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lunedì 26 settembre 2011

cosa cambia? (scritto il 30 agosto)


Cosa cambia?

Ma cosa glielo dico a fare? Che poi mi spaventa vedere la sua faccia quell’attimo dopo l’ultima parola della frase. Lo so, finisce così. No, meglio far cadere. Tanto, cosa cambia ora? Magari glielo dico quando manca un giorno all’ultima proroga possibile, che forse è pure peggio. Mannaggia. Certo, con tutti i compiti possibili, proprio a me ne toccava uno così fetente? Ora se ne sta sdraiato sulla spiaggia, con i figli a vista e la moglie sul lettino con quelle gambe appena un po’ aperte. Eppure. Non posso più aspettare. Questi mi cazziano di brutto. Ché non li conosco: sanno solo contabilizzare le perdite. Ecco che spiega alla moglie come sistemare il giardino; quali mattoni prendere, come sistemare le scale. Tutto per cenare per bene l’anno prossimo, insieme agli amici che passeranno a trovarli. Quest’anno, se ho ben capito, avevano pochi soldi per le vacanze. Gli amici sì, ne avrò contati almeno una ventina; e che non aspetto l’anno prossimo per  dirglielo? mica sono stronzo io, infatti, mi sa che rinuncio. So che prima o poi deve fare i conti con le sue vicissitudini. Sì, lo so, non posso rinunciare alla missione, ma posticipare sì. Magari accorcio il tempo a quello di Milano, che non mi sta proprio simpatico. Provo a trattare per lui a settembre, sono anni ormai che lo faccio. Tanto agli altri l’ho comunicato. Già. Manca solo lui. Guarda come lancia in aria il figlio per il tuffo in mare. Come potrà farglieli fare poi, senza quell’entusiasmo? Quello di Milano è separato senza figli e con tanti vizi. Vabbè non devo mettere troppo il becco, lo so, ma come faccio a dirglielo dopo aver visto questa scena? Quello si deprime e resta imbufalito per tutto il tempo sulla poltrona di casa. Sai che ti dico? Vado a Milano e lo comunico prima a quell’altro, che pare abbia già fatto testamento: tutto alla nipote bionda che profuma d’incesto. Pure. Eccomi sul treno che sfrecciando accorcia il tempo. Intanto laggiù c’è un uomo che si solleva dalla sabbia e ride.

domenica 25 settembre 2011

 Come mi piace leggere  cose improvvise: cose scritte con slancio e originali. Poi, quando c'è pure l'autoironia, allora la goduria è massima. Rigenerante.
Ma chi lo capisce? e chissenefrega degli altri. Da stanotte ho deciso di dedicare almeno il 50% del tempo alla mia bella faccia. Anche alla mia testa, ma al corpo un po' meno. A quarantunanni suonati a volte faccio i capricci come un quindicenne stonato. Da stanotte voglio utilizzare una torcia illumina-coscienza per sondare i miei bassifondi malfamati. Voglio fare chiarezza, come mi suggerisce S., e nel farlo, immergendomi in apnea, scuotere tutte le mie conoscenze in fatto di uomini e donne. Bambini inclusi. Così, quando torno a galla, faccio una strage di verità, col sorriso al posto del coltello. Quando ce vo' ce vo'.
No?
Intanto se vi va, quattro amici al bar, leggetevi questo pezzo "insonne".
/http://www.ilpost.it/antoniopascale/2011/09/22/nella-notte/

venerdì 23 settembre 2011

lasciamo la poesia in mani poetiche


Poesia di Dino Campana

L'invetriata

La sera fumosa d'estate
Dall'alta invetriata mesce chiarori nell'ombra
E mi lascia nel cuore un suggello ardente.
Ma chi ha (sul terrazzo sul fiume si accende una lampada) chi ha
A la Madonnina del Ponte chi è chi è che ha acceso la lampada? C'è
Nella stanza un odor di putredine: c'è
Nella stanza una piaga rossa languente.
Le stelle sono bottoni di madreperla e la sera si veste di velluto:
E tremola la sera fatua: è fatua la sera e tremola ma c'è,
Nel cuore della sera c'è,
Sempre una piaga rossa languente.
Per tutte le lacrime che non trovano l'aria, né la voglia di esibirsi.
Per il ricordo di capelli strappati da rabbie buie.
Per il sollievo di avercela fatta anche quest'anno con la dignità, onestà e tutte le altre diavolerie quotidiane.
Per i capelli più neri dei miei che aspettano spazzole di consolazione.
Per un mattino freddo che verrà a soccorermi dentro l'ingorgo terribile che già mi aspetta.
Per i fatti miei, che da un po' erano diventati anche i loro. Me li ripiglio e vado a infilarli nella sacca di tela marrone che pende di ragnatele.
Per l'ultimo secondo di vita di mio padre. A esserci, avrei esibito tutto l'umido che mi portavo dentro da qualche tempo.
A esserci.

