2012

vestivo di nero


Per due anni di fila ho vestito di nero. Facevo il dark. Non so quando ho cominciato, di fatto, una mattina x mi sono vestito di nero e dopo circa due anni ho smesso. Quasi in contemporanea con la fine della frequentazione di L., il mio migliore amico d’allora, a cui mi ispiravo nel vestire di nero. Per lui era facile, quasi naturale, visto che la sorella, fan dei Depeche mode, si vestiva di nero già da qualche tempo. L. aveva pure la macchina nera, inclusi gli interni, io solo la dyane beige. Era bello quel clima darkettone, dove gli altri ti invidiavano ammirandoti e tu, noi, non ci filavamo nessuno. Chiusi in macchina ad ascoltare i Cure. Poi il mercoledì ci si sperperava parte dello stipendio da camerieri in certi negozi di Roma, tipo Bacillario o i Cantieri del nord. Il resto si spendeva nei locali a Trastevere o giù di lì. Partivamo in tarda mattinata e, una volta all’Eur, già sentivamo quell’eccitazione fatta di localetti da godere e spaghetti da addentare. Poi al ritorno la pontina era lunghissima e senza luci né bar. Un tunnel di pensieri e progetti. In fondo mi aspettava un letto di formica beige, come la Dyane, come il frappé alla banana del pomeriggio: beige ero diventato pure io senza mete né amore.

Un giorno L., dopo il viaggio interrail a Stoccolma e Londra, e dopo aver commentato con gli amici che poi ‘ste bionde mica stavano ad aspettare noi, insomma dopo quelle ammissioni di essere poco latini e parecchio timidi, qualcosa è cambiato. Ho ricominciato a mettere vestiario colorato, e intanto avevo portato allo scasso la Dyane beige. L’amore s’intravedeva nei bar o a capodanno, e io lasciavo fermentare il mosto bene bene. Ché a me l’amore piace forte e denso. A L. non ho mai chiesto come gli piaceva l’amore, e neppure se i Cure, visti al palaeur vestiti tutti di bianco, gli piacevano di più dei Depeche mode? A me sì, senza dubbio.
 

Stasera vorrei vestirmi di nero e andare in qualche locale ad ascoltare gruppetti sopravvissuti agli anni zero e a certa memoria che trita tutto ciò che non è più di moda. Maledette le mode che durano l’arco di un amore o del possesso di una Dyane, di un’amicizia. Vabbè, sabato ci sono ancora una volta i Diaframma a Roma e posso andarci; loro suonano da una vita e navigano attraversando ogni moda degli ultimi decenni. Ecco, uno come Fiumani saprebbe spiegarmi qual è il segreto di resistere e durare più di una dyane, più di una passione esplosa senza cocci da raccogliere. Senza amici da abbracciare. Chissà, forse glielo chiedo.

 

(buttato giù oggi con le cuffiette alle orecchie ad ascoltare Cognetti su radiotre)

venerdì 12 ottobre 2012

venerdì sera


Amo il venerdì sera perché scaccia le nuvole nere e le angosce dei cinque giorni precedenti. Poi se ti arriva lo stipendio due giorni d’anticipo allora scappi alla coop a riempire il carrello come se fosse l’ultima spesa che hai a disposizione. Prendi il pollo allo spiedo che mette sempre allegria. Il banconista ride e sembra un gallo. I bambini corrono lungo i larghi corridoi semivuoti e a tratti, quando urlano per farsi vedere, sembra di stare dentro a uno Shining di provincia. Papà mi prendi fifa ’12? No, a Natale. Dopo cinque minuti: mamma mi ha detto di sì, prendo quello usato a dieci euro. Certo, caro figlio mio, visto che lo stipendio in anticipo è contagioso e scaccia le nuvole nere di tutti, in fondo. Alla cassa siamo rimasti un quarto d’ora col rullo in azione, ci mancava poco che la commessa ci chiedesse un invito a cena. Il pollo e lo stinco si agitavano tra detersivi e merendine. Il vino rosso di traverso tranquillizzava tutti gli altri prodotti inquieti. Nessuno di questi pazienti prodotti ancora non sapeva in quale casa sarebbero finiti. A me i prodotti nei centri commerciali sembrano tutti vivi e pensanti. Me li immagino di notte, in quell’ultima notte che passano assieme sopra a quei scaffali bui, a raccontarsi come sono finiti là, e sperare di ritrovarsi magari in qualche casa. Nella stessa credenza. Ascoltare le voci di quella casa e assaporarne il clima e quei lunghi silenzi che certe case contemporanee sanno mantenere. A volte scadono i prodotti, e se ne stanno là, in pace, oltre ogni possibile casualità, dentro stipi chiusi. La sera alle quiete cene sopraggiungono urla e silenzi imbarazzanti fatti di pizze prese all’ultimo minuto. Così loro restano ancora qualche giorno, fino a quando a Lei non viene voglia di ricominciare a sperare. Allora fa fuori il passato e la polvere.  E tutti loro.

