Pagine

venerdì 29 giugno 2012

aspettare il mare


foto di lorenzo
Annaffiare quel che resta del prato. Sentire per telefono i settantacinque anni di mia madre, e sperare che il caldo la eviti. Abbracciare all’improvviso mia moglie. Giocare a pallone con i miei figli. Ascoltare il suggerimento di Andrea. Non pensare ai guai, al lavoro, e a tutte le cose opprimenti che mi spezzano le ali. Bere birra fresca. Chiedere un prestito a Stefano sapendo della sua infinita bontà. Lasciare stare le brutte persone, del loro nero imbruttire. Ricordare le cose belle ascoltate o lette per me. Che quelli che sbirciano questo blog siano persone curiose davvero delle faccende degli altri. Svegliarmi all’alba, cambiare l’acqua ai pesci. Poi aspettare in silenzio il fruscio delle foglie sopra ai miei pensieri. Mangiare pane e pomodoro.

http://www.poesieracconti.it/poesie/a/giorgio-caproni

lunedì 25 giugno 2012

lo stile di giulia


Questo porto non lo sopporto più. Vedo sempre le solite quattro barche vecchie con la ruggine che scende dai lati, e le funi pelose che pendono e puzzano solo a guadarle; e pure quel chioschetto squallido laggiù a sinistra, poco prima della pompa di benzina mezza abbandonata, dove i pochi avventori riescono a tenerlo in vita coi loro caffè corretti.

 A Gisella l’avevo detto: resto un paio d’anni, il tempo di far innamorare Guido e poi scappo via con lui verso Bologna o Roma, chissà. Proprio così le dissi quella sera che decisi di restare a vivere qui. Si stava tutti insieme spensierati su quella terrazza poco illuminata e piena di uomini con camicie bianche sbottonate e donne con tacchi alti e sorrisi generosi. Era estate, e davanti c’era tanto mare. Ero convinta che la mia vita avesse incrociato la fortuna di ritrovarsi insieme a persone belle, e lui. Pensavo. Invece, eccomi qua sopra a questa terrazza maiolicata blu e ben illuminata, con il grembiule nero fino alle ginocchia, e la sera gli occhi neri di matita che intimidiscono un po’ gli uomini. Sto con scarpe comode per correre svelta da un tavolo all’altro, dal martedì alla domenica, estate e inverno. Sempre qui. Mi rilasso un po’ la mattina al risveglio, sempre sul tardi, quando il sole già picchia e lascia poca aria in giro. Faccio colazione al bar di Maria, cui sto raccontando le mie ultime comiche pene. Con i colleghi c’è poco da fidarsi. Poi continuano ogni giorno, patetici e ottusi, a volermi sedurre con racconti di vite mai vissute da loro, o con slanci, fatti di battute e sguardi, per conquistarmi scacciando la mia amica apatia sociale. In fondo i loro poveri sogni di gloria si vanno a nascondere nella federa del loro morbido cuscino di mammà, ancora prima dell’alba, quando con facce da bimbi agognano di smarcarsi da mamme gigantesche, poco truccate e con il tavor sempre in borsa. Figurati. Stavo, e sto qui, in questa cittadina di mare salata e senza futuro, solo per rivedere Guido e la sua pittura. Loro lo sanno, ma, poveracci, si mettono a competere anche contro il suo fantasma, pur di provarci con me, che sono femmina da conquistare. Nei miei occhi neri riescono a entrare i pescherecci con le loro reti umide e piene di fravaglia, cosi i pescatori chiamano quei pesciolini senza qualità, quindi senza commercio, proprio come lo sono i miei colleghi camerieri che valgono poco davanti all’eleganza di Guido; anche davanti alla sua pittura, come nella sua capacità di esprimersi con uno stile asciutto e tutto suo. Così diceva quel critico di Firenze su quel catalogo. Maledetto lo stile e la mia ostinazione a volerlo bere come fosse limonata fresca. Speravo di baciare Guido tutte le mattine, così da assaporarne il suo stile, la sua unicità. Farmi contagiare come una santa col suo oppresso. Che scema, la solita scema ragazzina di trent’anni che beve cose di cui non conosce gli effetti né il sapore. Niente.

martedì 12 giugno 2012

Il ponte galleggiante. Le ortiche. Alice Munro

Image of Il ponte galleggiante - OrticheQuesti due racconti di Alice Munro sembrano gemelli, soprattutto nelle emozioni, un po’ meno nelle storie. Forse, gli elementi che ci fanno vedere immagini, collegate alle nostre percezioni, sono della stessa natura sentimentale: ponti su fiumi, fango, profondità trivellate, amori sospesi, malattie incombenti, morti in agguato. Desideri di tenerezze e di attenzioni che mai bastano alle vite di queste due donne. Queste due storie raccontano quei sentimenti che si trovano a metà tra noi, con le nostre debolezze umane, e i nostri intimi desideri che lottano contro i limiti terreni. Questi desideri non appaiono né morbosi tanto meno volgari: sono complicati dagli accadimenti esistenziali, che spesso sono affollati di cose, persone e un tempo dilatato che tracima nella vita.

