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lunedì 21 agosto 2017

uno schermo in riva al mare

Stasera ho visto un documentario che narra la storia degli Stooges e di Iggy Pop. Un susseguirsi di spezzoni d’epoca folli, esagerati di libertà scombinata, alternati a misurate interviste attuali ai protagonisti di quella epopea, a Iggy Pop soprattutto che, nella frase finale, dopo aver dichiarato di non voler indossare tanti status tipici delle rockstar, dice semplicemente di voler Essere. Proprio quello che stavo pensando io poco prima, durante la visione. Cambia decisamente lo scenario, lo so, ma io pensavo vedendolo a torso nudo e ipnotico durante i concerti, beh io pensavo ai protagonisti del libro di Haruf Le nostre anime di notte, di cui mi stavo stavo pregustando le ultime pagine, e che poi ho finito di leggere una volta a casetta. Me ne stavo seduto sulla sdraio, con mio figlio e mia moglie accanto, uno schermo in riva al mare, il buio profumato della macchia mediterranea intorno, un mio amico che presenta l’evento con perfetta pronuncia inglese, e lontano dalle nostre spalle il caos estivo del golfo di Gaeta. Una metafora su dove mi piace stare, mentre ci stavo. Questo voglio essere? E cosa volevo essere a quindici anni? E nei prossimi venti?

Stamattina io e il piccolo abbiamo cominciato a scrivere una storiella insieme. L’idea ci è venuta mentre l’altra sera abbiamo aspettato invano le pigre stelle cadenti. Così abbiamo immaginato una grottesca estinzione del genere umano, attraverso un enorme cellulare che cerca di farsi un selfie scimmiottando un uomo d’oggi. Nella fine c'è l’inizio: la cellula. Tutto questo mentre le presunte stelle cadenti ci osservavano come se fossimo in una teca del Muse, come se fossimo già estinti da millenni, per le stelle e per altri strambi e geniali generi spersi nell’universo. No, non c'è lo siamo vissuto come un possibile racconto apocalittico, anzi, ci pareva di stare su una bellissima navicella stellare, accanto a mondi stimolanti. Siccome il piccolo si è fissato che devo scrivere un libro, pur non sapendo che a volte resto, come ora, a scrivere cose così fino alle due di notte, senza un perché; l’indomani, mentre oziava in attesa del pranzo, mi fa: Allora scriverai il libro sul cellulare scemo! E io: no, semmai lo scriviamo insieme. Non se lo fa dire due volte, impugna il cellulare non scemo e si mette a scrivere: io detto, lui aggiusta e scrive.
Forse voglio essere così. Arrendermi al fatto che non sopporto più il vuoto di questo posto dove trascorriamo due settimane ad agosto, e alcuni giorni tra Natale e Pasqua. Dove non c'è la faccio più a fare la manutenzione a questa casetta di legno, o sistemare l’uliveto, e neppure raccogliere i fichi d’india, almeno non quest’anno. Non mi va per mancanza d’immaginazione, per stanchezza, e perché sono esaurito: fragile come quel mandarino piantato quindici anni fa ma che non vuole saperne di attecchire in questa terra. Riuscire a fregarsene del giudizio di tutti quelli che qua intorno alzano case piene di tristezza abusiva, e arano, e ti trattano spesso come un alieno, un fesso da sfottere.
Penso alle morti improvvise di Barcellona, e a quelle premature di tanti miei amici d’infanzia, e mi sento di essere pronto a vivere questi supplementari che mi restano con il pensiero di essere quello che vuole scrivere una storiella col figlio in una casetta di rubinetti che perdono, di finestre che non si chiudono bene, di una libreria a parete realizzata e donata da un amico anni fa, quando tutto pareva che funzionasse alla meraviglia, ma era solo la giovinezza.
Vi prego voi quattro, non spoilerare niente della storia del Cellulare scemo, altrimenti il coautore s’incazza di brutto.

Questa pagina la dedico a quelle stelle e a quelle persone che ancora non conosco. E a voi quattro che leggete ora.



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