Il treno sta
partendo e come sempre mi sale quell’ansia che sa d’addio e di: aspettatemi che
torno, eh. Devo ritornare a Roma, dopo aver passato alcuni giorni a casa da mia
madre. Sono giorni che non si alza dal letto, capita che lo faccia almeno due o
tre volte l’anno, poi passa. Non sono più preoccupato come un tempo, quando su questi
treni regionali pregavo che cambiasse tutto, all’improvviso, a casa mia e nella
mia testa. Oggi riparto col sollievo di rivedere dopo pochi ma lunghi giorni i
miei figli, mia moglie, la mia casa, il mio glicine. Oggi i treni sembrano più
veloci, hanno l’aria condizionata e non ci si può fumare più. Devo chiudere gli
occhi prima che si apra come un sipario il golfo più malinconico della terra,
con quelle sue colline minuscole che da piccolo facevo percorrere da biglie
rosse immaginarie: le seguivo fino al loro tuffo in mare oltre la Punta
stendardo. Chiudo gli occhi e divento me a quindici anni, seduto a gambe
strette sul treno che sta partendo, con la faccia affamata di cose nuove sto
voltando le spalle al golfo. Durante questo viaggio di ritorno, per un’ora
almeno, sarò quel ragazzo: poi lo abbraccerò, poco
prima di dargli una leggera spinta, travestita d'abbraccio per farlo precipitare in mezzo alla gramigna
fuori dalla stazione di Campoleone. Ora ti saluto, cara B., ché devo sognare da
solo.
Stazione Formia-Gaeta.
Questo treno puzza
come sempre, le tende svolazzano fuori e come al solito la mattina ci sono quei
maleducati che dormono con i piedi sul sedile di fronte. Quella volta che
Ambrogio Sparagna li fece alzare, con determinazione e senza paura, con quel
gesto brusco quando aprì la tendina dello scompartimento, mi fece paura ma pure capire mille cose. Ma io ora sto scappando, e Sparagna
invece col suo oscillarci dentro a quella tratta, riuscì a crearci una fortuna, e la sua
arte. Io scappo e basta. Un giorno scatterò le foto più belle, conoscerò le
persone più belle, amerò le donne più belle: ora scappo e basta. Quella volta
che E. venne a salutarmi col motorino più vecchio della terra: stavo per
partire e mi diede un bacio al volo, da quel giorno i baci devono confrontarsi
con quel suo bacio tenero e profondo, dato sul binario tre alle nove di una
mattina fresca. Sto scappando, e non è la prima volta. Un pomeriggio d’inverno
andai a Latina. Scesi alla stazione e, pensando che la città fosse lì fuori, m’incamminai:
mi ritrovai subito in mezzo alla pianura Pontina, quella studiata a scuola. Mi
arresi e presi un autobus. Arrivai in piazza San Marco e vidi alcune bancarelle
di libri. Una aveva sul banco solo monografie di fotografi, tutte nere, Fabbri
Editore. Ne comprai una decina, poi ci ritornai dopo una settimana, per
comprarmi tutte le altre. In quelle monografie di Jodice, D’Alessandro,
Giacomelli, Koudelka e tanti altri futuri amatissimi fotografi, ci stava
incredibilmente tutta la mia storia, e quella della mia famiglia, e del mio
paese, e pure le mie ossessioni. Per anni pensai che la mela su un tavolo con accanto
ad un uomo, in una foto di D’Alessandro, fosse una scena vissuta nella sala bar
della clinica dove ricoverarono mia
madre. Scappai per non ripensare a quella clinica, o almeno per scacciare
quella mela bacata in quel salone dove vidi ballare una mazurca una coppia di
svitati adorabili. Scappavo, in verità, anche per un desiderio egoistico di
annusare aria contaminata di città. Certo, Latina non era proprio una città, ma
pure a Roma andavo spesso: scendevo a Termini e percorrevo via Nazionale con
l’incubo che mi riconoscesse qualcuno. Una volta a Largo Argentina
