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mercoledì 30 novembre 2011

NANNI MORETTI - SPLENDIDO QUARANTENNE (da Caro Diario)


Non vedevo l'ora di arrivare ad essere un quarantenne per
poter godere nel rivedere questa scena. Del resto,
in fondo, m'importa 'na sega; così, tanto per galleggiare nelle
consolanti citazioni che aiutano un po' ad attenuare la cara
e inevitabile irrequietezza di stagione.

diserta


Quella tovaglia era sporca. Avrebbe dovuta cambiarla ché arrivava suo figlio, quel lunedì noto; ma a lei interessava solo vedere tutta la luce del giorno entrare dalla finestra. Poi aspettare per sentire beata quelle quattro parole cadere nelle sue orecchie. Per poi dimenticarle piano piano nei pomeriggi a venire, facendosi aiutare dalle canzoni tristi alla radio. Non aveva voglia di cambiarla, dicevo, e forse faceva bene: tanto la forma è stata già sputtanata negli anni scorsi. Quando da ragazza spelacchiava le bocche dei ragazzi che amava per un giorno. Salutava tutti alla sera, prima che i comignoli cominciassero a sbuffare pigri, e facendolo li stringeva forte a sé, al suo seno, che dirompeva nell’altro come onda anomala da cui guardarsi bene. Poi l’indomani, con grazia di quegli anni, spiegava che l’amore era scappato via la notte, insieme a tutti i pensieri brutti. Così amava tutti, e non prendeva nessuno fisso accanto a sé. Non era una puttana, no, avete capito male forse. Era una ragazza che la notte subiva agguati nella mente e che il suo corpo osservava muto. Oggi, a ripensarci, forse, non sarebbe stata la stessa donna se avesse dormito sonni sereni. Qualcuno deve dirlo al figlio: quella luce di taglio seicentesca rende la tovaglia umanissima, per niente sporca. Magari è la storia che si è sporcata in maniera indelebile. In quelle notti. In quella mente fragile e visionaria.
Vabbè, m’intrometto saltando il registro, il canone atteso e la buona creanza e dico: salvati ragazzo dalla forma e scava nella caverna dei tuoi sentimenti. Le ombre appena fuori dalla stessa sono solo una forma classica di pensiero. Oggi, il contemporaneo, l’attualità, preme verso pensieri inediti lontani da ogni cosa già vista.
Fa capriole sui corpi e sulle facce del tuo tempo e lascia stare per sempre le paludi dove sono sepolte le tue speranze bambine. Sputa il rancore in faccia a chi se lo merita e sorridi come uno scemo ad ogni quarto di luna; ché poi quando è tutta piena daremo una festa per gli amici.

martedì 29 novembre 2011

solo lui.


Si era accorto di somigliare alla madre molto più di quanto potesse suggerirgli un qualsiasi dio del caso; uno squarcio profondo tra gli occhi e la gola. Da lì tutto passa e ripulisce o, nei peggiori dei casi, inquina, il brodo vitale che serpeggia nella testa. Già, è proprio lì che c’è la somiglianza svelata.
Quelle parole che pronuncia con sforzo intellettuale, scalciando deliri incombenti, appaiano flebili davanti alla storia. Agli altri. Questo vale solo per alcune volte. Oggi no, perché oggi ha detto quello che, come scheggia irrefrenabile, sta attraversando l’intero suo corpo in questo periodo. Culo compreso, quindi, quello che ha dichiarato, è tutto autentico. Magari alcune cose troppo personali e quindi un po’ enigmatiche, ma che fa, e l’altro che ci sta a fare se non per ascoltare?
Sullo sfondo una città gigante di persone indaffarate. Priorità decantate. Urgenze manifeste. Lui seduto su quella sedia di plastica e ferro a dire cosa è successo. A lui. Certo, solo a lui, in questi tre mesi d’isolamento. Chiuso. In una stanza piena di bimbi e vuota di aspettative. Una morte inutile.
Non ha letto un cazzo di David Foster Wallace, ma il suo cappio pieno di libri, con le innumerevoli traduzioni, invece, è carico d’aspettative.
Capisce,mi sussurra, l’imbestialimento di Dino Campana quando quei poetacci del caffè gli persero il manoscritto. Ché aveva percorso i trentacinque kilometri con lui, Marradi Firenze, con tutte le attese magiche del caso. Lui lo sapeva, solo lui; gli altri un po’ meno.
Ecco, oggi questo mi vuole raccontare.

