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martedì 15 novembre 2016

tappi di vita (primo episodio)

    Da piccolo giocavo con dei tappi di bottiglia che recuperavo al bar Del Mare, e ci creavo città, uomini e donne, bambini, e magnifici stadi di calcio. In questi campi facevo disputare partite infinite, con tifosi veri che accendevano anche i fumogeni-fiammiferi. C’era anche il telecronista, in cabina. Le bandierine. Le gradinate le avevo realizzate con piastrelle avanzate in terrazza. Me ne stavo lì per interi pomeriggi tra lenzuola e cieli tersi, vedevo un solo spicchio di mare appendendomi al palo dell’antenna della tivù. Pensavo sempre alla vita dei tappi, cioè agli abitanti di questa mia città, e quando mi svegliavo invece di vedere i cartoni animati pensavo a come organizzare la giornata a questi più di cinquecento abitanti che aspettavano me al risveglio.  Così organizzavo mercati e feste, lotte e vita domestica, ma gli sport erano quelli che desideravo proporgli di più. Partite di calcio soprattutto, ma anche corse infinite su marciapiedi strettissimi, a cui costringevo amichetti soggiogati dalla mia tenera follia di far vivere bene questi tappi-abitanti. Una piacevole frenesia durata alcuni anni. Poi un giorno mia madre ne buttò parecchi ma, soprattutto, buttò Mennuni! che era una sorta di stella della squadra locale, quindi, nella mia gerarchia cittadina era una specie di eroe-sindaco-santo. Piansi disperato, quasi quanto quella volta nella caduta in vasca dove mi ruppi un dente. Mi arrabbiai con mia madre, quasi volli scappare di casa, poi, una volta digerita l’ennesima incomprensione genitoriale, impiegai cento tappi sopravvissuti per l’imponente ricerca del disperso Mennuni. Niente. Era introvabile, e forse lo stavano già triturando nel compattatore che sfrecciava sulla litoranea verso Terracina. Povero me, che vivevo solo per loro ma che li ho traditi lasciandoli incustoditi, soli. Gli feci anche diverse foto a questi tappi vivi, e chissà se un giorno le ritroverò, così da farle vedere ai miei figli. Ecco, io ero uno così, uno che animava cose e fiutava gli altri ascoltandoli, religiosamente. Ma parlavo pochissimo in pubblico, soprattuto tra i grandi: timido ma vivo, avevo sempre qualcosa in serbo nelle mie lunghe giornate giocose. Si chiama gioco simbolico in pedagogia, per me era tutta la vita che potessi trasmettere agli altri e alle cose per farle diventare qualcosina di più: qualcosa che potesse attivare altra vita a casa mia.