http://youtu.be/w3bKbt4Gf94

mercoledì 21 settembre 2011

Ti vedo



Lo vedo che cammina spaesato per le strade del mio quartiere, in cerca di un lungomare da percorrere. Eccolo seduto sul divano con le gambe strette tra i miei figli: vuole dargli il massimo dello spazio. Adesso ride a una mia battuta così tanto da far vedere il suo dente piombato d’argento. Si ferma, mi guarda, e non dice una parola. Nessuna parola per me. Perché papà?
Eppure siamo stati insieme tanto tempo. Eppure il tempo era il nostro tempo. Gli anni settanta terribili e belli ci sfioravano appena. Stiamo faccia a faccia a giocare a briscola, come tavolino una sedia di sbieco, fuori un temporale che prova a spaccare le persiane. Gli altri ognuno per conto loro, noi stremati arriviamo fino a stare con le ginocchia piegate in su, dentro a un letto enorme di lana, e i tuoi racconti che disegnavano la stanza. L’altra notte ti ho sognato ricoverato. Io non venivo a trovarti, e me ne stavo pieno di fatti miei dentro a un ritmo di una città che tu conoscevi appena. Ti eri fermato ad Anzio negli anni cinquanta, con le barche del nonno a tirar su alici brillanti, da vendere alle massaie affamate. Così sei sbarcato dalla tua guerra: per un futuro di comodità lavoravi senza pietà. Per la tua giovinezza che s’impigliava dentro reti vecchie di mare, che erano ancora di tuo padre e non sarebbero mai state le tue. Le mie non di certo, ché al mare ho voltato le spalle a vent’anni per città affossate in conche gigantesche di vita. A cavallo di un effimero post-moderno mi dilungavo -naif d’inerzia- in visioni di futuri immaginati. Mi dovevo salvare. Mi dovevo allontanare dal nulla che sentivo intorno; che poi era e resta un rimbombare eterno che sguazza negli stagni delle adolescenze allungate dai guai.
Ma chissenefrega! Ora sei alla fermata dell’autobus con le gambe tozze di muscoli che poggiano sulla ringhiera arrugginita di sale e petrolio. Di colpo sei dietro la rete metallica del campo di calcio che finiva in mare: la porta stava a cinque metri dagli scogli dei ratti. Tu stai lì che mi saluti con gli occhi pieni, aspetti paziente, la mia decisiva cannonata contro la porta avversaria.

martedì 20 settembre 2011

Mostriamoci


I piedi mettevano fretta. Si doveva girare l’angolo, il prima possibile. Prima che la sua faccia ricompaia come mostro a significare il mio fallimento. Una bolla soffiata male, la tua illusione. Che ora è schiuma, rabbiosa evanescente schiuma di fine estate. Ricordi le povere onde costrette a infrangersi per un pubblico a dir poco grottesco?
Il tirreno ha visto facce e corpi migliori negli anni. 
Ricordi il vento lento che accarezzava le fronde calde degli alberi? Il mostro dov’era nascosto in quegli attimi pallidi? Noi stretti stretti a dimenticare le paure. Loro forti forti a capire che la ragione tanto bussa sempre da loro. Anche oggi, dopo l’impatto violento contro il tempo. Ora, che il buio urla il suo stupore e ci lascia scoperti davanti alla notte. Che è qui, e mi guarda come cagna vagabonda.
Intanto filari di donne che porgono grappoli d’uva nera a uomini inscatolati. E’ autunno, e i mostri passeggiano indisturbati sulle strade di Roma.
Domani file di mani che si stringono davanti a piazzali scolastici. E’ autunno, e i bimbi iniziano a conoscere i nomi e le facce dei futuri mostri.
Per ora nessun temporale che riesca a scacciar l’umido che si è posato nella tua testa.
Eccoci intanto salvi sopra un letto gigante scaccia-mostri che comprerò domani; i desideri dormono già sereni. Sento grattar alla porta, sarà il solito buffo mostro arreso che scappa da me.
Sarà già fra un mese questo mostruoso ricordo.
Ai piedi resta la quiete.

lunedì 19 settembre 2011

E cerca 'e me capì - Pino Daniele


Mi ero scordato di Antonella, nella dedica, riparo con questa canzone.
Spero che almeno le piaccia.



sabato 17 settembre 2011

Marlene Kuntz - Grazie


La dedico alla mia pazienza e a quella di Enrica. A Enzo. Pina. Sonia. Andrea. Alle pagine di Philip Roth, a quelle di Pascale e alle righe finali dei demoni di Fiumani ...Agli occhi dei miei figli. Un po' anche a mia sorella, nonostante tutto.
A tutte le occasioni che non ho ancora perso.
Alla spinta ignota che ha fatto scrivere questa bella canzone a Godano.
A tutte le belle canzoni italiane che sostengono le nostre vite appese ai giorni degli altri. E non sta bene. No.
A mio cugino.
Ai tre click fatti dalla federazione russa per questo blog, oggi. Ma chi siete?

