Pagine

sabato 6 ottobre 2018

L'uomo che trema


 Così in un sabato mattina qualunque di serenità ho ascoltato una selezione di Elliott Smith su YouTube e ho cominciato a scrivere due righe sul libro di Andrea Pomella. Glielo devo, poiché ho letto i suoi post mattutini per qualche anno quasi quanto quelli di Michela Serra negli anni. All’inizio li leggevo e riflettevo, poi quelli più recenti li leggevo, riflettevo sempre, ma a volte mi commuovevano pure. Non sapevo che stavo vivendo una trasformazione letteraria, esistenziale dell’autore, oppure ciò che stava cambiando era solo in me?
   Mentre leggevo L’uomo che trema sentivo la sua presenza sotto i piedi, come un torrente carsico che trasportava i miei pensieri come detriti verso un fiume enorme, quello del mio tempo ritrovato: da un anno circa percepisco il tempo come misura verso la mia fine. Misurandolo, vivo meglio, e le cose della vita mi sembrano più concrete, quasi tocco le porosità, sicuro annuso il buono come fosse pane appena sfornato. Da circa un anno vedo ossa e muscoli sotto il velo delle mie ipocrisie, piaggerie, velleità, desideri, ma intravedo anche quella mia specialissima sensibilità, sempre sottovalutata, come mi ricorda ogni tanto mia moglie. L’uomo che trema parla di depressione, anzi, scava nella depressione dell’autore, ricreandola in pagine memorabili, nitide di dolore e di attese: un figlio che sa stare al mondo, un nonno che ritorna, una moglie premurosa. All’interno di queste relazioni la depressione del protagonista acquista senso, rivela le debolezze, le crepe, combatte il bianco accecante del nulla che compare all’improvviso in un parcheggio deserto. Conosco la depressione, soprattutto quella di persone a cui voglio (e ho voluto) più bene in vita mia. Capisco che se gli altri declassano la tua depressione a capriccio, a svogliatezza o, peggio ancora, a incapacità di stare al mondo poi il tuo mondo si sgretola e finisci in fila alla asl o ti barrichi in camera per secoli, fingendoti morto. E intanto la brace incendia te e il tuo letto, fa scaraventare comodini in aria, non ti fa rispondere al telefono per mesi. Determina la tua vita con uno sguardo, e nessuno mai riuscirà a risalire a quello sguardo, forse neanche tu che lo hai subito.
Il libro di Andrea Pomella scorre via emozionando con una acuta misura che s’intreccia al sentimento ma non lo esalta, né lo schiaccia: ci sta, e ti fa partecipare volentieri al racconto, restando accanto e non permettendo quel risucchio sentimentale che alcuni autori mettono in scena, furbescamente. Resti seduto accanto al libro, ma non provi a saltargli in braccio, lo contempli da quella poltrona ma non lo scarabocchi freneticamente di te, lo lasci raccontare come potrebbe raccontare un amico che non vedi da anni: decifri le rughe, osservi le labbra, ti specchi in quegli occhi luminosi che hai osservato in un’altra epoca. Il dolore cambia con te, i traumi si diluiscono nelle nostre giornate rimbalzando nel tempo alle pareti di altre storie, e quando gli spigoli non ci sono più forse sei pronto a tramutarli in un’opera d’arte. Un po’ come ha fatto Andrea Pomella, almeno così voglio immaginarlo io, al chiuso di questa stanza piena di Elliott Smith, di vento e di un sabato da inventare.
   Sto scrivendo più di me che del libro, ché a me non piace svelare i libri, suggerirli sì, così come di pensare alla raffinata e intelligente arte dell’autore nel riversare in frasi un senso, una bellezza che altrimenti svanirebbe per sempre.  Penso anche un po’ all’autore, lo ammetto:  sì, dopo libri come questi poi mi piace abbracciare l’autore il prima possibile. Sperando di non fare altre gaffe con gli accenti, aspettando il suo prossimo libro come si aspetta un vecchio amico preparando noccioline e birre, tutto contento, fingendo una postura da adulto mentre sotto tutto scorre come quando eri ragazzo e timido.