venerdì 25 novembre 2011

lui ride


Ieri sera è stato a una festa di compleanno al Pigneto, in una casa. Si festeggiavano i trent’anni di una collega; gran parte degli invitati avevano su per giù quell’età. Si parlava e ascoltava musica degli anni ottanta: Cure, Cccp, Depeche mode. Poi si è messo a parlare con dei ragazzi informatissimi dei diaframma, dei litfiba e di quel periodo. Gli è scappato un: ma vogliamo uscire dagli anni ottanta. Nessuno ha sorriso, quasi nessuno ha capito. Il clima era disteso e aperto a chiacchiere varie, tornei di freccette, una coppia che pomiciava. Si è ricordato di quando anche lui organizzava questo genere di serate. E come gli piaceva. Dopo le candeline una vena di malinconia l’ha piegato un po’. Ma solo un po’, poiché, da lì a poco ha ricominciato a essere brillante come mai si sarebbe aspettato da lui dopo questo periodo depressivo. A lui piace la performance, far ridere, colpire al cuore e parlare al passato in tono leggero e allegro. Comico. Seduce e gioca. Mentre parlava dei concerti dei Cure visti, durante la risposta lunga e articolata ma, soprattutto tecnica, dell’interlocutore salentino, con la mente è fuggito verso il ricordo di quel lontano luglio dell’ottantotto. Era partito insieme a Lino per Padova, la mattina presto. Era il loro giorno libero dal bar, dove lavoravano entrambi. Aveva letto su di una rivista del concerto dei Cure allo stadio del rugby. Arrivati cominciano a chiedere del concerto. Sconcerto dei padovani, che non ne sapevano nulla. Allora cominciano a chiedere dello stadio del rugby, pensando, “’sti padovani che ne sanno di ‘sta musica”. See. Lo stadio del rugby era maestoso e per niente darkettone, come lo erano invece loro davanti a quel piazzale: nessuno dei due che accusava l’altro. Si volevano bene e mai hanno litigato. Senza sbattere i piedi e con fare da lord si fanno una passeggiata per le vie della città del santo. “Bella, no?” “E sì, è ben tenuta”. Poi via: di corsa sul treno. Ma non tornano subito al paese. Si fermano a Bologna. “Cazzo Bologna!”. Faceva un effetto sempre sacro pronunciare la parola Bologna in quegli anni. Da lì a poco, passando da piazza Maggiore, assistono a uno spettacolo di politica di quegli anni. Il comizio di Craxi contestato dagli autonomi. Loro , da lord che erano, annotano tutto sul taccuino dell’anima, e prestano la giusta attenzione all’evento. Poi un millefoglie squisito ha deciso la fine del reportage. Tutti a casa. Senza accusarsi mai. Senza noia. Due amici e un’unica pazienza.
Intanto il ragazzo salentino, simpaticamente nevrotico, aveva finito la sua disamina del periodo New wave. Lui invece si appoggia sulla poltrona e sprofonda lentamente. Ma ride, sulla faccia ha quel sorriso contagioso che piega gli altri alla sua gioia di esserci e partecipare a queste serate aperte dove ognuno decide di rappresentarsi come meglio crede. Tiè.

mercoledì 23 novembre 2011

ancora lui


Mi racconta che una notte di qualche anno fa aveva deciso di fare una passeggiata sulla spiaggia, era triste, come lo si è intorno ai vent’anni per un amore che lascia malconci in certe notti; aveva parcheggiato l’auto sulla strada e percorso tutta la spiaggia fino al mare. Si era seduto, accanto a un gozzo, e si era messo a osservare il vuoto nero e silenzioso come appare il mare di notte, d’inverno, quando il cielo è sereno. A  un tratto, continua a raccontare, vede un uomo o una donna, o qualcosa di simile nella forma che precipita nel dirupo a destra della spiaggia. Nessun rumore, nessun urlo. Solo uno spavento dentro di lui, e nessuna persona intorno a cui prestare lo spavento appena vissuto. Solo. Era solo su quell’enorme spiaggia nera. Scappa in macchina e accende il motore. Neppure un cellulare da usare. Nel novanta non c’erano.
L’indomani racconta l’accaduto agli amici senza esagerare sul finale; diceva che aveva sentito un tonfo e niente più. Oggi ricorda bene invece: era un uomo che precipitava senza pena. Oggi potrebbe essere la sua disillusione a farlo precipitare. Niente più. Dice che non sente nient’altro, che una voglia di uscire di scena. Poi aggiunge, dopo un sorso di vino rosso, che in fondo è meglio scuotere tutto dalla sua testa nevrotica e mettersi a correre verso la morte. Per guardarla e evitarla, per schiacciarla bene al suo naturale decorso.
Infine mi ricorda che deve raggiungere sua moglie nel letto, che non vuole lasciarla sola neanche nel sonno; i figli, che appena lì vede si scatenano in lui entusiasmi vari, sono a testimoniare la sua caparbia volontà a grattare la vita dai limiti.
Ora sto un po’ con lui, gli leggo un racconto di C. e intanto gli verso pure un altro bicchiere di vino.
Le sorelle sono perse nelle loro case calde e vuote.
Tutti i blog, le poesie e le parole da tenere strette strette nella testa, sono sull’uscio del ricordo che si bagnano da una pioggia che profuma di sé. E del suo naso sanguinante, appena schiacciato contro un muro nero in fondo alla giornata.

