Pagine

giovedì 30 agosto 2012

ultimo




Non so perché mi ero messo con quella. Di certo quell’estate, almeno fino a luglio, è stato tutto e solo amore e qualche nuvola. Sapevo che il padre spingeva per farla entrare in banca, ma, questo, fino all’ultima inginocchiata d’amore puro per me, non pensavo fosse così imminente. Invece. Mi saluta con un ultimo bacio perfido il trenta luglio “vado negli steitz con mia sorella, là ci aspetta un cugino, ci vediamo al ritorno”. Così non è stato, poiché al ritorno dalla vacanza stava già seduta dietro a una scrivania lucida e sgombra da inutili cartacce d’ufficio qualunque: solo un computer tutto nuovo per le sue diaboliche stime. Fare i conti in tasca ai correntisti, decidendo a chi dare un po’ di speranza liquida e a chi togliere la casa solida. Ecco quello che faceva. Lo so, ché me l’ha detto Monica la sua amica. Ricordo che prima del trenta luglio stavamo sempre a fare l’amore in spiaggia, o a casa sua. Una volta l’abbiamo fatto pure nel retro del negozio del padre, tra gli scaffali metallici traballanti e pieni di bulloni e pistoni. Il puzzo di olio e di grasso era una droga eccitante per le sue perversioni. Una volta al mese circa si divertiva con le perversioni. Era una tipa complicata lei; a me bastava soltanto averla addosso, e sentirla tesa verso la mia pelle. Fresca. Tutta per me. Poi dal trenta luglio faccio finta di niente: niente, sta in vacanza con la sorella, non è che m’importi tanto sai, vedrai che quando torna ricominciamo. Verso la fine d’agosto preferivo dichiarare alla popolazione “ quello stronzo del padre c’è riuscito a sottometterla ai giochi di famiglia”. Verso il venti settembre, vedendola attraverso la grossa e glaciale vetrata della banca, col suo completino nero e annessa collana enorme di pietre sul seno, sono crollato e ho capito quasi tutto. Dovevo confessarlo al più presto. Agli amici. A mio fratello. Non ce la facevo più con la recita di quello che aspetta sereno davanti al bar che la donna torni affamata di sentimenti, e che faccia la pazza per riconquistarti – così funziona da noi, ai maschi non passa per la testa di corteggiare o quelle trame lì – niente, ho preso il telefono e l’ho chiamata sul cellulare: ma non dovevamo andare alle terme insieme? Come se in quei due mesi lei non ha pensato che a ‘ste cazzo di terme. Infatti: alle terme ci sono stata, con mia sorella, e che belle che erano. E tu quando ci vai? Come se non fosse successo niente. Come no, il prima possibile, borbotto io. Come se non fosse successo niente neanche a me. Insomma, questa comunicazione degna dell’era breznievana ha seppellito ogni speranza di riaverla tra le braccia a ogni ora del giorno. Nella mia testa è successo all’improvviso. Nella sua chissà. In fondo chi ci aveva mai pensato a queste conseguenze tristi, fino al trenta luglio. Nel salutarla le dico: sai, magari un giorno si va a vedere quel concerto che tanto aspetti. Questo debole invito neppure è arrivato alle sue orecchie, visto che stava già a sessanta all’ora sul suo nuovo scooter, e alla curva magari era scesa a trenta, immagino, ma solo perché c’era la curva dopo il viale di casa sua, e a lei la prudenza ora serviva.


