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sabato 28 luglio 2018

vorrei pensare alla felicità anche se so qual è la verità

   

     Tutti i giorni mi sveglio con due illusioni sul comodino, mi aspettano come due gatte guardinghe, belle. La domenica faccio finta di non vederle, scendo giù, preparo il caffè, controllo le notifiche, e mi bevo l’intera caffettiera. Aspetto che si alzi J., poi E., poi comincia la tensione per l’ultimo risveglio. Come starà oggi? Allora annaffio le piante, leggo qualche pagina di libro rimasto a metà, sfoglio quotidiani e supplementi impilati accanto allo stereo, che intanto fa uscire canzoni selezionate dal mio youtube: Nick Cave, Brunori, Lucio Dalla, Rancore...
Poi si alza il sole, dentro fa meno caldo, ma l’aria è malaticcia come quel sole nero che staziona sopra il parcheggio semideserto. Vado giù, parlo usando parole il più possibile leggere, selezionate dalla parte migliore del mio cervello. Faccio in modo che sfiorino la sua mente: che vedo agitata e scura già a quest’ora del mattino. Faccio il possibile, mi ripeto tutto il giorno, faccio il possibile per creare un clima di equilibrio e speranza in questa casa. Sfido le tare famigliari, gli stipendi magri, gli umori dell’Italia in questi mesi, il caldo che soffoca ogni vostro desiderio.
Così mi ritrovo a essere fortissimo, a organizzare campeggiate dei ragazzi all’Ecofest, una vacanza in Sicilia, l’uscita in piscina di oggi. Poi uno sguardo torvo, due messaggi pessimistici, disperati nel tono, e la tempesta, quella di cui scriveva la Ginzburg per tentare di tranquillizzare i genitori di adolescenti; subito dopo che è passata, sento di essere asciutto di ogni energia. Sento pure l'irrequietezza salire dalle cosce, e allora faccio le scale due alla volta e vado dalle illusioni: non ci sono più, stanche anche loro degli scarsi risultati ottenuti si sono lanciate dalla finestra.  Sì, forse è inutile stare mesi e mesi aggrappati all’idea di cambiare i pensieri degli altri. Se non sei un professionista, dicevano gli Afterhours, non puoi giocare col dolore delle persone. Ma io sono il padre! Ho digerito delusioni, rifiuti, eppure non mi sono disperato e nemmeno intristito. Quel fuoco che spinge a voler salvare qualcuno, in dei giorni semplicemente te stesso, e che riesce a spegnere ogni fallimento o tormento e ti lascia uno spazio enorme da colmare attraverso vuoti e vuoti di sofferenza luminosa. Una lotta da matti contro la propria storia. Questa è la strisciante brutta verità. Questo sangue malato degli antenati da contagiare con sangue fresco di queste giornate strambe, mai viste così nitidamente prima d’ora.
  Mi stendo sul divano, stavolta c’è musica di radio sonica che riempie il soggiorno, sullo sfondo Rainews24 con volume silenziato, e in alto il ventilatore che imperterrito tenta di raffreddare tutto. Ho voglia di dormire. Di pensare corpi e luoghi accoglienti, ma non crollo, infatti mi rialzo e chiamo il figlio per il pranzo. Un panino e la pizza, era per il pranzo in piscina ma ci ritroviamo su questa solita tavola ikea per la sua rinuncia, che sposa la mia paura di lasciarlo da solo. Sono carico, così inizio a parlare con voce tremolante, tendente al duro, ma un duro che somiglia a una debolezza trascinata dai lontani anni disastrati della mia adolescenza, mai dimenticati. Da dimenticare con determinazione, oggi. Per rinascere col muso duro, spietato: così mi metto a scacciare la vecchia faccia implorante di mia madre, i remoti farfugliamenti in dialetto di mio padre, i soliti sussurri di mia sorella e gli eterni silenzi di mio fratello. Andatevene, vi prego, ché oggi ho da fare una cosa importante: bruciare ogni mia lagna residua.

