Mio padre non aveva parole in bocca.
Nei suoi occhi guizzi d’intuizioni, senza parole. Ne possedeva poche di parole,
invece tante espressioni dialettali che facevano sorridere o inorridire, a
seconda del tempo o delle persone che aveva davanti. Nessun libro letto, tante
riviste divorate. A me restano parole oscure da definire e digerire. Non ho
voglia. Non ho fiato. Ora bizzarre nuvole che sfiorano i palazzoni di Roma.
Intorno trema tutto, io rimango in silenzio e aspetto le canzonette della sera.
Ho sprecato ore e ore in edificazioni
su terreni fangosi e per niente sicuri. Donne con la pancia ingolfata da
merendine e reality, con unghie splendenti, aspettano che mi sfregi la faccia
solo. Mi offrono dei bei coltelli luccicanti di griffe.
Sono un topo in trappola, nel regno
delle zoccole buone. Il gallo tiene tutti sotto controllo palpeggiando i punti
deboli di ognuno.
Sono solo sul ring, e non c’è nessuna
spugna zuppa d’acqua contro la mia faccia; e già vedo gambe in spalla scappare
senza nemmeno sporcare.
Avevo già visto, avevo già pianto.
Allora meglio rileggere le ultime del dottor Kevorkian dal tunnel celeste.
Accolgo dritte su come alleggerire la mente, poco prima dell'esplosione estiva.
In quei pomeriggi
dolciastri d’agosto o di luglio, che oggi non so più, in quei lunghi e
circolari pomeriggi senza vento, noi si amava Mariella. Eravamo in tre. Gianni,
Enrico e io. Una volta battuto i cento scalini e passa che ci portavano in
collina da lei, dove spesso si superavano vecchiette nere nere coi capelli
nascosti che formavano un’enorme cipolla grigiastra: una volta ho visto mia
nonna con i capelli sciolti e per poco non svenivo alla vista di quella chioma
che le raggiungeva sicuro i polpacci, forse anche le caviglie.Il mio sguardo ladro attraverso la stanza e
il bagno durò mezz’attimo, poi per scacciare l’immagine di mia nonna capellona
dai miei occhi mi sono messo a pensare a Mariella. Insomma, dopo quell’infinita
scalinata si arriva davanti a un cancello arrugginito da secoli di piogge, che
allagano gli amanti da sempre; a trenta metri c’è la casa fatiscente ma bella
di attese, della famiglia di Mariella.
Dentro la madre cicciona sta già mangiando un’intera
cesta di ciliegie. Noi col pettine di Enrico tra le mani siamo quasi pronti:
gli ultimi ritocchi sulle chiome nere, prima del duello finale per Mariella. Gianni
e io con le mani grattiamo i capelli crespi e brillantinati di Enrico. Che ride;
ché lui rideva sempre quando stava con noi, mica come quando stava con quel teppista
triste di Carlo. Enrico aveva una risata rilassante che piegava ogni
aggressività, e questo poco prima del duello appariva disarmante a me e a tutto
il quartiere collinare.
Eccoci al cospetto della
principessa Mariella, davanti al suo castello di tufo e pietre, da cui sentivamo
provenire la canzone di Michael Jackson. Un saluto e già stiamo ballando tutti
insieme dentro a un salone lungo e mezzo buio; ma la luce che riesce a passare
dalla finestra è più luminosa di quella di fuori. L’odore di fagiolini bolliti rallenta
l’esplosione di ormoni, che il passaggio della sorella di Mariella, abbracciata
a un marine creolo, procura ai nostri occhi, che intanto si occupano di
disegnare il percorso dei due fino al piano di sopra. Certo che gli ormoni non
è che scappassero tutti verso l’alcova del primo piano, e no, ché con Mariella
beata e ballereccia tra di noi, questo non era proprio possibile; invece ce li
siamo passati da buoni amici, di bocca in bocca, di tasca in tasca, fino a
gonfiare ogni cosa. La madre immola la trecentesima ciliegia, e con gli occhi segue
i nostri passi. Oramai la collina di noccioli ci separa dal suo mondo, mentre i
seni di Mariella ci costringono al suo, di mondo, dorato e levigato, da chissà
quale mani, o quali cuori. Il duello lo sto di sicuro vincendo io con quei
movimenti da molleggiato che metto in pista, e che da sempre sono la mia carta
vincente. Da sempre, ma non in quel momento. Infatti, proprio allora vedo Gianni
accompagnare Mariella nel giardino di sotto, tra mandarini, limoni e api, e
nello spazio dello stesso sguardo vedo pure le loro lingue che si presentano felici.