domenica 20 novembre 2011

vuole riposare



Altro che avorio mi dice, era un tozzo nero. Il vestito come fantoccio stava ancora integro a coprire le ossa fredde e umide. Altro non vuole raccontarmi. Dice che il resto lo tiene con sé, e vuole portarselo dietro anche come monito quando, in maniera ridicola, maledice i giorni che gli hanno dato da vivere. Lasciamo stare, dice ancora. Hai visto che aria frizzante di novembre che punge la finestra sul giardino?
Ha rinunciato al “concerto dell’anno”, ha evitato di vivere una giornata piena in campagna, agli amici del fine settimana. Sente un peso leggero che si muove nella sua testa, che lo fa pendere all’improvviso verso una rabbia nera che nemmeno l’ira di dio; poi, certe volte, una gioia come pioggerellina che invade la sua andatura veloce e la rende dolce e affabile.
Questo mi ha detto stanotte tra un sogno e un risveglio violento; ora vuole riposare e pensare. Lasciatelo stare, tornerà presto.
Vuole invitarvi ad ascoltare questa canzone che ieri in macchina l’ha accompagnato, tra nebbie e ciminiere, verso quella visione che resterà dentro di sé per l’eterno presente. O forse no, meglio non sbilanciarsi troppo, conclude.

venerdì 18 novembre 2011

per te


Domani va al paese. Rivede per qualche minuto il padre. Sono dieci anni che non lo vede. L’ultima volta stava sdraiato all’ospedale, con un taglio di luce che non gli piaceva affatto. Intanto il figlio piccolo comincia a leggere, e mentre lo fa, sillabando su due piedi, la moglie riprende la forma di un tempo. Quello della serenità stretta alla gioia.
I capelli cadono giù nel gorgo degli scarichi e lasciano solo un ricordo di tempo scapigliato. Vedessi che faccia ha oggi, vedessi i suoi occhi sempre più scavati dai passi falsi dei giorni; ma che forza quelle braccia, e chi l’avrebbe mai detto.
Sale un passato che non vuole essere in bianco e nero e allora lotta con fare camaleontico contro lo sbiadire dell’affetto. Non c’è abitudine né scambio di sguardi. Non c’è, e si sente.
Un dirigibile attraversa il cielo del tirreno e vede un bambino col desiderio di vedere un dirigibile. Un sorriso increspa il mare e disegna il suo senso: beffardo canta il ritorno dei desideri. Questa era facile, come lo era ricoprire quel lenzuolo lindo senza calore in quella stanza blu.
Un parcheggio enorme e vuoto aspetta le carcasse. Una donna sola che ride appoggia il gomito per un attimo, e nel farlo sta quasi per cadere nel vuoto; un uomo ormai vecchio la prende per mano e la riporta giù al porto del marito. Deve ancora partire per le americhe, deve ancora aspettare suo padre. Lei, che bambina non è mai stata, ora vuole esserlo e facendolo scompagina ogni pronostico di sciagura.
Va, colora le strade col tuo fiato, e cerca un posto davanti a quei platani appena potati.  Poco più in là vede un bambino che corre con le figurine in mano.
Il bianco avorio dei tuoi resti è là che si veste di un’idea.
Prova a spiegarla.
Prova a vederla.