ci sto


Potrebbe sembrare che me ne importi poco di quello che (non) sta accadendo in Italia in questi giorni. In parte è vero, l’impressione è azzeccata. Ma, dico io, come faccio a unirmi a un coro che non ha le idee chiare su quasi nessuno dei temi cruciali in questione? Lavoro, economia, educazione.  In fondo riguardo alla prospettiva sociale di un intero paese. Non di una sola parte.
Da qualche tempo la mia generazione si è affidata a comici e giornalisti, riguardo a idee e contestazioni del caso. Poi, appena li guardo da vicino vedo: il grillino con le vene ingrossate che, con le vene di nuovo a livello normale, mi sussurra che deve chiedere un favore all’assessore del comune per un progetto. “E devo pensare a mia figlia…”. Altri che quasi quarantenni, già genitori, si fanno mantenere ancora dalla famiglia d’origine, nemmeno fossero adolescenti studenti. Hanno i figli quasi adolescenti! “E’ la crisi, porca puttana”, blaterano. E ancora quelli che dicono: non se ne può più di questi al potere e poi, sempre usando un tono sommesso da parroci di campagna, ti dicono che stanno per affittare un monolocale a 900 euri agli studenti.
Ma come?
Senza contare i piccoli favori sessuali che sento intorno a cerchie non di certo berlusconiane. Almeno sembra.  E già. Io me ne sto da anni col compromesso in mano con una miccia cortissima: piccole esplosioni verso la testa ci sono già state. Insomma, cerco di collocarmi in una posizione realisticamente confacente al mio pensiero e alla mia storia, e invece mi tocca prendere schegge in faccia e sulle ginocchia, quando intorno vedo un fuggi fuggi verso lidi comodi ma per niente esotici. Da qualche anno mi sforzo di non urlare più la rabbia, che pure ingoio ogni tanto, e così facendo cerco di evitare gattopardismi e infantilismi già sperimentati dalle generazioni precedenti, per provare un’altra carta, un altro adulto da mettere in piazza. In questa fase mi sto arrendendo e facendolo ficco gli occhi e la testa dentro libri luminosi di senso. Ma quanta fatica amica mia, quante belle parole rinsecchite dall’afa inesauribile di questo settembre.
Meno male che in fondo, nel senso di profondità umana, ho degli amici da un presente limpido anche se barcollante come il mio. Avessimo la forza di smascherare gli ipocriti, allora si che ci potremmo contare e, senza più disperare, considerare l’Italia un paese da sempre fascista e corrotto. Ma al contempo considerare pure che sempre l’Italia sia riuscita a sviluppare germi e virus  dentro sacche di resistenza al peggio.
Dateci una sacca, uno stipendio dignitoso e qualche albero, dove ripararci d’estate; il resto saccheggiatelo voi, non c'è che dire. Perché qua i figli crescono e cominciano a reclamare giustizia. Sperando che lo facciano in un auspicabile clima d’allegria e leggerezza,  come schermo esistenziale  per le inevitabili rotture col mondo: anche quello vicino eh, dei parenti e conoscenti.  Che spesso il peggio che hai intorno ti si appiccica ai polpacci che nemmeno le zecche.
Nessun silenzio è fonte di giustizia, lo so, ma per ora mi tappo le orecchie e serro le labbra, meglio lasciare il potere al tatto. 

http://www.corriere.it/spettacoli/11_settembre_17/telecomando_7a995ab6-e0f4-11e0-98a6-ace789a755c8.shtml

giovedì 15 settembre 2011

Che continui a barcollare questa sedia dove cerco di fermarmi. Che resti annebbiata la mia vista dalle mille paure che si parano davanti agli occhi in certe mattine fredde. Non importa, qui quel che vale è davanti alla porta: non lo lascio entrare per paura di morire. Sì, qui se tutto si aggiusta rischia di diventare letale per le mie ossa. Lasciamo barcollare tutto in questa stanza incompiuta che necessità di mani decise e braccia salde. Non sono io. Non sei tu. In queste notti sogni bizzarri di baci e addii.
Poi ci sono quelle persone che parlano una lingua insopportabile: di decadenza masticata male. Ma finitela! Vi regalo tutte le mie sedie impagliate d'illusioni, ma state lontano da me; saccheggiate le mie idee e ingoiate le mie migliori battute, ma andate via.
Poi ci sono altre persone che ti abbracciano cogli occhi appena possono.
Come non sopporto quelle persone che non rispondono quasi mai col tono che desidero ai miei messaggi.
Che tristezza questo correre dietro al tempo senza riuscire a dirsi un ciao come si deve.