Io, Enrico e la madre di Mariella in quell’attimo formiamo un triangolo
ridicolo, immobile di musica degli Immagination, e vorticoso di nervi tra
l’infuocato piano di sopra e il mieloso giardino di sotto.
La cagnetta dorme sotto
le cosce enormi della signora.
Pagare, c’è da pagare il conto di
questi anni di illusioni quasi gratis per noi. Mutuo, gas e multe. Sono stati
giorni di tasche vuote come quando adolescente campavo d’aria. Ecco, a volte mi
sento una bolla d’aria e me ne vado rotolando tra nuvole e colline in cerca di
erba fresca di pensieri.
Ci sono fatti che ci inchiodano alla
realtà per ore e ore, anche di sabato, fin dopo il tramonto. Un televisore
sputa fuori senza soluzione di continuità quaderni immolati sull’asfalto ancora
più nero. E noi paralizzati come il divano, e con una voglia di stare zitti
fino al domani, bloccando per un minuto le parole amare di sangue.
Ieri mentre facevo certi esercizi di canto,
sentivo dei suoni interni, delle vibrazioni, che coprivano tutta la stanza.
Senza parole eravamo tutti migliori. Alla fine avevo voglia di abbracciarli
tutti, quelli del corso. Una bolla d’aria. In quegli attimi tutte le
convinzioni che fabbrico di solito all’alba, e che mi servono per corazzarmi
contro una realtà d’incertezze e di parole vuote, si sono sedimentate per bene
lasciando spazio al leggero presente. Per il resto nessuno che usi parole piene verso di me, ma, a dire il
vero, nemmeno per gli altri lo fanno, mi sa. Spesso sono frasi di seconda mano
e a volte così vuote che ne sento anche il rimbombo. Allora mi metto a
riempirlo quel rimbombo: faccio il clown.
Ridurre le aspettative, leggere un
libro nuovo, andare al cinema, toccare la pietà di Michelangelo. Osservare il
piacere prima di toccarlo. Senza affanno, come un lord alle prese con dei
simpatici selvaggi chiassosi e muscolosi. Come Nanni Moretti nel circo di
Cannes.
Cercare le parole necessarie per
raccontare, evitando di dichiarare, prima di narrarlo, le cose che prendonoforma nel tempo che gli hai dedicato. Non
avere paura del buio né degli altri: farsi un tuffo nell’acqua ghiacciata di un
nuovo concetto di diversità. Facendolo non sentirsi meglio del diverso, ma solo
un po’ più contemporaneo e sereno del tuo dio nazista.
Arriva il pomeriggio e mi ricordo di
un complimento che mi ha fatto vedere terra nuova, poi sorrisi famigliari che
sbocciano tra i gerani al balcone e, come presenza improvvisa e deflagrante, un
libro di racconti con tante parole inedite.
Questo basta per salvare dal dirupo un
purgatorio di fine settimana?
Venerdì alle 14.49 si è decisa la mia
stagione. Da questo sottoscala chiamato bla bla della sera, in questa mattina
dove le migliori idee vengono fagocitate dal trambusto cittadino, prima di
allora, e solo per voi, dichiaro la resa al tempo che sfugge fesso. Di quello
subito dopo frasi che tiri fuori nemmeno fossi un’ostetrica alle prime armi,
che fatica però, amico mio, non avere uno straccio di risposta. Eh! Di quel
vuoto che segue a ruota prima un’ammissione forte forte, poi, come cenere
inutile di barbecue, il silenzio che si allontana verso il primo piano. Tutto è
leggero in questo quarto di secolo. Tutto fugge infilandosi tra un mi piace di facebook e un twett
rapidissimo sulla propria unghia di fresco smalto.
Non ci sto.
Anche se, forse un po’, mi dispiace poco
poco. Non esserci intendo, altrimenti perché continuare a sentirne la mancanza
anche in una splendida e accogliente domenica di maggio?
Ieri sera mi sono innamorato di una
famiglia numerosa. Lui egiziano, lei polacca, e cinque figli nell’arco seminale
di otto anni che giocavano davanti a noi. Parlavo con loro e mi sentivo in un
film di Kiarostami, doppiato bene;o a
Gaeta nei primi anni sessanta, o a Bombay fra vent’anni. Mi sentivo bene:‘ste
cazzo di sovrastrutture che meno male si sbriciolavano davanti all’ottovolante
che rifaceva i capelli a tutti questi bambini sorridenti. Poi nel letto stanco di pensieri e attese, un
sogno di spavento come al solito verso l’inverno: e lasciatemi stare beato con
una birretta e tutti i fantasmini con gli occhi spiritosi a sostenere l’afa di
questi giorni.
