Non so perché mi ero messo con
quella. Di certo quell’estate, almeno fino a luglio, è stato tutto e solo amore
e qualche nuvola. Sapevo che il padre spingeva per farla entrare in banca, ma,
questo, fino all’ultima inginocchiata d’amore puro per me, non pensavo fosse così
imminente. Invece. Mi saluta con un ultimo bacio perfido il trenta luglio “vado
negli steitz con mia sorella, là ci aspetta un cugino, ci vediamo al ritorno”.
Così non è stato, poiché al ritorno dalla vacanza stava già seduta dietro a una
scrivania lucida e sgombra da inutili cartacce d’ufficio qualunque: solo un
computer tutto nuovo per le sue diaboliche stime. Fare i conti in tasca ai
correntisti, decidendo a chi dare un po’ di speranza liquida e a chi togliere
la casa solida. Ecco quello che faceva. Lo so, ché me l’ha detto Monica la sua
amica. Ricordo che prima del trenta luglio stavamo sempre a fare l’amore in
spiaggia, o a casa sua. Una volta l’abbiamo fatto pure nel retro del negozio
del padre, tra gli scaffali metallici traballanti e pieni di bulloni e pistoni.
Il puzzo di olio e di grasso era una droga eccitante per le sue perversioni.
Una volta al mese circa si divertiva con le perversioni. Era una tipa complicata
lei; a me bastava soltanto averla addosso, e sentirla tesa verso la mia pelle.
Fresca. Tutta per me. Poi dal trenta luglio faccio finta di niente: niente, sta
in vacanza con la sorella, non è che m’importi tanto sai, vedrai che quando
torna ricominciamo. Verso la fine d’agosto preferivo dichiarare alla
popolazione “ quello stronzo del padre c’è riuscito a sottometterla ai giochi
di famiglia”. Verso il venti settembre, vedendola attraverso la grossa e
glaciale vetrata della banca, col suo completino nero e annessa collana enorme di
pietre sul seno, sono crollato e ho capito quasi tutto. Dovevo confessarlo al
più presto. Agli amici. A mio fratello. Non ce la facevo più con la recita di
quello che aspetta sereno davanti al bar che la donna torni affamata di
sentimenti, e che faccia la pazza per riconquistarti – così funziona da noi, ai
maschi non passa per la testa di corteggiare o quelle trame lì – niente, ho
preso il telefono e l’ho chiamata sul cellulare: ma non dovevamo andare alle
terme insieme? Come se in quei due mesi lei non ha pensato che a ‘ste cazzo di
terme. Infatti: alle terme ci sono stata, con mia sorella, e che belle che
erano. E tu quando ci vai? Come se non fosse successo niente. Come no, il prima
possibile, borbotto io. Come se non fosse successo niente neanche a me.
Insomma, questa comunicazione degna dell’era breznievana ha seppellito ogni
speranza di riaverla tra le braccia a ogni ora del giorno. Nella mia testa è
successo all’improvviso. Nella sua chissà. In fondo chi ci aveva mai pensato a
queste conseguenze tristi, fino al trenta luglio. Nel salutarla le dico: sai,
magari un giorno si va a vedere quel concerto che tanto aspetti. Questo debole
invito neppure è arrivato alle sue orecchie, visto che stava già a sessanta all’ora
sul suo nuovo scooter, e alla curva magari era scesa a trenta, immagino, ma
solo perché c’era la curva dopo il viale di casa sua, e a lei la prudenza ora serviva.
Ecco, sono arrivato a suicidarmi per
questo motivo. Non immediatamente dall’abbandono, no, verso dicembre, poco
prima del Natale. Il venti dicembre del duemila. Già, per me è stato un
suicidio ma per gli altri, ancora oggi, che sono passati più di dieci anni, si
è trattato di un tentato suicidio.
Per me non cambia. Io mi stavo suicidando e avevo tutto l’occorrente per farlo.
