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domenica 2 dicembre 2018

Diario di un padre pop (titolo provvisorio)

         I miei figli, le mie più riuscite illusioni. Come due uccellini fradici di pioggia aspettano i miei abbracci, le mie fragili parole, i miei toast. Ce la sto mettendo tutta a recuperare le mie distrazioni passate, quel mio vagare tra desideri e paure, che alla sera mi lasciavano senza energie per voi. Quella volta alla fermata Garbatella mi ero paralizzato davanti all'ascensore e senza vostra madre forse avrei avuto più aria, ma anche più rischi di sbatterci contro e morire come un fantasma. Figli, che strano tuonare questa parola dentro una notte di De Gregori e spavento, insomma, ragazzi miei ascoltate quello che ho vissuto oggi. Me ne stavo contento mentre parlavo con  disinvoltura post-ideologica a F., su cosa pensavo del suo progetto lavorativo interessante, ma troppo nostalgico: troppo simile ai miei fallimenti andati, gli ho detto con eleganza quasi letteraria. Alla fine F. mi fa: uno come te che non abbia un incarico dirigenziale mi pare assurdo. Io sorrido, chino il capo, poi respiro soddisfatto e dico di avere un esercito di limiti nella mia mente. Poi un scazzo tra di voi mi ha fatto barcollare, parole e imprecazioni che volevo lasciare cadere su quello sterrato davanti alla trattoria di agricoltura nuova. Non riuscivo a mediare, a difendervi da quel mondo sordo che origliava la nostra crisi. Penso alle tempeste vissute in questo anno, che oggi si sono scontrate con le mie improvvise frustrazioni. Dopo un attimo mi ritornano in testa le parole femminili violente e umilianti che mi hanno zittito stamattina: mi hanno paralizzato al nastro di partenza, come sempre. In più quella vecchia vocina stronza che insiste spietata e mi sussurra: non sai fare niente, lascia che decidano loro. E continuavo a ridere e ridere ancora. Osservavo la mia impotenza, e quel tramonto rosato che spezzava la schiena. Ora sono qua a darvi una buonanotte che sa troppo di commiato e pare racconti un'altra storia. No, no, figli, rimango dentro questa mia unica vera e piccola storia di un ragazzo che se ne sta ancora paralizzato ad ascoltare canzoni, ad abbassare la voce, la testa, guadagnare nove euro l'ora, ma che sa baciarvi ancora, e piangere insieme a voi, e pure ascoltare le vostre canzoni graffiate di parolacce e amore che urlano riscatto.
        Resto, forse conosco già la fine, ma resto lo stesso a fischiettare illusioni davanti ai vostri letti che ho montato bestemmiando e sognando un tempo comodo e adulto per voi. L'idea che non potrò vedervi in quel tempo forse sta nella natura dei ruoli, eppure oggi mi fa schiattare il cuore e disperare, come un padre costretto a partire per una guerra inevitabile, innaturale, umanamente intollerabile.
    L. mi dice: devi insistere a scrivere, lo fai bene, proponiti. J. mi scrive un WhatApp: come ti ho detto a cinque anni tu sei l’unico che mi strappa dalla tristezza, sei simpatico. Ti voglio bene.