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martedì 29 maggio 2012

poco fiato


Mio padre non aveva parole in bocca. Nei suoi occhi guizzi d’intuizioni, senza parole. Ne possedeva poche di parole, invece tante espressioni dialettali che facevano sorridere o inorridire, a seconda del tempo o delle persone che aveva davanti. Nessun libro letto, tante riviste divorate. A me restano parole oscure da definire e digerire. Non ho voglia. Non ho fiato. Ora bizzarre nuvole che sfiorano i palazzoni di Roma. Intorno trema tutto, io rimango in silenzio e aspetto le canzonette della sera.

Ho sprecato ore e ore in edificazioni su terreni fangosi e per niente sicuri. Donne con la pancia ingolfata da merendine e reality, con unghie splendenti, aspettano che mi sfregi la faccia solo. Mi offrono dei bei coltelli luccicanti di griffe.

Sono un topo in trappola, nel regno delle zoccole buone. Il gallo tiene tutti sotto controllo palpeggiando i punti deboli di ognuno.

Sono solo sul ring, e non c’è nessuna spugna zuppa d’acqua contro la mia faccia; e già vedo gambe in spalla scappare senza nemmeno sporcare.

Avevo già visto, avevo già pianto. Allora meglio rileggere le ultime del dottor Kevorkian dal tunnel celeste.


Accolgo dritte su come alleggerire la mente, poco prima dell'esplosione estiva.

venerdì 25 maggio 2012

stupore d'allora


kirchner (marcella)
In quei pomeriggi dolciastri d’agosto o di luglio, che oggi non so più, in quei lunghi e circolari pomeriggi senza vento, noi si amava Mariella. Eravamo in tre. Gianni, Enrico e io. Una volta battuto i cento scalini e passa che ci portavano in collina da lei, dove spesso si superavano vecchiette nere nere coi capelli nascosti che formavano un’enorme cipolla grigiastra: una volta ho visto mia nonna con i capelli sciolti e per poco non svenivo alla vista di quella chioma che le raggiungeva sicuro i polpacci, forse anche le caviglie.  Il mio sguardo ladro attraverso la stanza e il bagno durò mezz’attimo, poi per scacciare l’immagine di mia nonna capellona dai miei occhi mi sono messo a pensare a Mariella. Insomma, dopo quell’infinita scalinata si arriva davanti a un cancello arrugginito da secoli di piogge, che allagano gli amanti da sempre; a trenta metri c’è la casa fatiscente ma bella di attese, della famiglia di Mariella.

 Dentro la madre cicciona sta già mangiando un’intera cesta di ciliegie. Noi col pettine di Enrico tra le mani siamo quasi pronti: gli ultimi ritocchi sulle chiome nere, prima del duello finale per Mariella. Gianni e io con le mani grattiamo i capelli crespi e brillantinati di Enrico. Che ride; ché lui rideva sempre quando stava con noi, mica come quando stava con quel teppista triste di Carlo. Enrico aveva una risata rilassante che piegava ogni aggressività, e questo poco prima del duello appariva disarmante a me e a tutto il quartiere collinare.