Adesso lo scontrino più lungo della storia della mia famiglia se ne sta tra due calamite sul frigorifero. Un miracolo. Fino a stamattina scroccavo caffè a lavoro con la scusa che non avevo spicci. E facevo pure le mosse. Mi devo vergognare? E perché? Sto raccontando il quotidiano, e di certo non come fa solitamente la televisione, con le sue morbosità che prendono forma di tette e di facce truccate male. Per esempio, del caso mediatico del bambino conteso a Cittadella, a me non importa più nulla. M’importa forse della sofferenza che smagrirà ancora di più la storia di quel bambino, ma non voglio ascoltare le urla strumentali di parenti per gli occhi di quei telespettatori vari, che così  riempiono le flaccidi menti di questo dolore di seconda mano; e mentre lo fanno si sistemano quelle penose pettinature lucenti. Andate al diavolo insieme alle vostre misere concessioni in fatto di diritti e dignità.

Restano le belle canzoni, le telefonate d’affetto e il grappino che sta ingrossando il mio fegato con passione. E i suoni, quelli del venerdì sera che promettono bonaccia appena fuori dalla porta. Neppure un rospo sull’uscio.

lunedì 8 ottobre 2012

bimba


Ecco mani nervose che muovono aria viziata, e tutte le voci delle donne che fanno un coro immenso. Cammina veloce senza badare alla voce, e le mattonelle sono sorelle, di una storia urlata nelle notti d’agosto. C’era quella bimba che lo voleva sposare e lo cercava tutte le sere. A lui piaceva il vento che si alimentava tra le sue parole sussurrate e i suoi occhi spalancati. Tra balcone e balcone, cinque metri di ponte tibetano invisibile, da dove passava tutta la timidezza spinta da quella sua ebbrezza. Un vortice fresco di cui oggi sente una tremenda nostalgia.

Questa bimba giocava alla moglie e vestiva come quelle bambole in spaccata sui lettoni dei nonni. Sbuffava per farsi notare, cadeva per farsi prendere. Niente, lui teneva tra le mani solo figurine: “Zoff non esce mai”. Soffriva. Zoff era davvero inafferrabile. La bimba cantava la canzone di Modugno che sentiva cantare alla madre mentre lavava i piatti, con tutto l’odore dei broccoletti che pesava nell’aria. “Mamma, mi porti giù?”

Nel budello di cortile faceva freddo d’inverno con tutto quel mare che smuoveva l’umido, e pioveva poco. Le sparute macchine chissà quali corpi di donne maltrattate obbligavano a viaggiare. Senza stelle certi paesi restano oscuri. La bimba pensava a quegli odori, e sentiva quelle urla strozzate. I nonni ancora non erano rientrati. Le tende immobili spegnavano le speranze, di supereroi pronti a intervenire. Nessuno. Neppure zio Mimmo, ché stava sempre imbarcato su navi gigantesche piene di petrolio nella pancia. Insieme al cugino Alfredo nel pomeriggio aveva visto il capodoglio sdraiato sulla banchina, morto, accerchiato da uomini vigliacchi: lo sapesse Achab, sai che calci con quella sua gamba d’avorio. Invece silenzio, in paese deve scendere il silenzio, altrimenti diventa città. La bimba, con gli occhi tutti rossi e quelle guance graffiate dalle proprie unghie, voleva, in quella serata pungente, soltanto che quel bambino coi capelli neri spettinati le dicesse ciao.

sabato 6 ottobre 2012

etichette d'autunno

Negli ultimi mesi mi hanno definito: ossessionato, strano, attore, immischiato, almeno quello che mi hanno detto in faccia. Potrei scriverci su un post o farmici un toast, senz'altro pensare a come non pensarci. Questo il reale problema: infilarsi tra le etichette messe a mo' di torero e scappare a polmoni aperti verso stradine sconosciute, dove incrociare persone adorabili di solitudini e pensieri.
Intanto fuggo al Maxxi, almeno là le etichette sono contemporanee, per niente retoriche o di seconda mano. Azzardiamoci un presente all'altezza dei nostri desideri, no?