all’improvviso mi misi a correre perché sentivo dietro di me una voce simile a
quella di mio zio. Appena a Termini sentivo subito quella puzza di ruggine, e
me la portavo a spasso tra vetrine e piazze che mi facevano smorfiare brevi
sorrisi: cammino da solo per le strade di Roma, ehi sei proprio tu, tocca il
marmo, sfiora lo zampillo e ridi senza vergogna. Vivevo il contrasto tra paura
e coraggio, era una turbina che avevo sotto al culo e mi faceva avere una
faccia mai espressa prima. Mi fissai che dovevo osservare tutto quello che
accadeva in città per poterci scrivere appena possibile un libro: I contrasti
nell’era della pop art, fu il titolo che scelsi. Avevo raccolto informazioni
con gli occhi, ma qualche volta scattavo foto, anche se, quando le scattavo, mi
pareva di essere un cecchino, tanto era la paura di scocciare le persone. Coi barboni
andavo di lusso, quelli neanche mi vedevano. Scappavo, ma in realtà prendevo
aria a circa due ore da casa mia. Certe volte compravo riviste tipo Oggi, e me
le leggevo al ritorno, per rilassarmi come certe vecchie che desideravo avere
come nonne: le mie adorabili nonne mancate. Ricordo che spesso c’era Maria
Giovanna Olmi in copertina su Oggi, in bikini. All’andata leggevo Repubblica,
oppure Epoca, ve lo ricordate il settimanale Epoca? Scappavo, ma volevo essere
sempre presente, le droghe o l’alcol non mi attraevano. Il sesso sì, ma cosa
c’entra però il sesso con i vizi me lo deve ancora spiegare Don Gennaro. Una
volta mi prese da parte al parco, e mi sussurrò di fare attenzione a
frequentare quella... o di uscire con quegli altri… di non fare quelle cose… Io
non capii, poiché in realtà mi tagliai semplicemente i capelli, rasandomeli dai
lati. Non risposi nulla, ma da quel giorno non diedi più peso alla sua tonaca:
diventò suggestiva come lo scialle della cartomante che d’estate sul viale dei
platani, a lume di candela, attirava a sé i vacanzieri coi suoi superpoteri.
Una volta scappai più delle altre volte. Rientrai verso le 22, d’inverno e il
mare era mosso anche a quell’ora. Alla fermata c’erano mia madre, mia cugina
grande e il marito. Vedendoli dall’autobus, appena misi piede a terra corsi
come Mennea verso il lungomare. Queste urlavano come ossesse ma mica mi
acchiappavano, e in più si prendevano gli schizzi d’acqua salata in faccia.
Arrivai col fiatone fino alla mia cameretta, chiusi a chiave e mi tappai le
orecchie.
Stazione Fondi-Sperlonga.
Oggi sto scappando
con stile, me ne vado a Bologna. Voglio vedere se è vero quello che canta Lucio
Dalla. Voglio imparare a scappare meglio, mi sono stufato di essere rincorso.
Devono capire che oramai faccio quello che mi pare. Mica faccio male a nessuno.
Sono convinto che niente di brutto potrà mai accadermi, questa cosa la so da
sempre, così vado e vengo, e parlo con tutti, e mi aspetto sempre qualcosa da
ogni incontro: come quel giorno che mi ospitò una coppietta gentilissima a casa
loro, vicino Firenze. Questi due erano iscritti alla scuola di fotografia di
Luciano Ricci e, sentendomi dire che sarei ritornato giù in treno la sera
stessa, erano già le 18, mi convinsero a stare da loro almeno per la notte, a
Figline Valdarno. Mi sfamarono, mi chiesero mille cose, e mi misero al letto in
una stanzetta che forse sarebbe diventata quella dei loro figli: nella notte
fecero l’amore in maniera esagerata. Mi tappai le orecchie pure lì. L’indomani
lei girava per casa in vestaglia trasparente e lui con la divisa da meccanico
fece colazione velocemente. Ci salutammo sotto una pensilina bianca alla
stazione, e per me fu la prima pura gioia sociale, tutta mia.