 La protagonista de”il ponte galleggiante”, si perde con consapevole convinzione, tra granoturco e itinerari di adolescenti innamorati, anche per sentire la scossa che ogni tanto la vita ci concede, bloccando ogni ombra cupa che tormenta le nostre notti. Questo se si sceglie di lasciarsi andare verso percorsi aperti a sensazioni rischiose, per la nostra fragile stabilità stagionale.

Quelle ortiche che si ritrovano addosso i due protagonisti, poco prima della fine del racconto omonimo, ci lasciano quell’amara sensazione che la cronologia dei nostri sentimenti è scollegata dalla realtà, quasi sempre. In questa storia senz’altro, così facendo ci sbarra la strada a ogni mielosa conclusione ma, produce, inevitabilmente, una fine all’altezza della complessità dei personaggi. E noi siamo contenti lo stesso nell’aver partecipato con la nostra commozione, e spinti da autentica curiosità, ad assaporare i delicati movimenti di queste persone interessanti, che abitano i racconti.

Questi racconti sono pronti per ogni destinazione che preveda condivisione, lasciando alle spalle ogni inutile tragedia consueta. Spingono verso riflessioni leggere da fare al riparo del chiasso. Infine vivere – il più possibile lontano dall’ovvio che ci sovrasta ogni santo giorno - con intensità ogni minimo segnale di cambiamento.



Alice Munro. Il ponte galleggiante. Le ortiche.
Racconti d’autore. Il sole24ore

Il ponte galleggiante. Le ortiche. | 24letture#more-1460

domenica 10 giugno 2012

sdraiato



A quindici anni volevo scrivere un libro, avevo pure il titolo pronto: i contrasti nell’era della pop art. Un titolo strambo adatto a un tipo strambo, com’ero io allora. Stavo sempre a pensare a ‘sto libro: la notte mi svegliavo e lo vedevo sul comodino, ancora vuoto di parole. Già, quelle non venivano mai quando le chiamavo: invece arrivavano parole pesanti piene di tristezza, e soprattutto arrivavano nella controra, quando non le cercavo. Questo lo so oggi, ché allora mi parevano pure belle e importanti, quelle che mi capitavano tra la testa e le mani. Di parole. Necessarie, pensavo. Macché. Erano solo ferri arrugginiti da lunghi inverni di lacrime, quelle sì necessarie. Mio zio mi bastonava quando non lo aiutavo, e la moglie, che non riesco neppure a chiamare zia, quando era nervosa, mi chiudeva nella cantina per interi pomeriggi. Lì mi facevo le pippe, e cos’altro potevo fare? sì, anche al libro pensavo, ma come facevo a scriverlo? In realtà mi frullava tutto nel cervello, mi sarebbe bastato trovare un contenitore robusto dove versare il tutto. Intanto però, ora devo ammetterlo, allora era più semplice pensare tutto il tempo alle cosce di Mariella, che a scrivere qualcosa di buono. Questo libro però un giorno improvvisamente ha visto la luce: una decina di pagine sgrammaticate che faceva apparire la mia realtà spaccata in due come un cocomero. I buoni e i cattivi, le femmine e i maschi. I miei zii e la mia rabbia. Ma mi piaceva, ne ero soddisfatto e confidavo nella giustizia divina per la sua diffusione; sì, allora avevo questo tipo di pretese: sei buono? Avrai la ricompensa. E io l’aspettavo tutte le sere la ricompensa, sdraiato sul materasso di lana aspettavo una ricompensa come fosse l’apparizione della madonna. Invece arrivava Mariella, che mi sorrideva serena. Mi addormentavo, e ci mettevamo a fare bagordi insieme tra nuvole e tappeti. La mattina poi, prima del mezzo bicchiere di latte che la moglie di mio zio mi sbatteva sul tavolo di marmo, all’aperto sotto al pergolato, che sennò sporcavo, così diceva quella; insomma, a prima mattina scappava via Mariella, e a volte avevo proprio l’impressione di vederla con le sue gonne da zingara che si gonfiavano e sgonfiavano in lontananza, sulla strada poderale. Macché, erano solo cazzate di sogni che mi servivano per caricarmi, così per riuscire ad andare a raccogliere i cocomeri dentro al caldo infernale del campo, alle dipendenze di mio zio. Ma questo lo so soltanto oggi, prima, allora, tutto era fluido e vero. Pure Mariella.