Fatevi fottere, e godetene nel
frattempo. Che il tempo bello si nasconde tra i capelli neri di Adim, che
desidera il futuro e vorrà cominciare a mangiucchiarselo per bene già da questo
fine settimana.
mi dimetto un po' da questo sottoscala silenzioso.
ciao
Ci sono momenti durante questa giornata
in cui mi commuovo al pensiero dei miei pensieri, a quei desideri minimi di
volontà di stupire pure le tapparelle chiuse. In questo giorno poi, quando la
mattina sembra lunghissima, e il pomeriggio inarrivabile, si è creato qualche
momento di solitudine gioiosa. Dura poco. Infatti, la malinconia la trovo che
si è già apparecchiata a tavola. Io dal divano la evito. Un libro di Rodari mi
sostiene. Qualche ricordo di piacere, una canzone romantica alla radio. Nessun
demone al portone. Ma non basta. Mi sussurra parole tenere, ma che non si
spezzano nel tratto tavolo-divano. Cambio posa, mi rimetto al mandato di
ragazzo sensibile, un po’ sfortunato, poco determinato. L’aura della genitrice
debole lascia cadere una piuma. Si posa sulla sedia vuota. La malinconia sta in
braccio a me. Dal caminetto scende polvere sconosciuta. I miei occhi abbassano
la guardia, le pieghe ai suoi lati dichiarano pace. I cani abbaiano di più per
un secondo, poi tutto tace: il ticchettio del carpentiere si prende tutta la
scena periferica assolata. Sopra i tetti e tra gli alberi o vicino ai lampioni,
adesso solo dei riflessi di pulviscolo colorato. La mia fortuna prende un altro
caffè e si sdraia pudica sul divano. Questo non è ancora il giorno adatto:
tutto necessita di tempo e spazio per l’adattamento, altrimenti il caos è
sterile. Nessun calore poi spinge verso il cambiamento. Rimangono alla finestra
statiche considerazioni di tregue utili agli altri; ai capi, ai ricchi, ai
nonni spariti su barche corazzate di storie vecchie a cui non crediamo più.
Dimentica. Dimentica il vuoto dei
silenzi. E le volte che hai capito troppo. Il volto di pietra di tuo padre; le
parole che scappano nell’aria di tua madre. Tu sei nascosto e guardi e senti
tutto. Pure l’odio che le pareti trattengono a stento.
Dimentica quelle mani, quegli occhi e
i soldi che non hai per fermare quel vortice blu. Ti senti povero, e non solo
per mancanza di averi, ma soprattutto per quella paura di spegnerti stanco,
senza lottare. E quelle scale bianche non hanno bisogno di piedi scalzi da
sostenere. Vogliono solo sentire parole scendere lente di respiro, e sorprese taglienti
di ferite necessarie ad aspettare domani.
Dimentica pure tutta quella bella
ignoranza che ti porti a spasso tra mura antiche e libri profumati di oggi.
Quello sei tu: delicato e annoiato dentro a un tempo da masticare ancora senza
mare.
Oggi ho bevuto quasi un’intera
bottiglia di falanghina. Ho mangiato come un dio. Festeggiato come un pascià.
Altre cosette intime che non sto a dire. Niente retorica: Grillo è la novità,
una volta le prugne sapevano quasi di prugne, eh! No, oggi, in questo giorno
speciale, di solitudine e amore, di tensione e silenzio, io vedo la mia vita
sgargiante. Potrei vivere pure povero e con tachicardie, ma salto tra le vostre
convinzioni come un grillo vero e bacio in bocca le farfalle. Io vedo tutto,
anche i tuoi punti neri. Anche la tua innocenza. E poi ho letto Dino Campana,
mica Montale, e tutto il suo ermetismo che sa di tappo. Pardon, premio nobel,
ossequi a voi discepoli come polli d’allevamento, io scelgo sempre il peggio.
Non so fare altro. Vedermi morire davanti a una fila di ombrelloni chiusi, ecco
il mio testamento che sa di selenio. Amore mio, perdonami e portami a Parigi.
Fammi toccare il letto di Van Gogh, e i capelli di Tina Modotti. Portami in
braccio fino in Patagonia, e non scomodare Chatwin.
