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sabato 9 settembre 2017

Giornate che sanno di te (figlio).

   Me ne stavo spensierato dentro questo settembre e finalmente, dopo i soliti abbagli d’agosto, vedevo nitide le persone e questo mi aiutava a far sfumare via l’ansia, mi faceva respirare bene e pensare: caspita la vita quando arriva così. Poi piomba la notizia che ti hanno bocciato. Proprio oggi che hai organizzato una bella cosa, tutta tua, che hai condiviso facendo rappare quattro ragazzi, due venuti addirittura da Torino, in un locale chiamato Dissesto musicale. Ti cercavo con gli occhi mentre incoraggiavi i “tuoi” rapper, o abbracciavi due fan venuti apposta da "Battistini", o dopo quando dialogavi come un grande col gestore del locale. Durante la serata ti hanno applaudito e ringraziato: a detta loro senza di te loro non avrebbero mai “rappato 'sti pezzacci”. Io me ne stavo seduto al tavolino, con una smorfia un po’ troppo alla Nanni Moretti, a vaneggiare lieve: stasera sei sbocciato, altro che bocciato. Eppure a volte i fiori stordiscono di profumo, e sono assediati da api e insetti, e subiscono grandinate. Insomma, sto provando a rimanere in piedi per tenere ferma la nostra barchetta in mezzo a questo mare che sembra di bonaccia, ma che in un attimo potrebbe mascherarsi da tempesta. Certi fiori sono semplici, quando la luce li investe davanti, poi li osservi al tramonto e ti sembrano minacciosi, accesi di sfumature rossastre. Scrivo così perché sono confuso, non deluso, casomai spaventato; in fondo preoccupato come gran parte dei padri che, finché non ti sentono rientrare, e bere un po’ d’acqua, e accarezzare il gatto e spegnere la luce, immaginano che un intero mondo ti stia inseguendo, ingannando o semplicemente ancora cercando.
   I tuoi sedici anni oggi sanno di una settimana di video girati alla Storta e al Pincio, di registrazioni a Re di Roma e prove serali al parchetto vicino casa. Con tuo fratello che ha avuto la gloria di aprire la serata con una “sua base”, e tua madre che chiacchierava di te con parole adoranti tra mojiti e amiche.
Sono ingombrante come certi mobili scuri, pressante come certi temporali, e adorante come i cani al mattino. Chissà tu come mi vedi, e come mi assorbi o respingi in queste nostre giornate che qualcuno deve pur raccontare: ingombrante come una telecamerina nascosta male.

Eccomi che ti sto ancora aspettando, e immaginando, fissando la tua imminente risposta whatapp, in mezzo a questo fracasso di silenzio di una giornata che sa tutta di te.
Mi salgono a galla pagine di libri, canzoni lontane, parole non dette, e mi sento più solo che mai, più forte di sempre, e pronto a esserci svestito d’ansia, così come m’implorano rabbiosi d’affetto i tuoi occhi belli.