Ecco, sono arrivato a suicidarmi per questo motivo. Non immediatamente dall’abbandono, no, verso dicembre, poco prima del Natale. Il venti dicembre del duemila. Già, per me è stato un suicidio ma per gli altri, ancora oggi, che sono passati più di dieci anni, si è trattato di un tentato suicidio. Per me non cambia. Io mi stavo suicidando e avevo tutto l’occorrente per farlo. La procedura era completa. Pure la lettera avevo scritto, e poggiava di sbieco sul tavolo marrone. Certo, mi dovevo documentare meglio sulla quantità di pasticche per la pressione che avrei dovuto trangugitare, però, cari miei, non è che potevo pensare a tutto io. Un dettaglio ha cambiato tutto, facendomi diventare all’istante un’altra persona. Al risveglio intendo. Vedendo quei faccioni pallidi ricurvi su di me, mi sono ritirato e ho continuato a dormire per un’altra mezz’ora ascoltando le chiacchiere che facevano preoccupati per il mio stato. Mio fratello sbuffava e cazziava mia madre; così, per alimentargli per bene il senso di colpa. Mio padre entrava e usciva chiedendo ogni trenta secondi a chiunque passasse dal corridoio: ma quando si risveglia? Quell’altro mi aveva detto al massimo in un’ora. Fa niente che l’altro sì era il medico ma, quest’altro, era il tecnico dell’aria condizionata. A papà! La sua ansia mi ha fatto sempre incazzare e sorridere allo stesso tempo. Dipendeva se dovevo difendere mamma o sfottere soltanto lui. Mia zia durante il mio pre-risveglio, da come masticava la gomma, capivo che aveva altro da fare. Magari i regali, o la spesa per la cena della vigilia. Quei pesci preziosi da ordinare; insomma, non voleva essere là, davanti al mio corpo allungato su quel letto bianco, ma ci doveva stare. È sempre mia sorella, pensava tra un’occhiata speranzosa verso i miei occhi e una penosa, guardando l’andirivieni di mio padre. Lei, quella che s’inginocchiava davanti a me fino al trenta luglio non c’era, questo magari l’avete immaginate da soli. Questo coro dolorante comunque mi ha lasciato intendere che, seppure non fossero loro minimante la causa del suicidio, erano allo stesso tempo una spinta a continuare a vivere. Da un’altra parte però, in un’altra città: Padova. Università, facoltà di psicologia. Tre esami, poi Bologna. Corso di giornalismo. Prima rata pagata, e poi basta. Treviso. Innamorato pazzo di Luisa. Tre mesi. Firenze, dove tuttora faccio il cameriere e organizzo concerti. Ora, a casa dei miei, agosto duemilaedodici. Renata è appena uscita dalla stanza. Inginocchiata, mi ha fatto fare uno scatto all’indietro, e io che volevo soltanto chiederle di andare al cinema, stasera. Vabbè, come prima visione non era male.


Sono tornato come ogni anno per farmi la settimana a casa di mamma e papà. Mio fratello vive a Roma. Domani ci raggiungerà anche lui, insieme alla compagna e ai tre figli maschi. Tutti al mare. Ci saranno grandi mangiate di pesce e in quelle occasioni mio padre sarà il principale protagonista, prima nel preparare, subito dopo nel divorare le pietanze e, infine, ubriacandosi orgoglioso con la falanghina fresca fino a tarda notte, così per tenerci tutti all’erta e contenti. Tutti sotto la pergola di pizzutello, che ogni anno si fa sempre più stretta. Mia madre si commuove in cucina, mentre fa tutto quello che non sa fare il marito cuoco,  e spera come una bambina che duri un anno quella cena, quei sorrisi e quei racconti venati di umorismo. Quest’anno ho certe cose da raccontarvi, cari miei. Questo si pensa tutti prima di cominciare la battaglia contro i pesci e molluschi a tavola. Non è male quest’atmosfera. No, è la cosa più antica a cui non rinuncerei mai.

Stanotte poi davanti a questa foto di me bambino di otto anni, con le figurine in una mano e l’altra che scompare dietro al corpo giovane di mia madre, sento, stanotte vedo e sento ogni scintilla che ha formato la mia vita fino ad oggi. Tutte quelle scelte che hanno determinato cambiamenti spietati, storie magnifiche e sbagli poetici. Ma non so commuovermi. Non so vedermi bambino e piangere come si dovrebbe. Aspetto. Quando all’improvviso sarò contento per dieci minuti di fila, senza interruzioni, senza ripensamenti. Allora neppure il ricordo di Luisa con le sue cosce sode, oppure gli occhi verdi di Mariella, basteranno a distrarmi dagli attimi di assoluta gioia che mi fanno vivere e morire ogni giorno. Da quel giorno.

mercoledì 29 agosto 2012

d'amore

 La guardo dai tacchi in su e resto col fiato in bilico tra un sussulto e un agguato. Poi scivolo nel ricordo e un violento sentimento mi svuota la testa. Come questi giorni di agosto, che hanno riempito del tutto il vuoto che c'era. Nessun amico per chiacchierare la sera, e nemmeno un pensiero d'assecondare. Vuoto bianco.