Una fila di amici davanti al mio
letto, e nemmeno un pidocchio di nemico: cazzo, meglio di Berlinguer.
Delirante sogno di fuga, e non so
deandrè, gli amici fragili li accarezzo perché sono veri di ossa e sangue.
Nessun dolore borghese da espiare, no, io sono uno straccio di vicolo mezzo
avvizzito. Embè? Toccami e ti darò quel che vuoi, una frase, un bacio, un
progetto per sognare. Chiamami.
Parole, parole consumate senza luci
naturali, vengono fuori come zampilli d’amore che piangono davanti agli occhi
di Tiziana, ragazzina nomade che vaga da due anni nei boschi piatti di una Roma
stiracchiata e lontana.
Non bevo più, mangio meno. Lo pensavo
convinto fino a tre ore fa. I discorsi, e certi discorsi ancora di più, vanno
terminati per bene; altrimenti il veleno si spande e spreca la vita. Non avevo
paura e non avevo remore: ogni uomo con la propria ombra. Ogni donna con la sua
brace. Mi vergogno un po’ di certi desideri, ma non mi pento per niente della
mia realtà. La faccio brillare a suon di pezzi di musica italiana, mai abbastanza
amata, mai del tutto ascoltata. E lei? Mi sbatte dentro a una sceneggiatura che
potrebbe intitolarsi: Giobbe di giorno, coglione di notte. Nessuno che blocchi
tutto il circo, tutti che scappano inseguiti da niente: che nemmeno dichiaro
guerra e già lì che mi tocca fare patti di non belligeranza per non perdere
mille euro al mese. Mille euro al mese! E che i passi lievi, le mosse giuste, e
tutte quelle capacità di adattamento sublime perché svenderle al primo coglione
che capiti?
In queste serate di ruggine rossa non
mi resta che pensare ai miei figli, alle loro incredibili capacità di stupirmi.
Mi farò sputare fuori domani all’alba
da un sogno di slanci e baci.
Un anno di merda. Un anno pesante
senza tregua. Un anno di graffi e schiaffi, senza una vera guerra. Un anno finito
che mi ha sbattuto a terra, rompendo ogni ossa a parte la testa. Nessun
colpevole, tranne che me; ma vedo occhi serrati e labbra secche davanti ai miei
incubi; orgogli frantumati lungo vie ancora luminose, dove passeggiare diventa quasi
agonia, con buste della spesa piene di poco, incollate a mani colorate di vene
e petrolio.
Questo veleno ha lo stesso colore dei
tuoi occhi, nella mattina che accoglie piogge e parole feroci. Guardiamoci e
lasciamo uscire il nero che si diverte dentro le nostre bocche carnose. Come ha
fatto Gerardo, tuo cugino, che si è fatto sbattere fuori di casa dalla moglie.
Oramai portava a casa meno di mille euro al mese e i pomeriggi li passava a
bere birre e mangiare noccioline. Poi la sera film porno giapponesi, in lingua
originale. Le poche energie che restavano di certo non le donava alla moglie,
che coi suoi capelli lisci e puliti lo salutava appena la mattina, dopo il
caffè. Quella domenica invece l’ha sbattuto fuori con parole che grondavano
sangue viola; lui ha fatto la valigia, e sentendosi a suo agio in questi anni
isterici, attraversando il salone ha fatto una sceneggiata discreta da salotto.
Poi una porta che sbatte, e il figlio che si rimette con la testa dentro al
nintendo. Una vecchina passa lì davanti con un bustone di cicoria di strada e
sorride serena al pappagallo nel mosaico.
Allora perché sfigurarsi di sera con
gli occhi dentro al pozzo rosso di cianuro e dolore? Meglio sarebbe farsi
crescere i baffi e noleggiare un camper. Come aveva fatto Gino, il tuo ex
ancora amico tuo, che aveva vinto il
camper di seconda mano alla sagra della cipolla trifolata. I primi tempi andavano
sempre in giro per l’Italia, ché i figli urlavano di gioia a ogni data
annunciata: Ravenna, Genova, Rimini, e poi tante altre località attraenti sulle
coste. Poi un pomeriggio, dopo uno schiaffo e un regolamento di conti
inaspettato, si è ritrovato ad apparecchiare per uno nel piazzale dei capolinea
dei bus. Una scatola di tonno e un bottiglione di verdicchio dimenticato nella
dispensa, segnano un inizio che abbraccia una fine pietosa.