Eccoci al cospetto della principessa Mariella, davanti al suo castello di tufo e pietre, da cui sentivamo provenire la canzone di Michael Jackson. Un saluto e già stiamo ballando tutti insieme dentro a un salone lungo e mezzo buio; ma la luce che riesce a passare dalla finestra è più luminosa di quella di fuori. L’odore di fagiolini bolliti rallenta l’esplosione di ormoni, che il passaggio della sorella di Mariella, abbracciata a un marine creolo, procura ai nostri occhi, che intanto si occupano di disegnare il percorso dei due fino al piano di sopra. Certo che gli ormoni non è che scappassero tutti verso l’alcova del primo piano, e no, ché con Mariella beata e ballereccia tra di noi, questo non era proprio possibile; invece ce li siamo passati da buoni amici, di bocca in bocca, di tasca in tasca, fino a gonfiare ogni cosa. La madre immola la trecentesima ciliegia, e con gli occhi segue i nostri passi. Oramai la collina di noccioli ci separa dal suo mondo, mentre i seni di Mariella ci costringono al suo, di mondo, dorato e levigato, da chissà quale mani, o quali cuori. Il duello lo sto di sicuro vincendo io con quei movimenti da molleggiato che metto in pista, e che da sempre sono la mia carta vincente. Da sempre, ma non in quel momento. Infatti, proprio allora vedo Gianni accompagnare Mariella nel giardino di sotto, tra mandarini, limoni e api, e nello spazio dello stesso sguardo vedo pure le loro lingue che si presentano felici. Io, Enrico e la madre di Mariella in quell’attimo formiamo un triangolo ridicolo, immobile di musica degli Immagination, e vorticoso di nervi tra l’infuocato piano di sopra e il mieloso giardino di sotto.

La cagnetta dorme sotto le cosce enormi della signora.




domenica 20 maggio 2012

il tuo io un po' nazista


Pagare, c’è da pagare il conto di questi anni di illusioni quasi gratis per noi. Mutuo, gas e multe. Sono stati giorni di tasche vuote come quando adolescente campavo d’aria. Ecco, a volte mi sento una bolla d’aria e me ne vado rotolando tra nuvole e colline in cerca di erba fresca di pensieri.

Ci sono fatti che ci inchiodano alla realtà per ore e ore, anche di sabato, fin dopo il tramonto. Un televisore sputa fuori senza soluzione di continuità quaderni immolati sull’asfalto ancora più nero. E noi paralizzati come il divano, e con una voglia di stare zitti fino al domani, bloccando per un minuto le parole amare di sangue.

Ieri mentre facevo certi esercizi di canto, sentivo dei suoni interni, delle vibrazioni, che coprivano tutta la stanza. Senza parole eravamo tutti migliori. Alla fine avevo voglia di abbracciarli tutti, quelli del corso. Una bolla d’aria. In quegli attimi tutte le convinzioni che fabbrico di solito all’alba, e che mi servono per corazzarmi contro una realtà d’incertezze e di parole vuote, si sono sedimentate per bene lasciando spazio al leggero presente. Per il resto nessuno che usi parole piene verso di me, ma, a dire il vero, nemmeno per gli altri lo fanno, mi sa. Spesso sono frasi di seconda mano e a volte così vuote che ne sento anche il rimbombo. Allora mi metto a riempirlo quel rimbombo: faccio il clown.

Ridurre le aspettative, leggere un libro nuovo, andare al cinema, toccare la pietà di Michelangelo. Osservare il piacere prima di toccarlo. Senza affanno, come un lord alle prese con dei simpatici selvaggi chiassosi e muscolosi. Come Nanni Moretti nel circo di Cannes.

Cercare le parole necessarie per raccontare, evitando di dichiarare, prima di narrarlo, le cose che prendonoforma nel tempo che gli hai dedicato.  Non avere paura del buio né degli altri: farsi un tuffo nell’acqua ghiacciata di un nuovo concetto di diversità. Facendolo non sentirsi meglio del diverso, ma solo un po’ più contemporaneo e sereno del tuo dio nazista.


Arriva il pomeriggio e mi ricordo di un complimento che mi ha fatto vedere terra nuova, poi sorrisi famigliari che sbocciano tra i gerani al balcone e, come presenza improvvisa e deflagrante, un libro di racconti con tante parole inedite.

Questo basta per salvare dal dirupo un purgatorio di fine settimana?

domenica 13 maggio 2012

il titolo metticelo tu


foto di lorenzo
Venerdì alle 14.49 si è decisa la mia stagione. Da questo sottoscala chiamato bla bla della sera, in questa mattina dove le migliori idee vengono fagocitate dal trambusto cittadino, prima di allora, e solo per voi, dichiaro la resa al tempo che sfugge fesso. Di quello subito dopo frasi che tiri fuori nemmeno fossi un’ostetrica alle prime armi, che fatica però, amico mio, non avere uno straccio di risposta. Eh! Di quel vuoto che segue a ruota prima un’ammissione forte forte, poi, come cenere inutile di barbecue, il silenzio che si allontana verso il primo piano. Tutto è leggero in questo quarto di secolo. Tutto fugge infilandosi tra un mi piace di facebook e un twett rapidissimo sulla propria unghia di fresco smalto.

