Così in un sabato mattina qualunque di serenità
ho ascoltato una selezione di Elliott Smith su YouTube e ho cominciato a scrivere
due righe sul libro di Andrea Pomella. Glielo devo, poiché ho letto i suoi post
mattutini per qualche anno quasi quanto quelli di Michela Serra negli anni. All’inizio
li leggevo e riflettevo, poi quelli più recenti li leggevo, riflettevo sempre,
ma a volte mi commuovevano pure. Non sapevo che stavo vivendo una
trasformazione letteraria, esistenziale dell’autore, oppure ciò che stava
cambiando era solo in me?
Mentre leggevo L’uomo che trema sentivo la sua presenza sotto i piedi,
come un torrente carsico che trasportava i miei pensieri come detriti verso un
fiume enorme, quello del mio tempo ritrovato: da un anno circa percepisco il tempo
come misura verso la mia fine. Misurandolo, vivo meglio, e le cose della vita
mi sembrano più concrete, quasi tocco le porosità, sicuro annuso il buono come
fosse pane appena sfornato. Da circa un anno vedo ossa e muscoli sotto il velo
delle mie ipocrisie, piaggerie, velleità, desideri, ma intravedo anche quella
mia specialissima sensibilità, sempre sottovalutata, come mi ricorda ogni tanto
mia moglie. L’uomo che trema parla di depressione, anzi, scava nella
depressione dell’autore, ricreandola in pagine memorabili, nitide di dolore e
di attese: un figlio che sa stare al mondo, un nonno che ritorna, una moglie
premurosa. All’interno di queste relazioni la depressione del protagonista
acquista senso, rivela le debolezze, le crepe, combatte il bianco accecante del
nulla che compare all’improvviso in un parcheggio deserto. Conosco la
depressione, soprattutto quella di persone a cui voglio (e ho voluto) più bene
in vita mia. Capisco che se gli altri declassano la tua depressione a
capriccio, a svogliatezza o, peggio ancora, a incapacità di stare al mondo poi
il tuo mondo si sgretola e finisci in fila alla asl o ti barrichi in camera per
secoli, fingendoti morto. E intanto la brace incendia te e il tuo letto, fa
scaraventare comodini in aria, non ti fa rispondere al telefono per mesi.
Determina la tua vita con uno sguardo, e nessuno mai riuscirà a risalire a quello
sguardo, forse neanche tu che lo hai subito.
Il libro di Andrea Pomella scorre via
emozionando con una acuta misura che s’intreccia al sentimento ma non lo
esalta, né lo schiaccia: ci sta, e ti fa partecipare volentieri al racconto, restando
accanto e non permettendo quel risucchio sentimentale che alcuni autori mettono
in scena, furbescamente. Resti seduto accanto al libro, ma non provi a
saltargli in braccio, lo contempli da quella poltrona ma non lo scarabocchi
freneticamente di te, lo lasci raccontare come potrebbe raccontare un amico che
non vedi da anni: decifri le rughe, osservi le labbra, ti specchi in quegli
occhi luminosi che hai osservato in un’altra epoca. Il dolore cambia con te, i
traumi si diluiscono nelle nostre giornate rimbalzando nel tempo alle pareti di
altre storie, e quando gli spigoli non ci sono più forse sei pronto a
tramutarli in un’opera d’arte. Un po’ come ha fatto Andrea Pomella, almeno così
voglio immaginarlo io, al chiuso di questa stanza piena di Elliott Smith, di
vento e di un sabato da inventare.
Sto scrivendo più di
me che del libro, ché a me non piace svelare i libri, suggerirli sì, così come
di pensare alla raffinata e intelligente arte dell’autore nel riversare in frasi
un senso, una bellezza che altrimenti svanirebbe per sempre. Penso anche un po’ all’autore, lo ammetto: sì, dopo libri come questi poi mi piace abbracciare
l’autore il prima possibile. Sperando di non fare altre gaffe con gli accenti, aspettando
il suo prossimo libro come si aspetta un vecchio amico preparando noccioline e
birre, tutto contento, fingendo una postura da adulto mentre sotto tutto scorre
come quando eri ragazzo e timido.