“Ciao, io vado”. Sì, vado, anche se
non ho voglia. Oggi proprio no. Fa proprio freddo. E che vento freddo. Mamma
mia oggi non c’è nessuno qua. Solo io dentro sto vicolo. Mo’ viene a piovere. E
sì. Che vento, fa proprio freddo di vento. Peppe il falegname sta pure chiuso,
e ci credo. E gli altri bambini dove stanno? Ma che solo io vado a scuola? Che
mare che c’è stamattina, è verde. Scuro. Le paranze non sono uscite. Nessuno
esce oggi. ‘Sti alberi sventolano proprio. E che polvere. Mamma mia. Non riesco
a respirare. Neanche cammino. Ma perché mamma mi ha mandato a scuola oggi? ma
che ci vado solo io? Maurizio non si vede. Alla fermata del pulmino non c’è
nessuno, solo la panchina vuota in mezzo ai pini spilungoni. Me ne torno a
casa. ‘Sto vento non mi fa respirare. Mo’ glielo dico a mamma. Sì, non ce la
faccio nemmeno a camminare. Sì, torno a casa. Tanto non ci va nessuno oggi a
scuola. E che solo io? Mi viene pure da vomitare. No, sto proprio male. Già mi
sento meglio ora che vado controvento. Vuol dire che oggi faccio così.
(“Mamma non riesco a respirare, c’è
troppo vento giù a mare”.)
(“Vabbè, statti qua oggi”.)
(“Mi posso mangiare una fiesta?”.)
(“ Tiè, mangia mangia, che domani ti compro
le altre”.)
Mamma mia è proprio bella, buona e mi
fa mangiare le fieste. Qui poi non c’è vento, fa caldo e nessuno che mi
scoccia. Mi sto qua e sto pure con lei. Non voglio uscire più, fino a quando
non se ne va sto vento freddo e brutto. Sì, sto qui vicino a lei.
“Ma con chi stai a parlà? perché non
sei andato a scuola? Allora, rispondi?”.
“ E…no…volevo dirtelo, ma non c’eri.
Niente, parlavo così…ma…non voglio andare a scuola. C’è troppo vento!”.
“ Ma stiamo scherzando? avanti,
rimettiti le scarpe che ti accompagno io a scuola”.
___________________________
Ora questo bambino non c’è più.
Neppure la sua mamma, quella vera. C’era fino all’altro ieri l’uomo che aveva
preso il suo posto, crescendo. Nel frattempo. Tutti i giorni scendeva dalla
collina di Fiesole per andare a insegnare lettere alla scuola media di S.
Frediano. Qualche volta si ferma con lo scooter poco prima del chiosco del
fioraio, dopo la curva a gomito, e si sistema i capelli scompigliati dal vento.
Delle volte non riesce a respirare: allora si ferma di colpo e torna indietro;
altre, dopo pensieri lunghi e avvitati provenienti dalla notte, si poggia al
primo muro utile e prova a liberarsi con dei conati. Ma non ce la fa. No. Non
riesce e allora si rimette in sella e scende stremato ma lucido verso la città.
Ché a lui piace ancora nonostante i dieci anni di precariato randagio. Lo salva
avere tanti amici e un bel giro di persone una diversa dall’altra.
Ieri è morto.
Per questo scrivo di lui, e pure di
quell’altro, quando era bambino e si spaventava del vento del mattino.
Tra i due ci sono io, che proprio
mentre il bambino da ragazzo diventava uomo, li ha conosciuti. O meglio: ho
conosciuto il giovane uomo durante gli anni dell’università. Negli anni novanta
a Firenze, dentro un giro di persone stravaganti e solitarie, che cercavano
dalla mattina alla sera maniere e modi per allontanarsi dal mondo dei genitori.
Dal paese. Dalle donne che li avevano abbandonati in stazioni arrugginite.
C’eravamo persi di vista negli ultimi
tempi, lui aveva un giro di amici depressi e logorroici io, che in fondo sono
un solitario, stavo quasi sempre con le mie fidanzate. Una più bionda delle
altre.
Poi un pomeriggio.
Stava già ricoverato a Careggi, l’ospedale.
Mi chiama: voglio farti vederti e dirti alcune cose. Così l’indomani mi
presento. Parliamo per tre ore di fila con solo una pausa caffè-bagno-sigaretta.
Poi di nuovo a dirci tutto. Soprattutto lui. Una volta fuori mi ritrovo con un torrente
di parole che rigirano senza sosta nella mia testa. Storie e fatti che gli
erano capitati. In più avevo con me un centinaio di file dentro una pennetta
che mi aveva donato. Gianni aveva sempre avuto questa tentazione di raccontarmi
tutto della sua infanzia, della sua famiglia. A me un po’ spaventava, così
prendevo solo quello che bastava per non sprofondare nel suo mondo. A me piace
la leggerezza dei pomeriggi lunghi e assolati. A lui la notte con i suoi
intrugli malinconici. Beh, non sempre è così.
Ora continuo a raccontare di lui che
se ne va in moto, che se ne va ai concerti e che ama poche donne. Ma come le
ama lui, davvero, resta un bel mistero.
I misteri mi piacciono, soprattutto
quelli umani così lievi e con sviluppi attendibili.
Clara, una ragazza di Cremona, con
uno sguardo profondo e con degli occhi indecifrabili. Almeno in questa foto che sta
subito sotto una poesia di un file che a caso ho aperto ora.
E inutile raccontare su più registri.
Ci riescono in pochi. Adesso comincio a raccontare con tutta la tradizione
moderna che mi porto appresso.
Clara stava distesa sul divano. Gianni
di spalle guardava i gerani che incerti parevano sbocciare da un momento all’altro.
Lo guarda di spalle e pensa a quanta energia aveva impiegato da poco per lei. Nel
dirle con violenza che il suo gesto non aveva più senso. Lui stava già fuori
dalla storia e dal balcone. Sopra uno scooter rosso scassato alla ricerca di
una farmacia aperta. Aveva terminato le sue pillole. La priorità erano le sue
pillole. La faccia di Clara sbiadiva davanti al suo comodino. Il sonno, ci
voleva il sonno per sconfiggere i mostri del giorno. Clara stava intanto ancora
sdraiata sul divano. Un libro alla sua destra. Una confezione di bucaneve con
tutte le sue antipatiche briciole sul petto. Sempre affettuose queste briciole
che scendono come pioggerellina sul corpo. Questo pensava Clara mentre
ripassava nella mente l’intero discorso delirante di Gianni. Era già la quarta
volta che lo faceva, ogni volta ci trovava una piccola verità svelata che
traboccava innocente da quella bocca carnosa che aveva baciato migliaia di
volte. Oggi no, neppure aveva sfiorato quell’uomo così tanto desiderato in quei
mesi. Una festa era il suo comparire alla porta con dei fiori poveri. Li raccoglieva
lungo i bordi delle aiuole brulle di Rifredi. Il pomeriggio passeggiava almeno
un’ora, prima di dedicarsi a quella ragazza con quell’accento che un tempo l’avrebbe
fatto sorridere. Oggi il solo ricordo, seppur sbiadito, lo fa morire di
terrore. Ma cosa ha fatto?