Non ci sto.

Anche se, forse un po’, mi dispiace poco poco. Non esserci intendo, altrimenti perché continuare a sentirne la mancanza anche in una splendida e accogliente domenica di maggio?

Ieri sera mi sono innamorato di una famiglia numerosa. Lui egiziano, lei polacca, e cinque figli nell’arco seminale di otto anni che giocavano davanti a noi. Parlavo con loro e mi sentivo in un film di Kiarostami, doppiato bene;  o a Gaeta nei primi anni sessanta, o a Bombay fra vent’anni. Mi sentivo bene:‘ste cazzo di sovrastrutture che meno male si sbriciolavano davanti all’ottovolante che rifaceva i capelli a tutti questi bambini sorridenti.  Poi nel letto stanco di pensieri e attese, un sogno di spavento come al solito verso l’inverno: e lasciatemi stare beato con una birretta e tutti i fantasmini con gli occhi spiritosi a sostenere l’afa di questi giorni.


Fatevi fottere, e godetene nel frattempo. Che il tempo bello si nasconde tra i capelli neri di Adim, che desidera il futuro e vorrà cominciare a mangiucchiarselo per bene già da questo fine settimana.

mi dimetto un po' da questo sottoscala silenzioso.
ciao

venerdì 11 maggio 2012

dura poco

Ci sono momenti durante questa giornata in cui mi commuovo al pensiero dei miei pensieri, a quei desideri minimi di volontà di stupire pure le tapparelle chiuse. In questo giorno poi, quando la mattina sembra lunghissima, e il pomeriggio inarrivabile, si è creato qualche momento di solitudine gioiosa. Dura poco. Infatti, la malinconia la trovo che si è già apparecchiata a tavola. Io dal divano la evito. Un libro di Rodari mi sostiene. Qualche ricordo di piacere, una canzone romantica alla radio. Nessun demone al portone. Ma non basta. Mi sussurra parole tenere, ma che non si spezzano nel tratto tavolo-divano. Cambio posa, mi rimetto al mandato di ragazzo sensibile, un po’ sfortunato, poco determinato. L’aura della genitrice debole lascia cadere una piuma. Si posa sulla sedia vuota. La malinconia sta in braccio a me. Dal caminetto scende polvere sconosciuta. I miei occhi abbassano la guardia, le pieghe ai suoi lati dichiarano pace. I cani abbaiano di più per un secondo, poi tutto tace: il ticchettio del carpentiere si prende tutta la scena periferica assolata. Sopra i tetti e tra gli alberi o vicino ai lampioni, adesso solo dei riflessi di pulviscolo colorato. La mia fortuna prende un altro caffè e si sdraia pudica sul divano. Questo non è ancora il giorno adatto: tutto necessita di tempo e spazio per l’adattamento, altrimenti il caos è sterile. Nessun calore poi spinge verso il cambiamento. Rimangono alla finestra statiche considerazioni di tregue utili agli altri; ai capi, ai ricchi, ai nonni spariti su barche corazzate di storie vecchie a cui non crediamo più.

giovedì 10 maggio 2012

dimentica


Dimentica. Dimentica il vuoto dei silenzi. E le volte che hai capito troppo. Il volto di pietra di tuo padre; le parole che scappano nell’aria di tua madre. Tu sei nascosto e guardi e senti tutto. Pure l’odio che le pareti trattengono a stento.