Le stazioni affollate d'estate assomigliano ai miei capelli appena grigi: un fascino consolatorio per qualcosa di caotico e solare che scomparirà prima o poi. E puzza di morto intorno, così non mi restava che pensare a posizioni goderecce tra cosce, peli e schiene immense illuminate da lampadine incandescenti.

Un corpo disegnato forse da Tiziano mi attrae facendomi scivolare in locande oscene, di pensieri e desideri, coriandoli e carezze, che al culmine mi dimentico pure me stesso. Esco tra pozzanghere, risaie, comunque acque basse di melma, che mi fanno dimenticare lo sporco di lusso appena vissuto. Alla fermata dell'autobus una bambina con le gambette penzoloni soffia sbuffando i suoi capelli biondi a intervalli regolari. Il mondo tornava alla normalità; l'odore di donna tornava nel pozzo lurido e bello della sua giovinezza. Ché pari al suo dolore potrebbe non bastare il mio né quello d'altri, appena sentiti, nell'afa dei ricordi. A lei è stato tolto il dubbio del bene e del male: quest'ultimo disegnava la sua storia neonata e anche di più, fino alla sua fuga, fino alle mie braccia. Fragili e nervose sì, ma affatto malvagie e per niente ricattatorie. Povera ragazza, le sue cosce aspettavano mani di lino, e il suo seno cotone d'oriente; la sua bocca ruvide labbra meno vecchie di prima.
Questo è stato, e ora dichiara felicità senza imbarazzare le infelici vecchie amiche che non sanno più scopare con gusto. Nemmeno in agosto.



lunedì 27 agosto 2012

sogno

La notte sento un modo impazzire, e donne che fuggono nude dai loro letti morbidi. Poi il cielo nero che copre le mosse maldestre del carnefice clown. Nessun testimone. Nessuna salvezza. Quattro parole urlate alla carlona davanti alla solita platea assonnata. Silenzio. Cenere cadente sulle teste e seni cadenti su ventri salati. Amore vieni a prendermi, scaccia questa folla idiota che staziona davanti alla nostra storia.

Potrei scrivere di cose così per interi mesi, e poi? meglio lavorare sulla realtà: opaca realtà che risparmia i nostri tormenti lagnosi. Nell'altro post avevo tentato un gemellaggio col blog di un mio amico. Non sapendo cosa scrivere in queste giornate non allineate, e ognuna in una bolla diversa, comunque lontane dal mio solito mondo, insomma, sapendo di mantenere il compito ho cercato di avvicinarmi a qualcosa. Qualcuno. Un amico. Un sorriso. Malattià di gioventù che torna sempre a fine estate, e lascia alle mie gambe e alle mie parole un dolore di muscoli irrigiditi quasi sin dentro le ossa.

Ho letto di un signore che ha quasi un secolo sulle spalle parlare di vita con un'eleganza invidiabile. I giorni come palestra dove esercitare passioni, conoscenze e dolori; senza sprofondare nè ammainare alcunchè. Ammirare queste persone, ecco il mio intento.

giovedì 23 agosto 2012

anima

Per amarti che ti lascio andare...ecco una frase a cui attaccarsi per continuare a vivere con dignità. Riguarda me, te e voi, e senz'altro le cose della vita che ti bloccano per secoli; ti fanno fissare con dei pensieri orrendi, o dolcissimi, a cui ti affezioni come un incallito erotomane fa con i siti porno, notte e giorno. E no, qui serve un fiato aereo sulle nostre teste dense di troppo, e per niente facili nel continuare a vivere con un grammo di saggezza. Uno scrupolo di non sbagliare granché, ma solamente non azzardare, da sempre. Dall'asilo con il primo amore, fino alla vergogna assurda di non dire a nessuno, o quasi, che ciò che ti ha salvato da un anno orribile è stato, insieme alla tua famiglia dorata, lo scrivere come un forsennato. Sentendosi bene, anche dopo dolorose righe di ammissioni e svelamenti.
Lasciamo andare alla deriva questa barca di vetroresina un po' arrugginita e prendiamoci tutte le storie interessanti che ci sono in giro; da metterle nello zaino per attraversare le strade dove inciampare la sera, a stomaco vuoto e con il cuore intirizzito.
Non credo sia chiaro, ma cosa  è stato finora di me chiaro, diretto? quasi niente. Allora comincio ora: confesso di avere un paio di sogni nella sacca. Il primo sta nei miei occhi, il secondo sta sbocciando e presto lo dichiaro.
Intanto penso a quell'atleta somala morta in mare e non so cosa dire, come soffrire. non so neppure come fare a tenere salda l'anima al suo originario terrore, che poi col tempo per miracolo è diventata una bella cosa a cui ricorrere ogni notte, prima del subbuglio.

