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sabato 31 dicembre 2016

nel 2017 accetto tutto anch'io, o quasi tutto.

    In quest’ultimo anno è come se mi fossi ritirato dagli amici, e da certe cose che chiamerei tradizionali, almeno per me. Per esempio, avevo una discreta passione per gli Offlaga disco pax di Max Collini - l’ho pure intervistato qui - così come per altri personaggi che hanno nutrito i miei intensi anni ‘90. Sì, è vero che nel frattempo in casa sono comparsi due figli, i debiti e le disillusioni ma non è questo il punto: è che io mi stufo. E sono anche pigro, mi sorprendo di non sentire la necessità di dovermi guardare “assolutamente” tutte le serie tivù per sentirmi vivo. No, sarò fatto male, ma io devo appassionarmi, incuriosirmi, fissare le persone al ristorante o in metro e soprattutto devo amare i miei eroi! ma, come direbbe Natalia Aspesi nella sua rubrica, come fai ad amare una folla di eroi? Nel frattempo mi sono messo anche a leggere cose che non avevo letto a tempo debito: Le streghe, Canto di Natale, Il diario di Anna Frank e Anna Karenina, che comincio domani. Insomma, capitemi, ho anche lavorato sodo su più fronti, e soprattutto ho lavorato per non scappare da “quel lavoro”: una fatica enorme resistere al cospetto di un’ingiustizia perenne che si dissolve in sarcasmo risolutore, cos’ al contempo riuscire ad azzerare una mia memorabile statistica di dieci lavori in dodici anni! Be’ sono cambiato, mi sono calmato, eppure continuo a sputare fuori dal petto delicate confessioni esistenziali sotto forma di raccontini, che non suscitano poi tanta impressione a giudicare dal silenzio: ah caspita, lo sai che sei cambiato tanto nel raccontare le tue paure? Questa frase mi basterebbe per campare un altro decennio così inquietamente “calmo”.
Ettore mi ha donato, in seguito a una mia richiesta sonnolenta durante il pranzo di Natale, due ciddì: uno dei Sorge e l’altro dei Spartiti. Nomi astrusi che celano due personaggi che ho amato tanto: Mimì Clementi e Max Collini. Sono lontani dal mio presente di bimbi e scelta di materassi Memory da Mondo convenienza, ma a me piacciono da paura le storie che mi raccontano questi due: c’è quello che siamo stati in quel disgregato e sorprendente mondo vissuto come bimbi frementi dopo la caduta del muro. Tutti spersi abbiamo scelto i cantucci più scomodi per fiutare ancora più libertà di prima, tradendo ideologie mai capite fino in fondo e spiazzando i nostri sentimenti ancorati in testa, che stavano repressi e lì lì per germogliare: ti prego l’anno prossimo non avere opache opinioni, ma mille brillanti dubbi prima di finire un discorso, o una giornata al mare.


    Non voglio morire, invece voglio stare calmo calmo per intere giornate piovose o serene e provare a fare il padre senza incazzarmi troppo nel primo pomeriggio, e il marito che sa scegliersi l’angolo migliore del divano per osservare bene l’amore la sera. E poi bere vino e chiacchierare con le amiche che confessano di stare bene lì a chiacchierare con te in un giovedì qualunque. E gli amici, quelli che vedi dopo mesi e pare invece che siano appena tornati dieci minuti fa dalla pasticceria per portarti i bignè alla crema.

    Chiedo scusa a quelli di cui mi sono stufato quest’anno, sappiate che dieci minuti a volte passano in fretta e ti portano inaspettati bignè.


domenica 11 dicembre 2016

Tappi di vita (2°episodio)

   Avevo convinto i miei compagnetti a giocare coi tappi lungo il marciapiede dietro la curva di casa mia. Accanto avevamo le auto parcheggiate di sbieco, in discesa, e noi stavamo sdraiati e schiacciati in quel metro scarso a gareggiare ognuno col suo tappo più veloce. Mi ero inventato questo gioco, reclutando amici con cui condividerlo: uno era altissimo, un altro enorme e grasso, un altro ancora bassissimo e tutto peloso. E c’era pure uno viziatissimo dai genitori, figlio unico, e antipaticissimo ma con una casa piena piena di giocattoli. Avevo scelto un gruppo strampalato per la mia vocazione alla santità, anche se, per onestà, ero soprattutto un bambino curiosissimo e con la brama di avere più giocattoli a disposizione. In quegli anni in famiglia ricordo un clima sereno seppur appeso a un filo malato: ero incollato a loro eppure sempre in giro a esplorare il quartiere. Ma di giocattoli ne avevo davvero pochi. Coi tappi inventavo un mondo tutto mio insieme a compagni che gli altri gruppi respingevano, deridevano: a me invece piacevano da matti. In ognuno cercavo la deformità che mi mancava ancora. In psicologia pare si chiami empatia, per me in quegli anni era il meglio che riuscivo ad avere, ad amare. Le gare coi tappi iniziavano dopo la tazza di latte del risveglio e terminavano poco prima delle sarde arrostite del pranzo: dentro questo segmento di tempo c’erano silenzi di “pestecchie” che fiondavano i tappi in fondo al marciapiede di porfido. Quando cadevano dal marciapiede bisognava ripartire dall’inizio: un gioco interminabile, che mi serviva a trattenere la tensione di quell’amore. Sentivo quel tempo come il migliore a disposizione, sentivo che mi era toccato di giocare coi tappi come se giocassi a vivere come gli altri.

