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lunedì 20 agosto 2012

viaggio


Mi sto obbligando a raccontare di questo viaggio appena fatto. Neanche me l’avesse ordinato il dottore. Sì, subito dico che si è trattato di un viaggio non di una vacanza: duemilaseicentokilometri circa, in macchina utilitaria ma comodissima. Ho visto Stuttgart meglio delle volte scorse. Ho imparato almeno una decina! di parole in tedesco. Ho imparato da questa esperienza che devo imparare almeno l’inglese, se sarà possibile già da settembre.

Ho visto la biblioteca più aperta e inscatolata dell’universo; e vedere mia nipote che ci si muoveva sciolta nei suoi anfratti, mi ha fatto piacere. Così come mi ha fatto piacere notare che mia sorella sia diventata tedesca al punto giusto. Rinunciando alla sua italianità al punto sbagliato. Ecco la giusta contaminazione da imitare. Credo. Poi siamo stati al matrimonio di Ale e Patrick, sobrio e allegro, come bilance dinamiche sotto i piedi di persone per bene.



Abbiamo attraversato i migliori parchi attrezzati pubblici della terra. Uno spasso per i piccoletti e in parte anche per me.

 Poi civiltà stradale, urbana in genere. A parte gente che fumava davanti a neonati in un locale. Il locale si chiama spaghettissimo, significherà qualcosa? Certo, loro sono un po’ freddini e schematici, ma stanno avanti, c’è poco da fare. Ho imparato da questa esperienza che voglio andare avanti anch’io: basta romanticismo straccione, da settembre compro a rate un iPhone, o almeno un BlackBerry. E poi finiamola di fare quelli delle culle: i romani, il rinascimento e la bellezza diffusa, e no, così diventiamo solo becchini preistorici o al massimo custodi con la mano a mo’ di mancia. E dài! Una volta arrivato in Italia ho pensato: caspita come sono belle le nostre autostrade, le nostre montagne. Le nostre donne. E mi sono comprato subito la mozzarella alla coop.

Venezia è davvero  senz’altro anche il nome di una pizzeria. Questa canzone mi ronzava nella testa nei tre giorni a Venezia-Marghera. Gran casino quella zona, uno specchio deforme le due città di fronte e cariche di esplosioni umane e di solventi, come in una giostra perversa.



Una mia foto del mercato del pesce, Venezia.


Ho capito che Treviso non è soltanto quella dell’ex sindaco sceriffo; è bella e viva almeno quanto la mia tenera moglie.

Ravenna di sfuggita ha lasciato una lapide di ricordo sulla mia Fuji.


Poi la fatica della strada tosco-emiliana con più curve che auto. Prima c’era stata l’inquietudine di spettri felliniani che m’inseguivano sulla bassa deserta.

Arrivato a Grezzano, sbagliando strada per Marradi - vabbè tanto a Campana i suoi paesani non l’hanno mai considerato - dove ho abitato un inverno di tanti anni fa; una volta davanti alla casa con sottostante emporio, ho fatto pace col fesso che ero: mi ero fissato con quel periodo, mitizzandolo nemmeno fossi stato a Woodstock insieme a De Andrè, che oggi mi appare solo un tassellino dell’enorme costruzione in lego che è stata la mia vita. Caspita, ne ho fatto di esperienze, con più coraggio e con più successo. E basta! Così non ho chiamato Ricci, che tanto non mi ha mai risposto alle mie mail di giubilo di questi anni. Eh!

Sceso a Firenze ho capito che, avendoci vissuto un po’ di tempo, forse avrei dovuto vivermela di più fisicamente e non soltanto con i gas dei sogni ad occhi aperti. Quando ho capito che stavo facendo cose interessanti e uniche, ma a quel punto vivevo già a Roma. Era il ’92.

Ho rivisto il più bel pub del mondo occidentale: l’Irish pub di Piazza s. Maria Novella. Lì ieri abbiamo abbondato di scatti fotografici, almeno quanto le cose fatte intorno a quella piazza. Era il ’90-’91. Palle di neve incluse. Film di Greenaway pure.

Infine, il buio autostradale che mi proiettava davanti al parabrezza sporco ogni tipo di novità da catturare o vivere, per quanto qualche idea sul da farsi già sta nella mia anima gravida .

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