Allora perché ridi di tua moglie che
stramazza sempre di più nella stanza, per il disagio che invade ogni angolo di
casa e del cuore? perché non prenderla per mano e provare a passeggiare in
quelle stradine un po’ buie e piene di gerani e odori sereni?
Staresti meglio coi baffi, certo; come
Antonio, che adesso accompagna nei giorni dispari la figlia a scuola. La vede
entrare di corsa nel portone che inghiotte bambini e zaini, e, una volta che
scompare dai suoi occhi, scappa in macchina a sfidare gli attacchi di panico
che lo aspettano nel sedile accanto.
Allora spacca le pietre che aspettano
in giardino di essere divise per poi trovare posto tra rose, ciclamini e odori
vari.
Non volevo venire fino a quaggiù, ma
stamattina mi hanno chiamato, e seppure non volevo, ho dovuto accettare senza
pensare. I primi a uscire sono due
ragazzi robusti con sopracciglia rifatte e magliette nere attillate; dietro due
ragazze bionde con pantaloni stretti e unghie affilate viola, la testa bassa e
con quelle lacrime dorate che si vedono solo in tivù. Una delle due porta una
borsa rosa piena di documenti, sembrano troppi per la loro giovane età. Ora mi
passa accanto una donna con cosce robuste e mi sembra di riconoscerla: provo un
assenso ma sembro invisibile. Intorno sento un torrente scorrere, sarà
sotterraneo che qui vedo solo auto e motorini accoppiati a disegnare una valle
di metallo. Neppure un amico. Non volevo venirci, lo sapevo, ché dopo mi
arrivava il magone e quella voglia di piangere sarebbe svanita alla vista di
chi stava già peggio di me. Come
quella volta sul camion militare che tutti piangevano e vomitavano per il
distacco, tranne me, che il distacco l’avevo anticipato in solitudine, dentro
la cameretta piena di scritte oscene e incazzate verso il mondo. Oggi nessuno è
incazzato ma tutti hanno voglia di essere deboli e ammettere ogni fragilità,
nascosta preziosamente sotto il cuscino fino a stanotte. Ora scendono in
parecchi, forse è un gruppo, una squadra, una classe intera o semplicemente si
ritrovano per caso nello stesso stato e vanno insieme.
Forse ancora non tocca a me e allora
compro il giornale, siedo al bar, dove prendo un caffè con panna. Mando un
messaggio. Osservo la barista. Sembra lontana da quelle persone che scendono le
scale in fretta; questa barista con dei grandi occhi neri mobili e scintillanti,
che non sa neppure del fatto che
stiamo vivendo, mi potrebbe tornare utile tra poco. È presto, meglio gustarmi
il caffè e tutta la panna, che perdermi tra i seni di questa ragazza svelta e
gentile e sicura tra questi tavoli deserti, davanti a una piazzetta che per
metà è parcheggio con strisce gialle.
Sono già in corsa che scappo da
questo posto di merda pieno di gente che non conosco affatto e soffro per
qualcosa che mi stava capitando. Soffro sì, ma già è ricordo che scappa con me;
come mio zio che scappa dal campo di Buchenvald e soffre all’idea di
riabbracciare la moglie giovane dopo un giorno di cammino per le strade devastate
di quell’Italia là. Oggi è di nuovo scassato il mondo e io scappo per non
doverlo dire: sono un’ottimista del bene e sorrido sempre alle persone che
incontro. Come uno scemo di guerra corro verso altre persone, queste sono
stanche di me e del mio ottimismo. Corro e mi vedo sulle gambe di mia madre,
giovane, appare forte nel tenermi per sé. Corro e sento puzza di bruciato di
ferraglia ai lati della strada, sì, è tutto quel che riesco a sentire d’intere
comunità diverse e lontane da me; sì, è vero, non riesco più a pensare davvero bene,
se non di qualcosa che già conosco.
Sbatto contro l’albero gigantesco
davanti al palazzo storico e bello della sua semplicità, con attorno una piazza
tonda che vuole accogliere tutti, un po’ alla volta, tutti quelli che capitano
per sbaglio qua. Mi sdraio allungandomi e sento un odore dolce di sudore. È
mio, lo riconosco, sono ancora qui allora, tra di voi e piantato anch’io nella
piazza che accoglie ma lascia passare, non trattiene nessuno. Non ha senso
farsi trattenere per sempre quando si è liberi solo in movimento. Come gli
zingari. Come i gruppi rock che vanno su e giù per l’Italia a cantare a
squarciagola i sentimenti nuovi.