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mercoledì 28 agosto 2013

barriera corallina

Allo sguardo di E.

Non sapevamo niente del mondo, e il fulmine, la roccia e la tua faccia hanno compromesso il sogno. Che fatica la serietà della vita, il possedere, il tenere al guinzaglio i sentimenti e sopportare il prossimo anche quando ti è estraneo come il seme lo è al fuoco.
Mi sono seduto a lungo in questo agosto sereno, e non è bastata la vita, così le nostre parole protette da pergole hanno allungato il tempo immergendoci in mondi lontani.
Quest'anno il sole non mi ha scottato, e i tuffi erano davvero tuffi, gli scogli mi parevan braccia e la sabbia faceva la sabbia. Potrei continuare all'infinito con queste sviolinate da mare, ma le ferie stanno finendo, e non ci resta che tornare a fare le comparse di giorno - per portare la pagnotta a casa -  e sedimentare silenziosamente questi momenti di pura gioia in robuste barriere coralline: per difenderci dagli inverni e crescere contenti di noi, del nostro essere migliori, mica di voi, ma di quello che eravamo ieri. Perché  in fondo restiamo sempre bimbi fragili  in un mondo "cupo e sordido".
 


Anche quest'estate ho utilizzato il miglior calmante in commercio:

 


 
 

martedì 27 agosto 2013

falanghina


Sono uno di fronte all’altro, dietro c’è il melograno appena germogliato. Sotto i loro piedi erba brulla che ricorda certe aiuole trascurate del paese. Lei accavalla le gambe mostrando impazienza. Lui sembra lontano, diffidente del momento. Poco prima era successo di nuovo, alla fine del pranzo, che aveva preparato con la solita cura e passione, e che lei aveva apprezzato al punto da dargli un bacio subito dopo aver buttato giù l’ultima vongola; tra quel bacio furtivo e la litigata sarà passato un minuto. Giusto il tempo per lui di sorseggiare in maniera trionfante la falanghina. Lei fa una domanda, che poi era un ricordo di tanti anni prima, e lui, al suono di quelle parole, in realtà un suono dolce e non accusatorio, sentendo quelle parole inaspettate sbatte il bicchiere sul tavolo e si alza di scatto. Lei si ritira nelle sue minute spalle e sbuffa, senza farsi sentire. Ma sbuffa, e lo fa pensando a quando lui scattava per molto meno e di tutte quelle serate rovinate da una parola fuori posto, in quegli anni della loro giovinezza. Erano lontani quegli anni, ma non in quell’istante dello scatto di nervi d’oggi, che è apparso come un vecchio film in bianco e nero. Di violenza e silenzi.

 Si era andato a sedere davanti al melograno. La moglie l’ha seguito. Prima passando per il bagno per piangere un po’ in santa pace. Mostrarsi debole non le è mai piaciuto, figuriamoci oggi, dopo tante conquiste sudate e ancora fragili da gestire.

Una leggera brezza tiepida smuove la scena. Lui si abbassa con la testa e le spalle verso la terra. Lei ora lo fissa come quando lo desidera e poi glielo lascia capire con due o tre mosse da femmina. Lui non la vede ancora. Nessuno dei due voleva ritornare su quella frase che riguardava il passato remoto, era chiaro da tempo la volontà ferrea, tacita, di lasciar scorrere il tempo. Un compromesso che fungeva da tensostruttura sulle loro esistenze. Ma non parlano né si muovono. Dentro la loro casa c’è una radio che libera canzoni d’amore italiane. I vicini stanno prendendo il caffè e si capisce che affrontano allegramente la questione di dove passare le prossime vacanze estive, sembrano eccitati mentre scorrono dépliant di località patinate del Mediterraneo.

Di solito a quest’ora fanno l’amore, dopo pranzo gli è sempre piaciuto, più della sera, con quel cibo appena gustato e il vino bianco ancora in funzione: a quel punto alle mani e alle bocche resta un teatro aperto, dove rappresentare la tensione nel desiderio.

“Guarda che quella volta a Perugia hai sbagliato tutto, e io avevo ragione. Devi solo ammetterlo e non farti il sangue amaro. Poi sono passati dieci anni caro mio”.

Ora la sua faccia si fa manovrare dai nervi e ghigna pronta ad attaccare. Il risultato è fiacco e non procura niente, la tensione che c’era rimane tale e quale a prima della frase esplosa nella bocca della moglie. Una zolla è soffocata da un calcio del suo piede sinistro, in silenzio, nessuno se ne accorge.

“Io ho sbagliato sempre con te, tu incarni proprio lo sbaglio”.

“Smettila, e lasciati andare. Capisci quando non ha senso combattere?”.

“Facile per te, che trovi sempre la maniera di massacrarmi”.

“ Lo sai che gli spaghetti erano proprio buoni? Sei un’artista sei”.