  Sono allo stremo della pazienza, sento il peso della lentezza dei cambiamenti. Il mio ritmo, la mia presunta ciclotomia ne soffre, ma insisto, così gli faccio un discorso che sa di don Milani, e sa pure della mia storia scorticata come muri impregnati da quei silenzi che vivevo a casa dei miei.
Urla Giuseppe, fatti sentire. Sussurra la vocina stronza rimasta nel cofano della mia mente in questi anni strani di troppo amore, di puzza di cose fatte a metà, del suo inutile orgoglio di oggi che non serve proprio a niente. Quella vocina cattiva che sa farmi vedere le cose buone da fare.
 Così scrivo per scacciare la morte sotto il tappeto, e quella sua puzza d’agguato che scolorisce i nostri giorni brevi. Sognavo amici illuminati, poeti di fatto, sensibili e operosi quanto un carico di api che sciamano per la Regina. Ah, tempesta che aspetta un segnale, uno sguardo che sciolga ogni dubbio, ogni colpa residua di un tempo che sfuma e abbaia gloria mai avuta. Notte che s’ingolfa di ricordi sbiaditi e lontanissimi come pianti di bambini davanti a gonne a fiori sopra le ginocchia con quel loro vischioso sapore misterioso di naftalina.
Ora dormo, mi fermo, e aspetto quella pagina bianca, candida, così piena di peccati mai praticati nemmeno nel pomeriggio.  
 
  In un pomeriggio afoso pieno di promesse arriva il crollo. Lui accovacciato contro il muro, io che gli rimango accanto, al piano di sotto E. e J. preoccupati. Tutti e quattro soli di spavento. Un filo di nylon ci lega e strangola, e a soffocare oggi sono io. Scappiamo al pronto soccorso, in auto penso a quanto debba essere brutto l’ultimo viaggio di uno che ha due figli che lo aspettano a casa per cena. Invece rieccomi sul tavolo ikea a scrivere di un risveglio splendente, fatto di discorsi progressisti, umani, contro i salviniani che ci circondano: ci avessero ascoltati dall’alto, un premio Pulitzer all’intera famiglia ce l’avrebbero dato eccome. Stamattina dal pescivendolo ho affrontato un novax con stile, dicendogliene quattro, ma ragionevolmente: sono migliorato, non urlo più e tiro fuori meglio le mie opinioni, i miei sentimenti. Ieri al pronto soccorso stavo tra un nigeriano preso a bottigliate nella jungla di San Basilio e un tipo caduto dallo scooter. Il nigeriano aveva ferite mostruose, una faccia sofferente, e un tono di voce dolcissimo mentre mi raccontava le sue peripezie. Nell’attesa il tipo dello scooter faceva casino, reclamava l’antidolorifico e cure come un mammone, mentre il ragazzo nigeriano dormiva coperto da un lenzuolo di pensieri e cure istituzionali. Io che avevo avuto un malore da stress emotivo, con dolori al torace, aspettavo le analisi e radiografie che mi dichiarassero salvo. In mezzo a loro mi sentivo forte e fortunato, e con ancora anni e anni per svolgere al meglio il ruolo di padre, di uomo mite con un fuoco nel torace che cerca pace.
Mi sentivo a disagio in mezzo a quello stanzone di infarti, morti imminenti, punture d’insetto, eppure mi sentivo accudito, rispettato da persone un po’ nevrotiche ma così umane di competenza e pazienza.
Al rientro avevo dieci gocce di Tranquillirt in circolo che mi facevano scandire meglio le mie bellissime parole sensate: avevo la voglia di fare discorsi importanti, scanzonati e belli da far ascoltare agli altri. Spero che mia moglie e R. ne abbiano goduto ieri sera durante il rientro in auto. Ah, io voglio vivere così: parlare, scrivere, vivere e poi schiattare felice all’improvviso, se è possibile in un giorno di pioggia fitta fitta.
Poi arriva un altro mattino pieno di caldo e ti vediamo uscire con la camicia verso il tuo primo impegno di lavoro. Neanche ci emozioniamo tanto è lo stupore di vederti uscire velocemente dal cancelletto mentre il gatto coi suoi occhi arancioni segue i tuoi passi che somigliano sempre meno ai miei.
Poi arriva oggi, in cui con fare riflessivo riconosci che quel “lavoretto”, di vendite di macchine del caffè e materassi spaziali, era un bluff e, come scrivi in un messaggio a tua madre: sfruttano i ragazzini per non farsi dire di no agli appuntamenti, e io non voglio realizzarmi nella vita con queste cose. In questi giorni l’ho lasciato vivere questa esperienza senza intromettermi: il suo talento, e il suo tormento, lo hanno fatto desistere e ridere di queste persone che stressano altre persone per vendergli cose di cui non hanno bisogno.
Di cosa hai bisogno tu, figlio, ragazzo che mi dichiari una resa con queste parole “vorrei pensare alla felicità anche se so qual è la verità”.