giovedì 17 novembre 2011

torbella


Si è messo a spendere con parsimonia i pochi soldi che guadagna. Il lunedì accantona una quota che deve bastargli tutta la settimana per la spesa alimentare. Poche altre cose da comprare, le ciambelle per i bimbi, il diesel e qualche caffè. Quotidiani esclusi. Stamattina mentre percorreva via di Torrenova, all’improvviso un panorama bellissimo: lo skylight di Torbellamonaca. Davvero, mi dice, quella foschia rendeva il paesaggio bellissimo. Come paese medievale moderno. Unico.  Non esiste un’altra Torbellamonaca. Davvero no. Mi racconta anche che si è fermato un attimo al lato della strada, poco prima di una fermata dell’autobus strapiena di facce e borse, e tutto il traffico pareva una sinfonia, e gli alberi e le mamme coi bambini una poesia; lui era lì che contemplava quello scorcio e ne provava un piacere sorprendente. Tutte le gambe bucate dai proiettili non c’erano più. Le donne coi mollettoni gialli tra i capelli che urlano già al primo minuto dopo il risveglio, non lo facevano più. Lo stradone alberato era pure colorato e piovevano coriandoli dai palazzi.
 Un innamorato si sveglia e si affaccia alla finestra, lo vede che sta guardando lui. Allora ha ragione, pensa. Una scintilla fa esplodere tutto il brutto che si veste di solito da male e lascia cadere morbida l’ultima parola vuota di retorica.
Vuole parlare un’altra lingua. Cominciare a studiare davvero. Esser serio davanti alla sua storia. Poi ridere come un buffone davanti ai suoi amori, alle sue piccole pietre preziose che ballano i valzer dentro i suoi occhi. Mangiare tutta la corteccia che c’è.

The Cure Charlotte Sometimes ( Subtitulado ) Video Original HD


ma quanto eravamo giovani mentre ascoltavamo muti 'sta canzone?
dentro quella macchina che accarezzava la pontina già aggressiva.
sognavo dentro 'sti suoni che scendevano nella mia testa come tempesta.
e i seni, le mani, gli occhi tutto tremava di luce incerta.
le madri le sorelle e i padri scomparivano, inghiottiti d'un colpo.
restavamo noi dentro ogni notte che ci aspettava.

oggi vorrei piangere come uno scemo
sbriciolare le crepe e abbracciarti. tu.io.
gli alberi si allungavano al nostro passaggio.

spingi il mio corpo rigido nel limbo
e prendi tutte le emozioni del mondo

mercoledì 16 novembre 2011

prove tecniche


“Ciao, io vado”. Sì, vado, anche se non ho voglia. Oggi proprio no. Fa proprio freddo. E che vento freddo. Mamma mia oggi non c’è nessuno qua. Solo io dentro sto vicolo. Mo’ viene a piovere. E sì. Che vento, fa proprio freddo di vento. Peppe il falegname sta pure chiuso, e ci credo. E gli altri bambini dove stanno? Ma che solo io vado a scuola? Che mare che c’è stamattina, è verde. Scuro. Le paranze non sono uscite. Nessuno esce oggi. ‘Sti alberi sventolano proprio. E che polvere. Mamma mia. Non riesco a respirare. Neanche cammino. Ma perché mamma mi ha mandato a scuola oggi? ma che ci vado solo io? Maurizio non si vede. Alla fermata del pulmino non c’è nessuno, solo la panchina vuota in mezzo ai pini spilungoni. Me ne torno a casa. ‘Sto vento non mi fa respirare. Mo’ glielo dico a mamma. Sì, non ce la faccio nemmeno a camminare. Sì, torno a casa. Tanto non ci va nessuno oggi a scuola. E che solo io? Mi viene pure da vomitare. No, sto proprio male. Già mi sento meglio ora che vado controvento. Vuol dire che oggi faccio così.
(“Mamma non riesco a respirare, c’è troppo vento giù a mare”.)
(“Vabbè, statti qua oggi”.)
(“Mi posso mangiare una fiesta?”.)
(“ Tiè, mangia mangia, che domani ti compro le altre”.)
Mamma mia è proprio bella, buona e mi fa mangiare le fieste. Qui poi non c’è vento, fa caldo e nessuno che mi scoccia. Mi sto qua e sto pure con lei. Non voglio uscire più, fino a quando non se ne va sto vento freddo e brutto. Sì, sto qui vicino a lei.
“Ma con chi stai a parlà? perché non sei andato a scuola? Allora, rispondi?”.
“ E…no…volevo dirtelo, ma non c’eri. Niente, parlavo così…ma…non voglio andare a scuola. C’è troppo vento!”.
“ Ma stiamo scherzando? avanti, rimettiti le scarpe che ti accompagno io a scuola”.