così faccio adesso, mentre tutti boccheggiano e nessuno mi ama, rinuncio e non trattengo: ti dono il mio mantello.

lunedì 20 agosto 2012

viaggio


Mi sto obbligando a raccontare di questo viaggio appena fatto. Neanche me l’avesse ordinato il dottore. Sì, subito dico che si è trattato di un viaggio non di una vacanza: duemilaseicentokilometri circa, in macchina utilitaria ma comodissima. Ho visto Stuttgart meglio delle volte scorse. Ho imparato almeno una decina! di parole in tedesco. Ho imparato da questa esperienza che devo imparare almeno l’inglese, se sarà possibile già da settembre.

Ho visto la biblioteca più aperta e inscatolata dell’universo; e vedere mia nipote che ci si muoveva sciolta nei suoi anfratti, mi ha fatto piacere. Così come mi ha fatto piacere notare che mia sorella sia diventata tedesca al punto giusto. Rinunciando alla sua italianità al punto sbagliato. Ecco la giusta contaminazione da imitare. Credo. Poi siamo stati al matrimonio di Ale e Patrick, sobrio e allegro, come bilance dinamiche sotto i piedi di persone per bene.



Abbiamo attraversato i migliori parchi attrezzati pubblici della terra. Uno spasso per i piccoletti e in parte anche per me.

 Poi civiltà stradale, urbana in genere. A parte gente che fumava davanti a neonati in un locale. Il locale si chiama spaghettissimo, significherà qualcosa? Certo, loro sono un po’ freddini e schematici, ma stanno avanti, c’è poco da fare. Ho imparato da questa esperienza che voglio andare avanti anch’io: basta romanticismo straccione, da settembre compro a rate un iPhone, o almeno un BlackBerry. E poi finiamola di fare quelli delle culle: i romani, il rinascimento e la bellezza diffusa, e no, così diventiamo solo becchini preistorici o al massimo custodi con la mano a mo’ di mancia. E dài! Una volta arrivato in Italia ho pensato: caspita come sono belle le nostre autostrade, le nostre montagne. Le nostre donne. E mi sono comprato subito la mozzarella alla coop.

Venezia è davvero  senz’altro anche il nome di una pizzeria. Questa canzone mi ronzava nella testa nei tre giorni a Venezia-Marghera. Gran casino quella zona, uno specchio deforme le due città di fronte e cariche di esplosioni umane e di solventi, come in una giostra perversa.



Una mia foto del mercato del pesce, Venezia.


Ho capito che Treviso non è soltanto quella dell’ex sindaco sceriffo; è bella e viva almeno quanto la mia tenera moglie.

Ravenna di sfuggita ha lasciato una lapide di ricordo sulla mia Fuji.


Poi la fatica della strada tosco-emiliana con più curve che auto. Prima c’era stata l’inquietudine di spettri felliniani che m’inseguivano sulla bassa deserta.

Arrivato a Grezzano, sbagliando strada per Marradi - vabbè tanto a Campana i suoi paesani non l’hanno mai considerato - dove ho abitato un inverno di tanti anni fa; una volta davanti alla casa con sottostante emporio, ho fatto pace col fesso che ero: mi ero fissato con quel periodo, mitizzandolo nemmeno fossi stato a Woodstock insieme a De Andrè, che oggi mi appare solo un tassellino dell’enorme costruzione in lego che è stata la mia vita. Caspita, ne ho fatto di esperienze, con più coraggio e con più successo. E basta! Così non ho chiamato Ricci, che tanto non mi ha mai risposto alle mie mail di giubilo di questi anni. Eh!

Sceso a Firenze ho capito che, avendoci vissuto un po’ di tempo, forse avrei dovuto vivermela di più fisicamente e non soltanto con i gas dei sogni ad occhi aperti. Quando ho capito che stavo facendo cose interessanti e uniche, ma a quel punto vivevo già a Roma. Era il ’92.