ps
ti ho lasciato insieme ai tuoi amici al capolinea di Saxa Rubra, state andando a campeggiare a Caprarola dove stasera ci sarà il vostro Rancore, a me resta un amaro buonumore.
Buon viaggio!


lunedì 2 luglio 2018

Il ritorno

 Stanotte parlavi chiuso nel bagno con un tono sussurrante, implorante, amaro di incomprensioni subite, di sbandamenti non accolti; forse parlavi con uno dei tuoi amici che non frequenti più. Forse ti hanno chiamato per darti gli auguri. Un po’ me lo auguro, anche se ero intontito dal sonno e a tratti, per il sacro rispetto della privacy, mi tappavo le orecchie. Diresti, lo scrivi sul blog e ora fai la morale? Aspetta, scrivo soprattutto di me, anche rischiando di coprire la sua storia. In realtà il nostro rapporto ha tante di quelle variabili adolescenziali, di mie preoccupazioni trattenute, oppure slanci che potrebbero finire in qualche poesia postuma di Carver. Se ti va fai che questo racconto diventi una scorticata pittura rupestre da contemplare mentre fuori imperversano battaglie e amori.
Una persona che ha letto la scorso episodio sul blog, mi fa: ma i tuoi figli non s’infuriano per le cose che scrivi? No, ché non lo sanno e io non so fino in fondo perché mi ostini a questo lacrimoso esercizio esibizionista. Appena finite di leggere questo post chiamatemi che ci facciamo risate su risate sulle situazioni comiche che sto vivendo davanti a persone con facce strambe, un po’ alla Battiato e un po’ alla Pippo Baudo, e nel mezzo le mie chiacchiere con signore dalle collane lussuriose e buste della Crai portate alla maniera di quelle di Fendi.

 Stiamo in una città che ha fatto del suo meglio per diventare brutta, e quella colonna sconsolata e dorica mi ha schiantato i polmoni: era lì a trenta gradi, sparuta tra erbacce e palme, e si lasciava bullizzare dalle svettanti ciminiere Eni.
Eppure tu valorizzi l’umanità di questa città: buona 'sta pizza, qui so’ curiosi, me pare quel quartiere di Roma, o Formia. Io ci vivrei, dici al culmine della tua contentezza di aver frequentato per qualche giorno una persona con cui parli, ridi, come non facevi da mesi.

Ti hanno appena chiamato dall’istituto paritario, ti hanno fatto delle domande e convocato per un colloquio. Mentre ascoltavo le tue risposte educate scrivevo dallo smartphone mentre la persona importante di prima ti fissava gli occhi mentre rispondevi sereno alla segretaria della scuola.

 Potrei andare a fare un bagno, il cortisone è smaltito ormai, oppure mettermi in mezzo ai vecchi in piazza a leggere il giornale e intanto origliare, come ho fatto ieri, parole che danzano ora dolcissime ora spietate tra quelle facce rugose e oscene: favolose. Poi ho scelto i vecchi, anche se il barista, quando ha capito che venivo da Roma mi fa: ah sorcino!
 In questo vicolo fresco di cornetto alla crema e canzoni in cuffia mi dedico alla migliore cosa che so fare, e in questo periodo della mia storia non è di certo montare una zanzariera o mettere zizzania in terrazza.



  Stai irrigando su questa terra grigia malata delle tre un’intera stagione d’amore per te.
Io ti stringo, ti scrivo e lascio scorrere questa desertica piana fertile che fu. Ora vacche sperse e ruderi di sole facciate di pietra, poi trivella, tubi, sporco di progresso egoista. Mattei volteggia con la sua aspirazione bambina petrolio, noi seduti uno accanto all’altro cullati da musiche che non sanno più di plastica.
Eccoci visti dall'alto di una superstrada, con la tua morbida testa sopra la mia spalla umida che ti sostiene e fa appoggiare sentimenti nuovi per i tuoi occhi.
Elefante di Catania, ti prego, asciuga questo pomeriggio.

Continua...