Così oggi mi ritrovo a fare questo lavoro strambo. Alcuni lo fanno facendo i cattivi, quasi con atteggiamenti da delinquenti, questo anche perché è un lavoro duro tra persone imprevedibili. A me basta sorridere un po’ alle persone che incontro nelle stanze o nei corridoi, bere caffè alla macchinetta con Giovanna; ogni tanto chiacchierare con il professore d’italiano in pensione. Aspettare il ventisette per pagare l’affitto e la rata della macchina. Il resto del tempo, quello che mi avanza dalla clinica “Quiete serena”, lo impiego a leggere tutto quello che c’è da leggere sugli anni settanta in Italia. Qualche volta, quando si tratta di musica e movimenti giovanili, mi sposto anche all’estero con la lettura. Ho una cantina piena piena di riviste e libri, dischi e articoli ingialliti. Ogni tanto vedo Giovanna la sera, quando non deve assistere sua zia malata, e allora andiamo al cinema e poi scopiamo a casa mia. Non succede nulla d’importante prima né dopo averlo fatto, ma durante stiamo da dio. Entrambe siamo single. Lei, a dire il vero, ha un altro amante: occasionalmente la passa a trovare un camionista del suo paese d’origine. Stanno insieme una notte. Poi lui la saluta con le lacrime agli occhi, e lasciandole tra le mani un pacco di biscotti al cacao fatti dal forno del paese. Poi seguono settimane di silenzio. Nel frattempo lei viene al cinema con me. Ci sono dei periodi che non la voglio vedere. In quei giorni voglio solo pensare al passato, agli anni settanta. Vedo solo film dell’epoca e, se fosse possibile, uscirei solo con donne degli anni settanta. Dicono che sono un po’ monotono. In realtà lo dice solo Giovanna, che per me equivale a tante persone, perché ho pochissimi amici. Un tempo ne avevo a bizzeffe, e facevo con loro un sacco di cazzate. Un giorno poi abbiamo trovato il lavoro e ci siamo scordati di fare le cazzate. A dire il vero all’inizio, durante qualche sabato sera, le facevamo lo stesso le cazzate, ma non erano più le cazzate di una volta. Quando non penso agli anni settanta, penso ai pazienti che vedo tutti i giorni. Molti di loro hanno vissuto il meglio della loro vita proprio in quegli anni, e quindi gli faccio le domande di questo genere: “avvertivi che stava cambiando tutto in quegli anni?”. Spesso mi ridono in faccia; qualcuno tenta di abbozzare un discorso articolato. Non ce la fanno, i farmaci finora hanno sempre vinto sulla loro lucidità, e alla loro memoria restano frasi mozzate che sanno di poco. Solo il professore parla bene, fino a farmi vere lezioni. Ogni tanto si ferma su qualche autore o fatto anche per più giorni, che sono costretto a prendere appunti. In cambio vuole un po’ di vino rosso di sottobanco. Quando beve racconta pure meglio, e io ascolto con più piacere. Insomma, una volta che faccio quello che mi chiede il responsabile della clinica, non mi resta che chiacchierare con i pazienti. Un giorno il professore ha sforato negli anni ottanta; l’ho dovuto bloccare, stava diventando irritante in quell’uscio di anni opulenti e chiassosi di niente. Così, dopo che l’ho minacciato di non dargli il Chianti già comprato, è ripartito dalla battaglia per il divorzio senza fare una piega.



Giovanna non vuole che le dica frasi di circostanza dopo che abbiamo scopato. Dice che deve sentire i suoni. Non oso chiederle cosa siano i suoni, poiché lei non osa chiedermi perché mi sono accanito tanto con gli anni settanta. È un patto. A noi piace stare ognuno nelle proprie cose. Poi un giorno tutto finirà, e ognuno di noi dichiarerà tregua al mondo e farà qualcosa di meglio. Oggi no, poiché non è ancora il momento giusto per fare di meglio.