Ho rivisto il più bel pub del mondo occidentale: l’Irish pub di Piazza s. Maria Novella. Lì ieri abbiamo abbondato di scatti fotografici, almeno quanto le cose fatte intorno a quella piazza. Era il ’90-’91. Palle di neve incluse. Film di Greenaway pure.

Infine, il buio autostradale che mi proiettava davanti al parabrezza sporco ogni tipo di novità da catturare o vivere, per quanto qualche idea sul da farsi già sta nella mia anima gravida .

sabato 4 agosto 2012

diario balneare di mio cugino Arturo (ultima)


Controlli se hai chiuso il gas e tocchi la foglia di basilico, così, toccandola con il ruvido palmo della mano, il giardino è salvo. Saluti in silenzio il glicine poco dopo aver abbassato per l’ennesima volta le tapparelle. Cugino caro così non va, stai teso come un cavo d’acciaio di una lurida nave. Invece pensa al verde disteso ai lati dei tuoi occhi, annusa l’aria di vacanza che trasuda dalle magliette oscene di certi tuoi amici; anche se loro hanno fatto carriera e guadagnano almeno tre o quattro volte quello che guadagni tu. Ma che fa? Tu hai svolazzato in giro per l’Italia per tutti gli anni novanta con sogni che traboccavano allegri da quelle tue, e solo tue, tasche vuote. Ecco, le tasche sono ancora vuote, l’Italia è ferma lì e tu stai ancora a centrifugare pensieri e parole nella tua indenne coscienza. Embè, non è mica poco. In questi giorni hai fatto qualche bagno, incontrato amici e domani te ne vai a fare questo viaggio che buca l’Italia e arriva in Europa. Quella che vorresti avere davanti casa, o nel senso civico di certi conterranei maleducati. Ma che ci puoi fare? Mica hai sulle spalle la coscienza civile di un paese, non sei più pasoliniano, oramai. Sei altro: uno che spinge il pensiero verso giardini contaminati e profumati, senza nani in giardino. Neppure con giganti in salotto, se è per questo. Stai come un rospo senza acqua poco prima di un temporale, e ti agiti di elettricità con il cuore gonfio in gola.

Cari amici oggi finisce ‘sta collaborazione con mio cugino, e non è detto che non ritorni, tra onde, canzoni e donne magari mi ripresento e gracchio qualcosa per voi.

Arrivederci.



mercoledì 1 agosto 2012

diario balneare di mio cugino Arturo 3


Ma lo sai che poi è andato a vedere Patti Smith? Si è messo seduto alle spalle del palco, visto che doveva solo accompagnare la moglie al concerto; che poi l’ha pure salutata all’americana mentre spettinata e bella passeggiava leggera all’estremità del palco. Lei, quella che aveva visto in tante foto di Mapplethorpe anni fa. E già, quello si fissa col passato e non ne esce più. Ecco perché mi ha chiesto di scrivere qualche riga su questo blog. E io accetto. A me piace dire di sì, credo faccia bene al cuore. Dell’orgoglio non m’importa, nemmeno del male che si traveste da lamento per poi precipitare in un pozzo nero e giallo, senza aria. No, a me piace giocare coi bambini, a terra, tra loro, con qualche costruzione o libro da trasformare in mezzo per abbracciarli senza stringere né soffocare. Quello mi vede come uno che chiacchiera senza aver combinato mai nulla. Hai ragione cugino bello, a me, dentro questa bolla di vita leggera, piace restare fermo ad osservare le bandiere dei modellini dei galeoni, nella vetrina antica del negozio di fronte al mare. Dopo l’arco. E mo’ dovresti saperlo e quindi non mi chiedere niente e lasciami andare verso questi giorni di vacanza col sole in tasca. Salutami la tua dolce e unita famigliola, e pure quegli amici di cui tanto ti vanti; quando devi prendere le distanze da tante realtà che detesti e che pure ti tocca bazzicare. Caro mio il tempo scopre la verità, e tu scoprirai tra un secondo un mondo contaminato da parole e carezze. Che già c’è, devi solo amarlo di più. Vabbè, iscriviti pure come uditore al corso di lettere, ma dormi sereno e fatti consigliare; non restare fermo a urlare dentro sogni stretti stretti, e bui. Acchiappa una nuvola e lasciati volare.