La procedura era completa. Pure la lettera avevo scritto, e poggiava di sbieco
sul tavolo marrone. Certo, mi dovevo documentare meglio sulla quantità di
pasticche per la pressione che avrei dovuto trangugitare, però, cari miei, non
è che potevo pensare a tutto io. Un dettaglio ha cambiato tutto, facendomi
diventare all’istante un’altra persona. Al risveglio intendo. Vedendo quei faccioni
pallidi ricurvi su di me, mi sono ritirato e ho continuato a dormire per
un’altra mezz’ora ascoltando le chiacchiere che facevano preoccupati per il mio
stato. Mio fratello sbuffava e cazziava mia madre; così, per alimentargli per
bene il senso di colpa. Mio padre entrava e usciva chiedendo ogni trenta
secondi a chiunque passasse dal corridoio: ma quando si risveglia? Quell’altro
mi aveva detto al massimo in un’ora. Fa niente che l’altro sì era il medico ma,
quest’altro, era il tecnico dell’aria condizionata. A papà! La sua ansia mi ha
fatto sempre incazzare e sorridere allo stesso tempo. Dipendeva se dovevo difendere
mamma o sfottere soltanto lui. Mia zia durante il mio pre-risveglio, da come
masticava la gomma, capivo che aveva altro da fare. Magari i regali, o la spesa
per la cena della vigilia. Quei pesci preziosi da ordinare; insomma, non voleva
essere là, davanti al mio corpo allungato su quel letto bianco, ma ci doveva
stare. È sempre mia sorella, pensava
tra un’occhiata speranzosa verso i miei occhi e una penosa, guardando l’andirivieni
di mio padre. Lei, quella che s’inginocchiava davanti a me fino al trenta luglio
non c’era, questo magari l’avete immaginate da soli. Questo coro dolorante
comunque mi ha lasciato intendere che, seppure non fossero loro minimante la
causa del suicidio, erano allo stesso tempo una spinta a continuare a vivere.
Da un’altra parte però, in un’altra città: Padova. Università, facoltà di
psicologia. Tre esami, poi Bologna. Corso di giornalismo. Prima rata pagata, e
poi basta. Treviso. Innamorato pazzo di Luisa. Tre mesi. Firenze, dove tuttora faccio
il cameriere e organizzo concerti. Ora, a casa dei miei, agosto duemilaedodici.
Renata è appena uscita dalla stanza. Inginocchiata, mi ha fatto fare uno scatto
all’indietro, e io che volevo soltanto chiederle di andare al cinema, stasera.
Vabbè, come prima visione non era male.
Sono tornato come ogni anno per farmi
la settimana a casa di mamma e papà. Mio fratello vive a Roma. Domani ci raggiungerà
anche lui, insieme alla compagna e ai tre figli maschi. Tutti al mare. Ci
saranno grandi mangiate di pesce e in quelle occasioni mio padre sarà il principale
protagonista, prima nel preparare, subito dopo nel divorare le pietanze e,
infine, ubriacandosi orgoglioso con la falanghina fresca fino a tarda notte, così
per tenerci tutti all’erta e contenti. Tutti sotto la pergola di pizzutello, che
ogni anno si fa sempre più stretta. Mia madre si commuove in cucina, mentre fa
tutto quello che non sa fare il marito cuoco, e spera come una bambina che duri un anno
quella cena, quei sorrisi e quei racconti venati di umorismo. Quest’anno ho
certe cose da raccontarvi, cari miei. Questo si pensa tutti prima di cominciare
la battaglia contro i pesci e molluschi a tavola. Non è male quest’atmosfera.
No, è la cosa più antica a cui non rinuncerei mai.
Stanotte poi davanti a questa foto di
me bambino di otto anni, con le figurine in una mano e l’altra che scompare
dietro al corpo giovane di mia madre, sento, stanotte vedo e sento ogni
scintilla che ha formato la mia vita fino ad oggi. Tutte quelle scelte che
hanno determinato cambiamenti spietati, storie magnifiche e sbagli poetici. Ma non
so commuovermi. Non so vedermi bambino e piangere come si dovrebbe. Aspetto. Quando
all’improvviso sarò contento per dieci minuti di fila, senza interruzioni,
senza ripensamenti. Allora neppure il ricordo di Luisa con le sue cosce sode,
oppure gli occhi verdi di Mariella, basteranno a distrarmi dagli attimi di
assoluta gioia che mi fanno vivere e morire ogni giorno. Da quel giorno.