Stazione Priverno-Fossanova
In una mattina fredda
di gennaio, alle sei, alla fermata dell’autobus col mare alle spalle, conobbi
M. Portava un basco un po’ troppo alla parigina. Cominciò a parlarmi alle sei e
smise alle undici, quando arrivammo a Firenze Campo di Marte.
“Io non pago il biglietto del treno e degli autobus da otto
anni. Disobbedisco. Ma tu nella vita, dipingi?” Così esordì vedendomi con una
cartellina, che in realtà conteneva le foto che realizzai come “compito a casa”
per la scuola di fotografia, dopo un mese che restai tappato in casa, quando
feci una fuga all’incontrario verso casa mia. Il mare placido e nero restò
fermo, mentre noi partimmo con l’autobus. Gli chiesi con un filo di voce se
aveva un biglietto in più, e la sua risposta fu un trattato politico sulla
necessità di ottenere tutto gratis, e sulla conseguente determinazione a non
lavorare mai per nessuno: dobbiamo picchiettare come uccellini alle finestre
marce del capitalismo. Così mi conquistò, all’altezza della stazione di
Priverno, oramai sul treno, mentre albeggiava su di noi: annuendo per cinque
ore di fila, aderì al suo movimento fancazzista.
Cominciai ad applicare il suo credo già dalla settimana
successiva al suo proclama. Coinvolsi E. e E. quando ripartimmo alla volta di
Firenze. Fu un correre impauriti e divertiti in quel corridoio strettissimo
dell’Espresso notte. Il controllore, enorme e baffone, insospettitosi dai
nostri sali e scendi a ogni fermata, decise di braccarci. Lo vedemmo in fondo,
tutto scombinato, come un orso disperato, che puntava verso la nostra
direzione. Mettemmo la retromarcia e ci infilammo dentro al primo bagno libero.
Lasciammo la porta chiusa ma senza girare la leva. Arrivò trafelato, con la
fronte sudata, e sbatté la porta contro i nostri corpi sovrapposti: ridemmo
come scemi durante il tempo immobile dell’emissione del verbale. L’amico E.
però rideva nervosamente, considerata la sua precisione, il suo essere un
ragazzo tranquillo, credo che fu per lui una mazzata tremenda quell’esperienza:
la vergogna gli fece perdere un paio di chili, ma, come sempre, me lo fece
capire dagli occhi e non con le parole. Invece E., il mio amore, fu felicissima
dell’accaduto, e quella notte me lo sussurrò all’orecchio sinistro dopo i mille
baci dati.
M. lo incontrai altre volte, in quegli anni. L’ultima volta
che lo vidi era sconvolto, non più prolisso, e mi raccontò soltanto che
cominciò a raccogliere i pomodori in campagna dallo zio; sfidava il capitale
lavorando con gli umili, così mi disse mentre s’incamminò un po’ curvo lungo
via Indipendenza. Lo seguii con gli occhi fino a quando imboccò vicolo La
scurda, e in quegli interminabili secondi mi salì un pensiero lancinante,
cattivo, comico e liberatorio: ma che cazzo mi racconti? Tu che non hai il
coraggio nemmeno di ricevere l’amore di A.? Ripensai a lui qualche mese dopo,
durante l’ultimo verbale subito. Il controllore con l’espressione da padre
tentò di farmi ragionare sulla cazzata di non pagare il biglietto: tanto prima
o poi o tu, o chi per te, lo pagherà con la mora. E sarà contento solo
l’erario, allora. Parlò con tono incerto, fissandomi, anche se con gli occhi
sembrava che fiutasse soprattutto quel mio disastrato presente. Io rimasi con
la carta d’identità tra le dita e lo sguardo che rimbalzava fiero e ridicolo
nello scompartimento zeppo di studenti pendolari e pendolari statali. Fu
l’ultimo verbale e fu la prima fuga verso un senso, tutto mio, tutto in salita
verso mille scorciatoie impazzite di desideri.
Se ti va arrivo a Roma, fuga dopo fuga.