Poi vorrei capire come sia capitato quello che, scrivendo nel motore di ricerca google scopa mia moglie blog spot, ne sia uscito fuori il mio blog. E io che pensavo di aver trattato benissimo la mia amata moglie. Vatti a fidare degli algoritmi va. Meglio le chiacchiere della comare al vico, ché almeno difettava di fantasia.



 

la vostra vita


Ho appena finito di vedere “La nostra vita” di Luchetti. Il dramma nel film emerge utilizzando la direzione sbagliata che prende il protagonista – prima operaio edile poi imprenditore in subappalto - dopo la morte, di parto, della moglie. Un’ostinata volontà di fare un passo avanti per scacciare il lutto e ripartire dall’illegalità, dai soldi che servono per continuare a immaginare le vacanze in costa smeralda. Intanto servono a coprire il vuoto di sentimenti che i figli vivono in quella casa. Poi segue una narrazione di ruggine e dolore.

 Sento cinismo nell’aria stasera. Già al parco, mentre i miei figli giocavano a pallone insieme a una cricca di ragazzetti sboccati e pallonari incalliti, mi chiedevo il limite tra le ragazzate e l’abisso verso l’indifferenza. Li osservavo da lontano, da una panchina di fronte al tramonto romano, in fondo vedevo pure il cupolone come in un plastico, e pensavo alla violenza che non vediamo quasi mai ma che percepiamo quasi sempre. Agli infiniti linciaggi che accadono ogni notte negli angoli. Al buio. E pure sappiamo, e la coscienza ribolle impaziente come quando l’incubo si veste di paure d’infanzia, in stanze minuscole di poster e porte chiuse.

Allora vedo questa rabbia che prende forma di cartacce sparse al parco. Di figli dolci in braccio a madri glaciali. Macchine lucidate con assassini a bordo. Lampioni spenti uno si e l’altro no. Curve di erbacce mai tagliate. Una donna africana avanza in compagnia delle sue pesanti buste della spesa. Del mio silenzio dignitoso contro i sorrisi sperperati in luoghi sterili.

Le telefonate fatte per noia. Gli sms sbagliati di tono.

Odiavo l’indifferenza di mio fratello mentre amavo la tua dolcezza futura.

martedì 2 ottobre 2012

Al corso di Antonio


Tempo fa feci un corso presso una libreria. Tutti i giovedì per qualche mese. Il conduttore aveva, e credo abbia ancora, una capacità comunicativa commovente e uno stile asciutto espresso attraverso una forma diretta, umana. Così riusciva sempre a creare un’atmosfera serena e, considerandola nel suo complesso, accogliente e stimolante. Volevo scrivere socratica, ma è inutile scomodare sempre il passato per valutare il presente, soprattutto quando questo si mostra originale, e quindi, dovrebbe essere alla ricerca di una propria identità.

Mi mancano quelle serate di parole calde e pensieri come eruzioni: spesso si riusciva a condensare in poche frasi pensieri che altrove magari ci impiegavi tre ore. Questo era frutto non di una magia, nemmeno di un miracolo, soltanto della capacità di una persona in gamba che ci immergeva in un contenitore di brodo buono, evocativo e saporito.

Grazie Antonio.

 Poi l’anno successivo spinto da una collega di corso, per ripicche di pizzate non fatte, e altre diavolerie femminili, che alla fine mi suggerì di fare un altro corso e io ascoltai. Maledetta prima fase. Ora sarei pronto per la seconda, ma è tardi, caspita è troppo tardi. No?

Oggi leggendo questo pezzo ho avuto la sensazione di continuare il corso, e questo è molto bello.