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Ora questo bambino non c’è più. Neppure la sua mamma, quella vera. C’era fino all’altro ieri l’uomo che aveva preso il suo posto, crescendo. Nel frattempo. Tutti i giorni scendeva dalla collina di Fiesole per andare a insegnare lettere alla scuola media di S. Frediano. Qualche volta si ferma con lo scooter poco prima del chiosco del fioraio, dopo la curva a gomito, e si sistema i capelli scompigliati dal vento. Delle volte non riesce a respirare: allora si ferma di colpo e torna indietro; altre, dopo pensieri lunghi e avvitati provenienti dalla notte, si poggia al primo muro utile e prova a liberarsi con dei conati. Ma non ce la fa. No. Non riesce e allora si rimette in sella e scende stremato ma lucido verso la città. Ché a lui piace ancora nonostante i dieci anni di precariato randagio. Lo salva avere tanti amici e un bel giro di persone una diversa dall’altra.
Ieri è morto.
Per questo scrivo di lui, e pure di quell’altro, quando era bambino e si spaventava del vento del mattino.
Tra i due ci sono io, che proprio mentre il bambino da ragazzo diventava uomo, li ha conosciuti. O meglio: ho conosciuto il giovane uomo durante gli anni dell’università. Negli anni novanta a Firenze, dentro un giro di persone stravaganti e solitarie, che cercavano dalla mattina alla sera maniere e modi per allontanarsi dal mondo dei genitori. Dal paese. Dalle donne che li avevano abbandonati in stazioni arrugginite.
C’eravamo persi di vista negli ultimi tempi, lui aveva un giro di amici depressi e logorroici io, che in fondo sono un solitario, stavo quasi sempre con le mie fidanzate. Una più bionda delle altre.
Poi un pomeriggio.
Stava già ricoverato a Careggi, l’ospedale. Mi chiama: voglio farti vederti e dirti alcune cose. Così l’indomani mi presento. Parliamo per tre ore di fila con solo una pausa caffè-bagno-sigaretta. Poi di nuovo a dirci tutto. Soprattutto lui. Una volta fuori mi ritrovo con un torrente di parole che rigirano senza sosta nella mia testa. Storie e fatti che gli erano capitati. In più avevo con me un centinaio di file dentro una pennetta che mi aveva donato. Gianni aveva sempre avuto questa tentazione di raccontarmi tutto della sua infanzia, della sua famiglia. A me un po’ spaventava, così prendevo solo quello che bastava per non sprofondare nel suo mondo. A me piace la leggerezza dei pomeriggi lunghi e assolati. A lui la notte con i suoi intrugli malinconici. Beh, non sempre è così.
Ora continuo a raccontare di lui che se ne va in moto, che se ne va ai concerti e che ama poche donne. Ma come le ama lui, davvero, resta un bel mistero.
I misteri mi piacciono, soprattutto quelli umani così lievi e con sviluppi attendibili.
Clara, una ragazza di Cremona, con uno sguardo profondo e con degli occhi  indecifrabili. Almeno in questa foto che sta subito sotto una poesia di un file che a caso ho aperto ora.
E inutile raccontare su più registri. Ci riescono in pochi. Adesso comincio a raccontare con tutta la tradizione moderna che mi porto appresso.

Clara stava distesa sul divano. Gianni di spalle guardava i gerani che incerti parevano sbocciare da un momento all’altro. Lo guarda di spalle e pensa a quanta energia aveva impiegato da poco per lei. Nel dirle con violenza che il suo gesto non aveva più senso. Lui stava già fuori dalla storia e dal balcone. Sopra uno scooter rosso scassato alla ricerca di una farmacia aperta. Aveva terminato le sue pillole. La priorità erano le sue pillole. La faccia di Clara sbiadiva davanti al suo comodino. Il sonno, ci voleva il sonno per sconfiggere i mostri del giorno. Clara stava intanto ancora sdraiata sul divano. Un libro alla sua destra. Una confezione di bucaneve con tutte le sue antipatiche briciole sul petto. Sempre affettuose queste briciole che scendono come pioggerellina sul corpo. Questo pensava Clara mentre ripassava nella mente l’intero discorso delirante di Gianni. Era già la quarta volta che lo faceva, ogni volta ci trovava una piccola verità svelata che traboccava innocente da quella bocca carnosa che aveva baciato migliaia di volte. Oggi no, neppure aveva sfiorato quell’uomo così tanto desiderato in quei mesi. Una festa era il suo comparire alla porta con dei fiori poveri. Li raccoglieva lungo i bordi delle aiuole brulle di Rifredi. Il pomeriggio passeggiava almeno un’ora, prima di dedicarsi a quella ragazza con quell’accento che un tempo l’avrebbe fatto sorridere. Oggi il solo ricordo, seppur sbiadito, lo fa morire di terrore. Ma cosa ha fatto?