A questo punto, con tutta la bocca di olio, vongole e falanghina, gli da un bacio con la lingua che si agita nella bocca di lui come una vipera. Lui cede, ma rimane rigido e spera in una sua imminente leggerezza, opportuna e scaccia crisi. Lei insiste, perché oggi non potrebbe fare altro, allora si sfila la maglia e si butta come una gatta sopra di lui. L’albero, l’ombrellone e le siepi collaborano nel proteggerli e nasconderli al mondo. Le margherite ai bordi si agitano simulando un applauso. A questo punto i corpi stendono ogni nevrosi sul tappeto erboso.

Intanto la bottiglia di falanghina cade a terra, ma nessuno se ne accorge.
 

Scritto dal mio amico Felice, per i tipi "scrivi che ti passa". Estate 2013 alle spalle.
 
 
 

mercoledì 21 agosto 2013

come si misura il ricordo?

Ieri mi sono deciso ad aprire il baule arrugginito. Mi ero dimenticato che era rimasto lì, appiccicato alla parete di legno della nostra casetta di campagna, immobile, dall’ultimo dei nostri traslochi: otto anni fa. Contiene i miei diari scritti dalla metà degli anni ottanta alla fine dei novanta. Ci sono anche foto in bianco e nero stampate da me, raffiguranti scene di pesca con mio padre e strambi personaggi locali; c’è una coppia di amici ritratti nella loro casetta bohemien, e ancora, E. statuaria e muta; poi immagini ingenue, alcune irriconoscibili dalla muffa, e sono a colori e sono le prime foto che ho scattato: somigliano a quelle che fa in questi giorni mio figlio piccolo.
Diapositive di vacanze o di tentativi di creatività diversa. Nel baule c’erano quotidiani che in copertina mostravano fatti clamorosi dei primi anni ’90: bombe mafiose, elezioni perse, e altre cose urlate di fermenti di quegli anni. In un ritaglio del Manifesto c’è Stefano accanto a una bandiera del PDS, il giorno dopo la nota sconfitta della macchina da guerra. C’erano pure documenti vari: irate lettere di dimissioni a direttrici di lavoro pazze, e bollette, e libretti postali con ottomila lire, passate da un giorno all’altro da tre milioni a questa misera cifra. Anche una locandina di un Festival (?) di musicisti di metro organizzato da noi, presso La Tenda. Tra le cose più commoventi il libro-archivio che la maestra Nardone ci consegnò in quinta, che contiene tutte le cose importanti fatte in quel percorso: una mia intervista a mio padre, operaio di piastrelle; le tante gite raccontate, e i resoconti di pronto soccorso, anche poesie e altre cose fatte con assoluta libertà, che la ponevano un po’ più in là della Montessori.




Osservare le infinite cose scritte da me su quaderni, agende, block notes, foglietti sparsi di quando facevo il cameriere, e vedere all’improvviso tutte quelle pagine scritte mi hanno lasciato addosso dello stupore e interrogativi condannati a non avere mai più risposte. Ho scritto una quantità impressionante di deliri sognanti e non, lagne poeticanti e lettere - spedite e non spedite - d’amore per E., sofferte, per le mie improvvise mattate di gelosie o giù di lì. E poi una lettera in cui chiudo una lunga litigata con A.: verso la fine dell’epistola deliro che sembro uno scolaretto dispettoso in libertà temporanea. Lettere di mia madre, che mi spediva quando facevo il cameriere a Campiglio, e dal tono che usava pareva invece che fossi al fronte, sul Piave, a combattere gli austriaci e non a servire panini ai rampolli viziati della prima lega padana.
 


Quello che imbarazza oggi la mia coscienza non è il grado di follia amorosa che toccavo in quei pomeriggi annoiati, e neppure le ingiurie moraliste contro alcuni amici d’allora, o per le foto di scarsa qualità, no, quello che mi fa vergognare sono gli errori ortografici! Alcuni reiterati fino al ’96: sopratutto, un’istinto, hai tuoi occhi, …refusi replicati? Macché, semianalfabetismo puro. Eppure leggevo: Breat Ellis; Ben Jelloun; Vassalli; Pasolini; Campana, e tanti altri che divoravo come seni stracolmi di nutrimento per la mia storia affamata. Ho scoperto Moravia a Rimini, leggendo i suoi racconti in una camera d’albergo, mentre io facevo l’animatore per il soggiorno degli anziani che pagava il comune di Roma, che a sua volta pagava me tramite la cooperativa, insomma, in quei giorni di scrocco del ’93, leggevo Moravia e lo scimmiottavo scrivendo raccontini fulminei di donne malinconiche e di uomini alienati, che genio che ero, no? In realtà, per non massacrarmi senza fini di lucro, devo ammettere che venivo da periodi incasinati di malattie altrui che per almeno mezz’ora la settimana diventavano mie. Non sazio, mi sono messo pure a lavorare nel sociale: tossici, carcerati, bambini in fuga, barboni, e altre categorie di sfigati peggio di me. Senz’altro stavano peggio di me, poiché io in fondo avevo un gran vantaggio: mi muovevo tantissimo. A pensarci, come avrei fatto a evitare il crollo che mi seguiva sempre come fiato sul collo senza spostarmi in continuazione tra amici e città, ce l’avrei fatta? Oggi posso riconoscermi un merito - leggendo quelle pagine ingiallite e rosicchiate dai topini di campagna - per alcune frasi illuminanti e per degli incisi rivelatori simili in cose scritte in questi ultimi tempi, nel pieno della mia lucidità di quarantenne. Alcuni pezzi che ho scritto allora mi lasciano senza fiato, mi scuotono e fanno pensare che non è mai troppo tardi è un detto da sfruttare fino alla fine. Scopro che alcune mie idee di oggi erano già pronte allora, così come certe taglienti e originali posizioni nei confronti del contesto amicale, così come di fronte al’immenso palcoscenico culturale che mi schiacciava: erano lì sull’uscio, pronte a farsi apprezzare per la loro cruenta onestà. Ma non uscivano del tutto, se ne vedeva solo la coda, qualche pelo e poco altro di autentico. Il caro Pasolini mi aveva intossicato la testa con la sua pomposa prosa ideologica, e poi c’erano tutti quegli intellettuali sempre schierati che mi avevano imprigionato come una mummia di frasi fatte e di slogan già deboli allora.