   Me ne tornavo a casa con la scatola piena di tappi con quel lontano profumo di birra e di uomini prepotenti che l’avevano bevuta, gli stessi che molestavano le marines americane nei night club la notte. Io all’epoca non lo sapevo, sentivo solo quella puzza di violenza e d’orgoglio, e me ne scappavo di corsa a casa, dove mangiavo e ascoltavo, prima di accovacciarmi sorridente nel letto fresco zeppo di sogni.


venerdì 2 dicembre 2016

io e mio figlio



     Ieri mentre stavo in macchina passando dal Mandrione pensavo a mio figlio che intanto stava in fila per il firma copie di Salmo, nel negozio Discoteca laziale. Io lì ci andavo a sentire dischi, ogni tanto a comprarli, poiché accanto c’era La casa dei diritti sociali che bazzicavo come tirocinante. L’Esquilino accoglieva tutti i nostri beati turbamenti di inizi anni 90. Sì, pensavo a mio figlio e ai suoi turbamenti: papà ma te pare che si vuole fare una foto con me. E nei suoi occhi vedo quella vergogna che sempre i figli hanno per i genitori: non sono più piccolo, dico parolacce, canto cose toste e rifletto sul perché mi tocca vivere nell’era dei grillini e dei salvini e tu a dirmi solo ‘ste cose sceme. Già, e dopo mentre passo davanti alla Caritas a Ponte Casilino ricordo di quando facevo il tirocinio in quel centro di prima accoglienza minori. Il primo giorno mi diedero le chiavi di una 127 rossa e ci misero dentro due ragazzine rom che si erano graffiate le vene dei polsi: ti prego portale al primo pronto soccorso. Mi ritrovai all’ospedale Pertini per miracolo: per strada ‘ste due mattarelle maledicevano tutti gli automobilisti che incrociavamo, ed io a scusarmi con una specie di lingua dei segni da tangenziale est. Ieri invece ero orgoglioso di andare a prendere mio figlio, di riportarlo a casa dopo che aveva preso 6 a diritto - sto a gode, mi aveva messaggiato – e poi alle 14.40 era partito da solo dall’incrocio di San Basilio per raggiungere Termini. Come facevo un tempo anch’io: prendevo un treno e cambiavo aria, cercavo una scena di vita più spensierata. Una volta che arrivo in via Turati di colpo mi ricordo quando, quindicenne anch’io, in quella stessa via mi ritrovai davanti a una casa dove affittavano una stanza e mi spaventai come un pettirosso quando sull’uscio comparve un marchettaro in mutande. Mi ero iscritto al CineTv, e tutti giorni fare 130 km era una follia almeno quanto quella di riuscire nell’impresa di continuare lì gli studi, in quel tempo matto per me. Mi ritirai a dicembre, così cominciai la mia fase mezza punk solitaria, poco prima di andare via per sempre. Ieri una volta arrivato in negozio ho visto mio figlio che spulciava ciddì da prendere e mi sono emozionato. Nello scaffale poco più in là tutto l’indie-rock anni 90 era in svendita.


   Durante il viaggio verso casa alla radio c’era Gipi che parlava del suo ultimo libro, La terra dei figli. Mio figlio fremeva per sentire il ciddì nuovo, ma intanto stava eccitato su Instagram a dispensare mi piace sull’evento appena vissuto. Gipi diceva cose interessanti, oneste come al solito. A un certo punto mentre origliavo – scrittori non esagerate con lo spoileraggio, ché m’innervosisco – capto che parla del personaggio padre del libro, che aveva rinunciato a far conoscere alcune parole ai figli per proteggerli, salvarli e proiettarli verso un futuro migliore. Ecco, io a quel punto mi sentivo scemo ad ascoltare Gipi mentre mio figlio scalpitava col ciddì tra le gambe. Di scatto stavo per infilarlo nel lettore ma, d’un tratto, una luce bianca: basta questo bla bla bla sul fatto che siamo genitori adolescenti inquieti, basta, io non lo sono del tutto, altrimenti non avrei continuato a sgobbare in un posto dove guadagno appena 1100 euro al mese. No, io sono un genitore che vive nel 2016, con una tarda giovinezza spensierata di tormenti e speranze alle spalle, quindi ora, a 46 anni, tecnicamente sono ancora un non vecchio. Mio padre a 46 anni aveva vent’anni di fabbrica sulle spalle e nessun libro letto sulla coscienza, ma gli volevo bene lo stesso e da lui pretendevo che mi portasse a vedere le partite, non di certo a sentire Vasco Rossi. Oggi siamo in un altro mondo, oggi così come nel libro Eccomi di Safran Foer siamo tutti più vulnerabili, tutti più appesi al presente, ma volendo potremmo essere spensierati ancora, volendo io potrei mollare zavorre e zizzanie e frequentare il mondo che vorrei. Volendo potrei godermi i figli che vivono come figli, e fare al meglio il padre che vive.