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domenica 13 agosto 2017

l'estate è quella casetta laggiù


    L’alberghetto era fermo all’ottantasei, e il gestore Angelo assomigliava ad Adolfo Celi con gli occhiali. Lo spazio relax consisteva in un biliardo appiccicato al ping pong, una pista tonda e legnosa dove non ballava nessuno e un flipper accanto al divano di pelle. C’era una palestra di cyclette disposte di fronte a una lavatrice, con attigua una sauna che abbiamo sfruttato in una mattina di pioggia. Ho sbirciato un Corriere della sera il primo giorno, stava su un tavolino nella hall, ma non era dell’hotel: la moglie annoiata del gestore, che leggeva Mastrocola, ci si è fiondata su appena mi sono allontanato. Era un hotel che somigliava a quegli autogrill-ponte sull’autostrada, ma di legno. Si mangiava bene, e si stava spersi e sereni come in una vera vacanza bisogna stare, almeno per me.
   Abbiamo fatto tante passeggiate. Il piccolo arrancava, e mi ricordava il piccolo Apicella in Palombella rossa. Il grande ha mostrato una resistenza commovente: merito del rap? Mia moglie respirava come Maiorca. E io? Osservavo e speravo che l’idea vacanza in montagna reggesse alla prova dell’escursione. Ha retto, e ci ha portato fino a 2200 metri.
Ho convinto il grande a salire in cabinovia a patto che ascoltassimo in cuffia il suo amato Rancore: avevo tanta fifa anch’io.
   La Val di Rabbi con le sue sparute casette, mezza abbandonata rispetto alla Val di Sole, ci ha fatto desiderare posti così appartati per le future vacanze. Invece stavolta stavamo in una zona da sciatori ma senza neve, anche se la clientela sciancata dell’alberghetto ci è ripiombata nelle nostre tendenze umanissime di radiografare le vite di persone barcollanti, anche in vacanza, anche quando sembrano più spensierate. Mi è piaciuto da matti contemplare le interazioni della famigliola con lo zio un po’ sciroccato al seguito. O quando al marito della toscana è partito un video porno a cena, e disperato non riusciva a bloccarlo. Oppure certe coppie precisine coi figli tiranni: le loro facce imploranti, le loro fughe attraverso il chiacchierar del niente eterno. C’era una bambina, Celeste, che sicuramente Kubrick l’avrebbe inserita in Shining, escludendo le gemelle, poiché emanava mistero e dolcezza in eguale misura. Al personale dell’albergo ho dedicato i migliori sguardi, i migliori ascolti emotivi. Nella testa avevo Youth, e cercavo famelico un Caine da fissare.
   A un certo punto la guida alpina, al rientro da una visita a un laghetto alpino, ci ha fatto scendere attraverso una pista da sci, d’erba. Un’anziana insegnante si lamentava della caviglia: mi sono girato e ho visto decine di persone coloratissime su sfondo verde arrancare con dignità in discesa libera. In quel momento, avessi avuto forza e più coraggio immaginativo, li avrei presi uno a uno in braccio e riportati alla base, accanto alla pasticceria.
In Val di Non, vicino al castello di Thun, ho mangiato una mela dopo circa quarant’anni. E. scendendo dall’auto ne ha colte due al volo da uno dei milioni di alberi che c’erano, il gesto ha eccitato il piccolo, che poi mangiava e rideva sfrenato mentre gli mordevo la mela, creandoci su rime allegre sul meleto.
Ridere, ci ha salvato ridere.
    A Trento, finalmente per il Muse, mi sono fissato e commosso davanti ai sassi decorati tredicimila anni fa. E poi abbiamo giocato con leve e vortici, osservato galli forcelli e camaleonti, e sudato in salita nella serra tropicale. Anche nel centro desertico di Trento si sudava, e poi al rientro, dal trenino, ho ammirato i vigneti come un unico tappeto infinito, che da Mezzocorona a Cles mi hanno riempito gli occhi a tal punto da farmi scrivere tutto contento di treni e di mie vecchie fughe, su google Drive, e con una mano soltanto.
     In quei giorni il grande mi disegnava a furia di racconti i suoi sogni di produzioni rap, di etichette e magliette, dove imprimere la sua carica creativa. Lo osservavo e pensavo alle Piccole virtù: a volte arrivano all’improvviso, dopo tempeste e pianti.
Illusioni, quelle che ci hanno tenuto saldi e felici in montagna.
Abbiamo percorso trenta chilometri in bici a trenta gradi, scioccanti per quei posti, lungo il torrente Noce. Stabilendo un’impresa, un record per famiglie non allenate e stressate da lunghi inverni urbani. Ci siamo abbracciati con gli occhi, mentre riportavamo soddisfatti le bici al noleggiatore stupito.
   Non ho usato internet in quei sette giorni, e vivevo in un’iperrealtà famigliare che mi sorprendeva. Riflettevo: potrei vivere in eterno così, mentre provo a fermare il tempo, riducendo le angosce, riuscendo a moltiplicare gli affetti.
Poi al rientro in una galleria infinita sulla variante di Valico, mentre sorpassavo un tir, a questo bestione scuro è esplosa una ruota accanto alla nostra auto. Un boato. Abbiamo tremato: E. spaventata non riusciva a parlare, il grande pensava fosse un interferenza audio in cuffia e il piccolo silente non capiva. Sono stato bravissimo a tenere strette strette le mani sul volante, a non frenare, e a dire a E. di chiamare il 112. Quando scavallo i miei evidenti limiti, mi sento bene come un leone sazio. Poi ho virato verso l'autogrill Cantagallo, dove abbiamo sublimato la mancata visita a Bologna per troppo caldo, con una mangiata di tortellini e amatriciane squisite già dal desiderio: ecco la foto delle nostre facce davanti a quelle padelle fumanti. Clic.
   Alla fine è stata la vacanza meno aggressiva mai esistita per noi. L’evoluzione ci ha spinti a credere nelle intenzioni buone, come il bisnonno Neanderthal abbiamo voglia di sotterrare asce e smartphone saturi sotto un piccolo pino cembro, come i furbastri corvi quando nascondono i loro semini ai piedi dei Larici.
Alla fine siamo rientrati abbronzati e salvi nella nostra capanna romana di cemento e glicine, dove aspettare un altro inverno, non prima di andarci a tuffare per qualche giorno nel nostro vecchio Tirreno blu.



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