Tutto questo trambusto vissuto cosa importa adesso? se non che ieri non ho avuto il coraggio di bruciare tutto? Avrei cancellato ogni traccia di come mi rappresentavo in quegli anni giovanili. Poi, venendo fuori da uno strisciante malessere, ieri ero davvero pronto a saccheggiare e incendiare il mio passato sperando di restituire al presente una faccia più serena, un corpo meno incurvato e una testa nuova di zecca per aggredire qualche futuro alle porte: sfoderare l’ultimo attacco in stile alle mie paure.

Niente, poi ho conservato tutto in scatole di cartone. E stamattina la mia faccia barbuta testimonia un coraggio che fa arrossire il mio passato. A breve, a richiesta, leggerò pezzi dei miei adolescenziali diari, intervallati da lunghe e singhiozzanti risate di liberazione. Prenotatevi.

Qualcosa ho buttato: un mio ritratto a tempera, brutto assai, che mi fece un tipo antipatico. Foto oscene che scattai a Milano, al Sicof, che mi vedeva superficiale e allegro in misura eccessiva, come se recitassi troppo male anche quell’evanescente parte che mi ero scelto allora. Ho cestinato anche le infinite bollette della Findomestic: vera persecuzione dei miei anni passati.

Avrò saldato il debito?



 

martedì 13 agosto 2013

cocomeri all'ombra

Volevo staccare da questo ingombrante blog, per inquinare meno l'etere e le teste, e i miei pensieri. Niente, questo resta tra i luoghi migliori dove trascorrere le vacanze. Ridete pure, ma è così per me, che sto a metà delle ferie e vorrei spaccarle in due come un cocomero: vedere se c'è del liquido amniotico da leccare con le dita, tra i semi e la polpa rossa.
Se non avete proprio niente da leggere, non vi siete portati i libri dietro, o magari i classici volete evitarli ancora per un anno, allora vi suggerisco di leggere questi last minute qui. Per il resto, si sa, fate come vi pare.

Qui sotto c'è una cosetta di mio cugino Arturo; mi chiede cosa ne penso mentre io giro la mia faccia abbronzata da un'altra parte. Così lo faccio sentire davvero solo, come è giusto che si senta chi si azzarda a scrivere cosette in pubblico. Sbaglio?



ciambelle
Arriva di corsa fino alla riva, frena, e col piede sinistro sfiora l’acqua, barcolla per due secondi e si volta per guardare la madre. Un attimo dopo arriva pure il fratello piccolo che non riesce a frenare: si ritrova in acqua, in ginocchio, che fissa la trasparenza che arriva fino alla tellina che spinta dalla risacca s’intravede nella sabbia. Si mette a urlare per metà divertito, e per l’altra preoccupato per l’imminente ramanzina. Non sono ancora in costume. Niente, oggi, non arriva nessuna ramanzina. I genitori sono coi culi affossati nella sabbia, a un paio di metri uno dall’altro. Giocano con la sabbia. Lui scava rimanendo sempre allo stesso livello di profondità, lei se la lascia passare tra le dita lentamente, osservandola mentre scende. Da lontano sembrano uguali, se non fosse per il seno di lei e il costume attillato di lui. Pochi ombrelloni aperti, a fine giugno i villeggianti se ne stanno ancora indaffarati in città. Nel frattempo i due bimbi sono in acqua alta quanto loro e si affogano a vicenda fino allo sfinimento, e ridono. C’è una coppietta vicino a loro, sono un po’ nascosti da un gozzetto ancorato; si baciano e si abbracciano e si capisce che il salato sta aumentando le voglie di entrambi.

 

Passa il traghetto al largo e spacca in due il mare come un enorme cocomero, e lascia dietro alla sua poppa una scia che oggi appare più tossica: schiuma che si mischia col fumo nero di nafta. Poi sparisce.