Da piccolo giocavo con dei tappi di bottiglia che recuperavo al bar Del Mare, e ci
creavo città, uomini e donne, bambini, e magnifici stadi di calcio. In questi
campi facevo disputare partite infinite, con tifosi veri che accendevano anche i fumogeni-fiammiferi. C’era anche il telecronista, in cabina. Le bandierine. Le gradinate le avevo
realizzate con piastrelle avanzate in terrazza. Me ne stavo lì per interi
pomeriggi tra lenzuola e cieli tersi, vedevo un solo spicchio di mare appendendomi al
palo dell’antenna della tivù. Pensavo sempre alla vita dei tappi, cioè agli
abitanti di questa mia città, e quando mi svegliavo invece di vedere i cartoni
animati pensavo a come organizzare la giornata a questi più di cinquecento abitanti
che aspettavano me al risveglio. Così organizzavo mercati e feste, lotte e vita domestica,
ma gli sport erano quelli che desideravo proporgli di più. Partite di calcio
soprattutto, ma anche corse infinite su marciapiedi strettissimi, a cui
costringevo amichetti soggiogati dalla mia tenera follia di far vivere bene
questi tappi-abitanti. Una piacevole frenesia durata alcuni anni. Poi un giorno
mia madre ne buttò parecchi ma, soprattutto, buttò Mennuni! che era una sorta
di stella della squadra locale, quindi, nella mia gerarchia cittadina era una
specie di eroe-sindaco-santo. Piansi disperato, quasi quanto quella volta nella caduta in
vasca dove mi ruppi un dente. Mi arrabbiai con mia madre, quasi volli scappare di casa, poi, una volta digerita l’ennesima incomprensione genitoriale, impiegai cento
tappi sopravvissuti per l’imponente ricerca del disperso Mennuni. Niente. Era
introvabile, e forse lo stavano già triturando nel compattatore che sfrecciava sulla
litoranea verso Terracina. Povero me, che vivevo solo per loro ma che li ho traditi lasciandoli
incustoditi, soli. Gli feci anche diverse foto a questi tappi vivi, e chissà se
un giorno le ritroverò, così da farle vedere ai miei figli. Ecco, io ero uno così,
uno che animava cose e fiutava gli altri ascoltandoli, religiosamente. Ma parlavo pochissimo in pubblico, soprattuto tra i grandi: timido ma vivo, avevo sempre qualcosa in serbo nelle mie
lunghe giornate giocose. Si chiama gioco simbolico in pedagogia, per me era
tutta la vita che potessi trasmettere agli altri e alle cose per farle
diventare qualcosina di più: qualcosa che potesse attivare altra vita a casa mia.