domenica 13 novembre 2011

Ma avete sentito che oggi l'aria fresca è ancora più fresca?





giovedì 10 novembre 2011

il pugnale della mattina



Sta in macchina dentro la solita strada sconnessa della mattina, a un tratto un lampo del passato, una scheggia che scaglia il cuore. L’insonnia è già alle spalle e la sveglia suona proprio in quel momento nella sua testa, come pugnale già entrato ormai nel suo petto: anni fa lo stesso pugnale in strade diverse ne aveva combinate delle belle. Vuole fermarsi ma la strada è stretta; il bordo si confonde alle sterpaglie solcate da donne e passeggini mezzi rotti. Devia nello slargo della stazioncina. E’ già piegato per metà sullo sterzo, finisce la corsa contro le inferriate che proteggono l’enorme palazzo vetrato degli industriali romani. Pah! Pah! E tutto sparisce, tutto sprofonda nel sottoscala delle esperienze perse. Non vuole, non vuole soffrire più per quel pugnale sporco.
Davanti ai suoi occhi il panico prende la forma di tre zingarelle che si parano davanti ai finestrini. Lo fissano spaventate. Lui rimanda vergogna. La scena dura venti secondi abbondanti, tutto scorre accanto. Aprono gli sportelli, le tre entrano. Lui trema. Quella che si è seduta accanto gli prende il mento e gli fa fare una rotazione sufficiente per farsi guardare negli occhi. Lui cede un po’ rigido. Trema ancora di più. Le due dietro appoggiano la faccia sui sedili e respirano forte. Uno stormo di uccelli taglia il cielo ancora celestino: sono un’infinità, e fanno virare lo sguardo delle quattro persone nella macchina. Dieci secondi di pace. Poi un braccio preme un altro braccio, una guancia si ritira e cerca aria. Una donna dentro una mini nera guarda la scena e ride volgare. Già nella sua testa un racconto per le colleghe svogliate. Già è pronto con trama, personaggi e finale. Una sentenza aleggia a pochi passi dal raccordo appena esploso di macchine. Le tre scendono di corsa appena sentono il rumore del treno. Nel farlo - la più giovane - lascia cadere un lungo foulard verde sul sedile. Lui guarda solo quello, e non pensa ad altro. Poi si addormenta sereno in questo piazzale già violato da auto veloci.


 



martedì 8 novembre 2011

Ce la fa.


Non ce la fa a sostenere il cesto carico di storia malata che si porta dietro. La schiena è forte, le braccia pure, allora, cosa c’è che non va? Ci sarebbero questioni piccole che premono sulla parete dell’anima, così mi ha detto una mattina, prima di prendere il solito caffè con me. Lo lascio fare. Sa quello che vuole, in fondo, da anni, segue un destino che scopre di volta in volta, di anno in anno, di lavoro in lavoro. Un gioco. Sta al suo gioco che a tratti appare pazzerello e scomposto, altre, invece, di colpo pare che  tiri fuori un senso del dovere che nemmeno lo “svedese”. Bene. Lo capite? Vuole una seconda volta ogni volta. Durante la prima scalda i motori psicologici, fisici, poi, tutto si spegne e fuoriesce liquido verde che non puzza, però. Esangue tira fuori la scorta di energie, nascoste di notte senza dire niente a nessuno coperto dall’insonnia.
Lasciatelo fare, non vi preoccupate per la sua fatica ansiosa. Non gli date il lexotan, ancora no, c’è tempo per il sonno terapeutico. C’è tempo.
Non offritegli guance o spalle, l’intimità sa ottenerla senza lagne. Aiutatelo a spazzare via le ultime foglie secche che nel suo viale di narcisi abbondano. Anzi, arrivate subito dopo, appena ha riposto il rastrello nel magazzino, e offritegli una bottiglia di vino: il brunello, che ha bevuto solo una volta in vita sua.
Alzo la testa e vedo nuvole spedite che nere spingono pioggia giusto più in là, appena fuori la sua finestra mezza aperta. Che possa poggiare i suoi occhi fuori, nell’aria, lontano dai suoi cari, così da sposare tutta quella pioggia di lacrime che aspettava dal 15 marzo dell’85. Io so, e ho le prove. Tutte nella tasca burocratica che devo sempre portare con me. Ma non mi pesa, so aspettare e ho le spalle giuste per sostenerlo.