lunedì 1 ottobre 2018

addio fantasmi


  Certi libri li aspetti come si aspetta un’amica, e stavolta non è l’amica che ti invia un audio WhatsApp in cui ti chiede senza pietà: perché sei andato via da Gaeta (è bellissima, enfatizza) per scegliere di vivere in una borgata romana? Me lo chiede a fine estate poi, quando la nostalgia è più spietata. A quella mia amica non ho risposto come si deve per la rabbia che mi ha fatto salire, ma forse la risposta migliore sarebbe regalarle Addio fantasmi, il nuovo libro di Nadia Terranova. Seppure le fughe dalle case dei nostri guai siano più o meno tutte uguali, è vero pure che in ognuna il dolore è diverso: e forse tutti abbiamo il desiderio di superarlo, arrendiamoci.
   C’è un passo del libro in cui questo concetto è scritto divinamente, è quando Ida cerca febbrilmente di incontrare Sara, la sua amica del cuore dell’adolescenza, quella spigliata coi ragazzi, quella che non ha subito la scomparsa del padre a tredici anni, quella che non ha bisogno di invidiare la vita degli altri. Sara è cambiata restando a Messina, vivendo le mille frustrazioni che certa provincia rende ancora più soffocanti. Nel dolore di Ida c’è una strana sordità per le storie degli altri, pur scrivendo storie reali-inventate per la radio, continua a pensare che il suo dolore sia il Dolore: quella unicità fragilissima, che spesso diventa una compagna condanna a cui ci affezioniamo e a cui doniamo le nostre migliori energie. Mentre sonda la propria memoria, tra flash back e oggetti conservati in sacchi neri nella sua cameretta dell’epoca, Ida prova far uscire di scena il fantasma del padre, il quale a un certo punto della lettura pare che evapori  tra le pagine più riuscite di sempre sul superamento del dolore.
   La bellezza sommersa di questo racconto emerge lentamente, come una nave affondata che approfitta di una secca improvvisa: oscena, mostra tutte le incrostazioni del tempo in cui è rimasta nascosta al mondo. Non teme più gli occhi degli altri: lascia vedere la ruggine che splende insieme a tutti gli altri colori del relitto pronto oramai alla manutenzione. Non c’è tempo per la vergogna, perché c’è in Ida quell’energia tenuta a bada negli anni, che ora penetra dolcemente la superficie della realtà.



   Ritornando nella vecchia casa, per aiutare la madre a “sistemarla” prima dei lavori di rifacimento del tetto, Ida rivive le perenni rabbie, così come ricompaiono dalla memoria le sue esperienze di giovanissima donna, successive alla scomparsa del padre. In quella casa oggi c’è da riparare un torto subito sull’uscio dell’adolescenza, un torto che forse viene dal mare, o dalla cattiva sorte. Oppure proviene da una sinistra somma di casualità a cui non sapremo dare mai un nome, e che non riusciamo ad  afferrare neppure in certi sogni notturni. Un giorno magari avremo il coraggio di andare in analisi, di avere partner solidi come ficus, amici che sanno ascoltare, o semplicemente la fortuna di sopravvivere. Questa storia ci sussurra un monito: riparare il nostro dolore significa anche saper chiedere, quando è arrivato il suo tempo, una tregua ai nostri tormenti. Mettere la nostra storia accanto al nostro presente e non dentro, poiché solo quando riusciremo a vedere accanto a noi quei ragazzi che siamo stati, solo allora potremo fare un pezzo di strada insieme allo spettro sopravvissuto a quel trauma, per poi salutarlo come si salutano certe zie che pensi sia l’ultima volta che vedi.
   In Addio fantasmi non si risolve forse nulla, ma leggendolo ho fiutato quella dose di purezza che sembra galleggi in quelle scelte morbide che a volte si fanno, e che pare si stacchino dallo stallo di certi pesanti dolori: come bolle infuocate ai piedi dei vulcani. Non ci resta che allontanarsi senza voltarsi finché quell’odore di lava calda non si sia mischiato bene bene allo smog delle nostre nuove città caotiche di bellezza, dove le scelte siedono accanto a noi su certi tavolini rossi di aperitivi e patatine, quando ti sorprendi a leccare le dita come da bambino, in certe serate sospese. In questi nostri luoghi densi di un presente ancora incerto, cerchiamo di rappresentare al meglio le nostre storie ancora piene di desiderio. Sì, cara amica mia, a questo punto delle nostre storie lo possiamo fare anche lontano dalle bellissime spiagge d'infanzia.