venerdì 1 settembre 2017

mangio ansia a colazione

   
  Come se non l’avessi fatto di proposito: scegliere tra i contatti quelli a cui far sapere i fatti miei, conditi di velleità. Sono esaurito. Per la prima volta dopo le ferie d’agosto non ho voglia di fare buoni propositi. Questa estate ho sentito tanta ansia, che mi ha gonfiato le gambe, fatto crescere la barba e paralizzato davanti a un molosso nero. Una volta in mare, a cento metri da riva ruotare di 360° e vedere due delle persone che amo di più allontanarsi verso la grotta e io che, senza un reale pericolo, le chiamavo e ruotavo ancora: poi si è riavvicinato il piccolo e mi sono calmato. Sono fatto d’ansia e d’idee. E non riesco a essere pratico e determinato. Intanto oggi mi sono ingolfato come il decespugliatore, e scrivo a vuoto di figli e di fobie. Vi avrò stancato della mia normale esistenza trascritta e vi avrò anche illuso di trovare ogni volta almeno una cosa scritta bene, e vi avrò deluso leggendomi per l’ennesima volta senza trovare neppure un po’ di fresco tra un periodo e l’altro.
   A te che ti fiuto come felicità in agguato, chiedo una tregua: non darmi più possibilità ma parole lisce di risposta.
A te che mi consideri amico amico, be’, a te chiedo di continuare a esserlo e ricordarmelo in certe mattine di mattone.
A te che curiosi e aspetti grandi cose, ti darei un bacio di pazienza e un abbraccio chiassoso.
A te che oramai mi sopporti come si sopportano le delusioni del sabato sera, ti aspetto per un caffè, per ascoltare le tue belle confidenze.
A te che non conosci l’odore delle mie braccia, e non vedi la mia faccia, ti aggiorno appena mi trasformerò in uno splendore d’uomo.
A te che capiti qui a forza di tirate di giacca, grazie, e perdona la mia presunzione da quattro soldi.
Per tutti voi noleggerò un pullman per attraversare mondi che assomigliano ai miei racconti migliori di certe serate senza livore, e sarò sereno e dirò quello che credo e scriverò quello che vedo e che immaginerò: scorrendo le vostre facce tra i finestrini e le acacie, mi calmo e risorgo.

Dopo tre ore.
   Avevo scritto queste cose mentre la mia auto veniva lavata a suon di musica araba. C’era un vento caldo, e provavo a chiamare un amico che non sentivo da mesi, poi mi ha risposto con un Sms: ho una paura muta di non sentire più voci bellissime. Così, una volta al supermercato mi è salita una voglia di piangere davanti ai sottaceti.
Avere una smisurata quantità d’ansia in circolo ti fa immaginare cose così: cani che ti sbranano, persone che annegano e tu non riesci ad aiutarle, o la faccia di un vecchio amico che sbuffa al pensiero che lo stai chiamando. Non è vero niente, invece è vero il niente che trasforma l’aria e la bocca e le parole, che deformano la mia faccia e la fanno diventare torva e brutta. Credimi, io sono anche bellissimo, sensibilissimo, ignorantissimo: con una storia da raccontare, questa è la mia vera e bellissima ambizione. Ecco, l’ho tirata fuori.
A questo punto devo capire se rivolgermi a uno psicanalista, a un editor o un trapezista.

Il giorno dopo.
   Ieri sera mentre passeggiavamo intorno a Castel Sant'Angelo, dopo aver cenato sul lungotevere, pensavo a come mi vedo male, a come mi vendo male, a come cedo il passo alla vocina stronza: quella è contenta che non abbia imparato l’inglese neanche quest’anno.
Questo lo penso ora, poiché ieri sera, dopo cena, ho ascoltato due librai che parlavano e parlavano dei libri belli, degli editori fetenti, e mille altre cose che avrei dibattuto senza problemi, e invece me ne stavo lì a sfogliare libri con le dita e annuire a questi due. Timido. Scemo. Vinto. Perso. Questo lo vivevo ieri, ora sto qui con una forza improvvisa a scrivere di come recito in società. Ecco, riuscire a trovare quella nervatura giusta per legare questa mia forza-coraggio alla realtà-realtà, potrebbe realizzare la svolta di mangiarmi l’ansia a colazione.

Il giorno dopo ancora.
   È appena passato il temporale e qui a Roma sono riemersi i profumi, e le piante gocciolanti sembrano più verdi, e alla tivù non ci sono notizie di razzismo. Oggi non ho ansia, sono ritornato al primo lavoro, poi ho preparato spaghetti alle vongole. So che è una tregua, so che l’ansia è una serpe ma oggi mi sento un uomo perfetto, fossi bravo e scaltro lo dimostrerei anche sui social, o telefonando felice ad amici e parenti: ma sono timido, e me lo tengo per voi.
Fine.

P.S.
Vorrei cancellare questa lagna d’agosto con me che ballo Lou Reed mentre spazzo a terra, lavo i piatti e fantastico sui mille anni che ancora vivrò. Trattengo tutto, e riparto.