domenica 6 novembre 2011

Dormiveglia


Durante il dormiveglia ho fatto pulizie: differenziando tutti. I tormenti del lavoro dagli amici qualunquisti; le angosce per il futuro dalla povertà che mi schiaccia al muro grigio della realtà. Dai parenti serpenti alle infinite facce amiche-nemiche che vedo tutti i giorni.
Un tono, darsi un tono nuovo. Questa è la mia rivoluzione, perché in fondo, in fondo, credo di essere persona capace di darsi un tono e sfoderare l’arma della sincerità.
Così li schianto tutti a terra una volta per tutte (ma chi?). Pensavo, ma ero ancora a letto, dove è facile fare il supereroe de’ noantri. Poi, trasalendo e correndo per le scale mi sono accorto che era proprio tardi, e in più che non basta sentirsi forti per vincere le frustrazioni che colorano le belle giornate di questi mesi corti di miccia e lunghi di stress. No. Devo continuare a leggere Coetzee oggi, poiché la sua Elizabeth vale almeno quanto tutte le parole di certi amici che ho, bisogna ammetterlo. Nel senso che, volendo, mi sa dire più e meglio quali cose non fare, non vedere, di tante belle persone che continuano a vedermi in un modo e non capiscono che quel modo non esiste più. È morto; meglio morto il modo che io, non c’è dubbio.
Il tono, sì, oggi serve un tono diverso: deciso e forte come l’odore dell’autunno in montagna. Come un bambino che di colpo, in un giorno qualunque di settembre, cambia il timbro della voce. E tutti si spaventano e nel farlo gli regalano l’ennesimo balocco.
A me regalate quintalate di libri; e un dolce week end a Parigi.

…D’altra parte, non crede più tanto nel credere. Le cose possono essere vere, pensa ora, anche se uno non ci crede, e viceversa. Credere, in definitiva, potrebbe non essere altro che una fonte di energia, una specie di batteria che si attacca a un’idea per farla funzionare. Come succede quando si scrive e si crede a qualunque cosa si debba credere per poter andare avanti.
Tratto da “Elizabeth Costello”. Di J.M. Coetzee.

sabato 5 novembre 2011

dedicato a chi?...


Quante canzoni che hai scritto. Belle, corte, strambe e serie. Non ti stanchi di giocare con le parole aggrovigliate ai sentimenti. Veri o falsi, che differenza fa? Senti di stare dentro un palco immaginario fatto di facce e donne. Tu al centro, defilato nel centro che canti ignorando il registro. Il mondo. Poi disprezzi la massa, ma non le persone, e tutto quello che gli sta intorno. Mi fai pensare a Parise, e al suo male che prende forma e odore di sangue, ma che resta, nonostante il dolore, cittadino saldo alle regole e alla pedagogia minima. Necessaria, per poter esser liberi di prendere treni a qualsiasi ora del giorno, e con chiunque.
Capisci madame, qui si è dentro una piccola storia colorata dai giorni monotoni e da splendide solitudini. Come fare a non morire la domenica mattina, senza giornali né pastarelle fresche di crema?
Come fare?
Poi stare sempre ad aspettare la notte, con l’infantile paura di esser preso a botte dalle tue stesse mani. Povere mani costrette a graffiare chitarre e donne. Sempre quelle, che vogliono amarti fin dentro le ossa. Per poi scappare via, come ladre scivolose dentro corridoi bui e allungati fino al mattino.
Ora aspettiamo l’ennesimo disco, il solito e fantastico scorcio di parole melodiose che dipingono un po’ anche i nostri giorni: ascolti, tra i pochi, che mi fanno sentire contemporaneo dei miei sentimenti.
Non siamo al tramonto è che ho da lavorare, da lavorare davvero.