 Racconto contenuto nell'antologia "quando la finisci di scrivere 'ste cose?". Editore impossibile. Collana "utopie necessarie". roma 2012

giovedì 7 giugno 2012

scenari desiderabili


Ho sostenuto quarantadue esami all’università in tre anni, non tutti brillanti, sia chiaro, ma li ho fatti. Nel frattempo è nato mio figlio e morto mio padre. E poi lavoravo sodo. Insomma, oggi vorrei di nuovo tutta quell’energia là per investirla di nuovo, ma nel lavoro stavolta. Quello mio, non del dipendente che sono stato. Rischiare proprio oggi che mio figlio è stato bocciato all’esame del Trinithy, significa, forse, che sarebbe il miglior modo per abbracciare il futuro senza farsi stringere da cappi di presente stantìo; be’, qui si tratta davvero di impiegare il coraggio e non rabbie stagionali. Partecipare e non lamentarsi. Ma io sono pure tutte queste cose chiassose e folli, che mi schiacciano sopra il materasso molle della mia realtà. E anche altro di poco edificante. Insomma, umanamente allo sbando, dentro un circo variopinto di unghie laccate e senza peli superflui non mi resta che chiedere ad Andrea una ricetta per la leggerezza da praticare tra mura domestiche, gratis, e con scenari magnifici da desiderare.



Vorrei piangere tutta la notte, e svegliarmi con le ossa lucide.



Oggi la cosa più interessante che mi è capitata sotto gli occhi è questa:

martedì 5 giugno 2012

aspetta un attimo


Ti sei fatto una testa enorme di bolle e ossessioni: sei tu il mostro, gli altri sembrano zombie, e non sanno bene cosa sono. Sei come un temporale estivo, improvviso e spaventoso, poi passi e sei quasi salvifico per chi resta. Per chi sa usare sempre bene l’ombrello, nella direzione giusta dei propri interessi. Non come tua madre che piange un’ora sì e un’ora no, tra risvegli e piccole morti quotidiane. Hai paura della morte, me l’hai confessato, e si vede nei tuoi occhi lucidi quando la sera, mentre tutti dormono, spalle alla tivvù accesa, guardi il palazzo di fronte fino all’ultima finestra illuminata o aperta. Poi piangi.

Stai per partire verso la solita isola delle fughe, dove il respiro sa di aria fresca, e la sera riesci a tenere un intero gruppo davanti al tuo teatro che non delude mai. Le donne ti tengono d’occhio, e sperano in sguardi pieni. Tu abbracci tutti e corri verso la scogliera da solo, prima che l’ultima stella cada. Così quella sera di luglio, era l’ottantanove, il caldo faceva appiccicare le magliette alla pelle, e Anna aspettava il bacio. Chissà cosa aspetta ora Anna nel centro di Caserta, o in un ufficio a Mantova, o a Napoli sul lungomare di Chiaia. Di certo non a te, e alla tua insopportabile timidezza ad oltranza, nemmeno fossi un devoto della madonna. Niente sarebbe cambiato, ora staresti con le mani nervose lo stesso, davanti agli amici sbigottiti dalle tue scelte improvvise, senza paura, ma con lo spavento tra i denti.

Fallo per loro, i tuoi gioielli cogl’occhi belli, che stanno crescendo proprio bene. Che non c’entrano con le tue scelte. Che si aspettano il meglio da te. Che ti adorano come si adora una stella del cinema. Ché stanno tra il sogno e il futuro, e poche incertezze su di te. Aspetta un attimo, non distruggere il mondo che ti sei costruito intorno alla tua formidabile sensibilità; che ora si ribella e usa, maldestramente, colpi di fogna come una carogna. Nessuno si mette paura, pensaci caro mio, e pensa alle brutte persone che ti verranno a trovare nel sonno se non la smetti di frequentarle coi tuoi pensieri quotidiani: i tuoi pensieri vogliono tornare alla tenerezza dei tuoi pomeriggi.

Ti voglio bene, aspetta un attimo.

venerdì 1 giugno 2012

ci siamo


Oggi voglio essere come questo pulcinella. Ieri volevo incarnare tutto l’articolo quattro. Domani un bacio al giorno.

Seni, mani, labbra, orecchie e capelli: una fisarmonica che sbaglia sempre il tempo. Volevo di più, e ho te. Un po’ ermetico lo sono diventato, forse a furia di sussurrare il presente. Basta, usciamo fuori dal tempo e godiamoci questa notte senza angosce.

Ti sei innamorato di nuovo delle tue gambe, e dei tuoi capelli impazziti al vento. Del ricordo.

Pensati bene, e guarisci la rabbia delle mille battaglie perse.

Finiscila!

Considerare il mondo un pasticcio necessario alle nostre forze, alle nostre passioni, ai nostri amori. Poi intorno cenere di chissà quale disastro che cade sulle nostre teste, leggere di desideri mai del tutto appagati. Ci siamo, ogni scossa verso la bellezza ci fa vedere attimi di assoluta felicità, in riva al fiume, accanto a una donna sdraiata sul suo piacere.
Occorre manutenzione.