Zenova


Avevo cinque anni e non arrivavo neppure alle maniglie delle porte. Quella mattina sono stato con tutto il corpo a tenere la porta finestra che dava sul balcone, che a sua volta dava sul mare. Era lì, a cinquanta metri da noi cinque, barricati senza drammi dentro quella casetta con le ringhiere verdi. Sotto di noi un tunnel, dove c’era pure un falegname (maestro d’ascia) che costruiva gozzi di massimo quattro metri. Quel giorno le barche ondulavano e sparivano. Il resto della famiglia era presa dalle solite cose; ogni tanto qualcuno dava un’occhiata fuori, così, tanto per capire. Io no, stavo di schiena alla finestra e premevo, usando tutta la forza di quei cinque anni di storia spensierata che avevo avuto fino allora.
A un certo punto il vento entra dalle fessure, le persiane di legno avevano debolezze ai loro lati, che l’alluminio di oggi, ai suoi occhi, appare come una seicento modesta d’allora davanti a un Suv col suo puzzo di soldi di oggi. Insomma, questo vento non fischiava più, urlava e sbatteva tutto all’aria. Aumento la forza e tengo la finestra sotto controllo. Anche se in realtà non ce la faccio proprio più; devo capire anch’io, e allora infilo la pupilla al posto della chiave e vedo un’onda del mare che scavalca la cinquecento parcheggiata davanti alla “Casa dei marinai”. Urlo più del libeccio e corro ad abbracciare il ventre di mia madre. Chiudo gli occhi di colpo e li riapro solo il giorno dopo. Quando vedo detriti del Garigliano arrivati fin davanti al tabaccaio, che, pare, abbia trovato pure un polipo sbattuto contro la saracinesca di ferro. Poi macchine affogate, muri abbattuti. Il lungomare pareva una spiaggia d’inverno.
Ecco, col pensiero sono corso fino al “75, per cercare di non aggiungere morbosità all’alluvione di ieri a Genova. Quest’ultima riga era doverosa per stabilire un contatto, minimo, inutile forse, ma sentito da noi che a Maggio siamo stati ospiti felici di una splendida città di viuzze, piazze e persone una diversa dalle altre.

giovedì 3 novembre 2011

il nonno e la tara


Sei una tara venuta bene, in un pomeriggio lontano, abbagliato, e senza sorrisi. Ora, nascosto tra il nero dei pensieri e da un passato zoppicante che bussa alla porta, ridi fino a tarda notte. A volte fino al mattino, dove ci arrivi con la faccia serena di un bambino umorale. E non lasciatelo solo, neppure al mattino. Vuole carezze di parole sparite di colpo tanti anni fa; non ieri. Ricorda di quel fortino assediato dai “bambini cattivi”, in un pomeriggio lungo di maggio, senza luce ma solo un prato verde tra sentieri inospitali. Da lì a poco si ritrovano, lui e un suo compagnetto, appesi a delle corde di cantiere, di fronte ragazzini poco più grandi di loro con facce tirate e senza smorfie. Si lasciavano torturare per una resa anagrafica. Lo scempio finì con sfregio inaspettato. Ancora oggi ricorda quel puzzo che durò tutto il tempo di liberarsi da quelle corde. Il trofeo che i ragazzini portarono via, oltre al potere mantenuto in quartiere, anche due fionde appena inaugurate dai due sventurati “bambini buoni”.
Tutto il potere sfiorato, tutto l’inganno digerito, stanotte non gli basta solo ricordare l’origine delle sventure, no, in questa notte di deboli spauracchi, dove solo una bella canzone improvvisa potrebbe accorciare le distanze col dolore, insomma, ora sarebbe il caso di chiudere il periodo, ché di virgole non ne ho più a disposizione.
Un nonno cattivo e ubriaco lo sta aspettando davanti al vecchio portone arrugginito dal mare. Lo aspetta, e mentre lo fa, si fuma l’ennesima nazionale. Un puzzo stride con l’aria assolutamente pura di uno scoglio morbido e accogliente, che doveva esser Gaeta almeno cento anni fa. L’assedio era già alla porta mentre il nonno, sfilatosi la cinta, prese a frustate il nipote appena rientrato da una notte d’amore e d’odio. Ma chi glielo spiegava a quel vecchio che era rimasto tutto il tempo impigliato a una rete a maglie strette, e non ne voleva sapere del “vapore” che l’avrebbe portato a sfamare un’intera famiglia di là dell’oceano immenso e miserabile di uomini e morte. Nessuno glielo spiegava, neppure il maestro, che si vide ritirare uno ad uno tutti i suoi figli e poi i  nipoti, da una scuola che serviva a poco. Non alla loro famiglia, che invece voleva braccia per tirare le reti dal mare nero.
Tra il nonno e la nonna negli anni sono passate qualche centinaia di parole, totali, non come vocaboli, e qualche carezza iniziale. Poi cupi ruoli da mantenere nel tempo; erano teneri soldatini di un regno lontano e sovrano dei loro sentimenti. Cosa si aspetta oggi questo ragazzo dentro questo spicchio di storia. Un grammo di fortuna per bilanciare la tara?