Dimentica quelle mani, quegli occhi e i soldi che non hai per fermare quel vortice blu. Ti senti povero, e non solo per mancanza di averi, ma soprattutto per quella paura di spegnerti stanco, senza lottare. E quelle scale bianche non hanno bisogno di piedi scalzi da sostenere. Vogliono solo sentire parole scendere lente di respiro, e sorprese taglienti di ferite necessarie ad aspettare domani.

Dimentica pure tutta quella bella ignoranza che ti porti a spasso tra mura antiche e libri profumati di oggi. Quello sei tu: delicato e annoiato dentro a un tempo da masticare ancora senza mare.

Dimentica, caro io.

martedì 8 maggio 2012

scritto in sette minuti (e si vede)


Oggi ho bevuto quasi un’intera bottiglia di falanghina. Ho mangiato come un dio. Festeggiato come un pascià. Altre cosette intime che non sto a dire. Niente retorica: Grillo è la novità, una volta le prugne sapevano quasi di prugne, eh! No, oggi, in questo giorno speciale, di solitudine e amore, di tensione e silenzio, io vedo la mia vita sgargiante. Potrei vivere pure povero e con tachicardie, ma salto tra le vostre convinzioni come un grillo vero e bacio in bocca le farfalle. Io vedo tutto, anche i tuoi punti neri. Anche la tua innocenza. E poi ho letto Dino Campana, mica Montale, e tutto il suo ermetismo che sa di tappo. Pardon, premio nobel, ossequi a voi discepoli come polli d’allevamento, io scelgo sempre il peggio. Non so fare altro. Vedermi morire davanti a una fila di ombrelloni chiusi, ecco il mio testamento che sa di selenio. Amore mio, perdonami e portami a Parigi. Fammi toccare il letto di Van Gogh, e i capelli di Tina Modotti. Portami in braccio fino in Patagonia, e non scomodare Chatwin.

Una fila di amici davanti al mio letto, e nemmeno un pidocchio di nemico: cazzo, meglio di Berlinguer.

Delirante sogno di fuga, e non so deandrè, gli amici fragili li accarezzo perché sono veri di ossa e sangue. Nessun dolore borghese da espiare, no, io sono uno straccio di vicolo mezzo avvizzito. Embè? Toccami e ti darò quel che vuoi, una frase, un bacio, un progetto per sognare. Chiamami.

Parole, parole consumate senza luci naturali, vengono fuori come zampilli d’amore che piangono davanti agli occhi di Tiziana, ragazzina nomade che vaga da due anni nei boschi piatti di una Roma stiracchiata e lontana.

lunedì 7 maggio 2012

giobbe


Non bevo più, mangio meno. Lo pensavo convinto fino a tre ore fa. I discorsi, e certi discorsi ancora di più, vanno terminati per bene; altrimenti il veleno si spande e spreca la vita. Non avevo paura e non avevo remore: ogni uomo con la propria ombra. Ogni donna con la sua brace. Mi vergogno un po’ di certi desideri, ma non mi pento per niente della mia realtà. La faccio brillare a suon di pezzi di musica italiana, mai abbastanza amata, mai del tutto ascoltata. E lei? Mi sbatte dentro a una sceneggiatura che potrebbe intitolarsi: Giobbe di giorno, coglione di notte. Nessuno che blocchi tutto il circo, tutti che scappano inseguiti da niente: che nemmeno dichiaro guerra e già lì che mi tocca fare patti di non belligeranza per non perdere mille euro al mese. Mille euro al mese! E che i passi lievi, le mosse giuste, e tutte quelle capacità di adattamento sublime perché svenderle al primo coglione che capiti?

In queste serate di ruggine rossa non mi resta che pensare ai miei figli, alle loro incredibili capacità di stupirmi.

Mi farò sputare fuori domani all’alba da un sogno di slanci e baci.

Giuro.

domenica 6 maggio 2012

graffi e schiaffi tra le rose


Un anno di merda. Un anno pesante senza tregua. Un anno di graffi e schiaffi, senza una vera guerra. Un anno finito che mi ha sbattuto a terra, rompendo ogni ossa a parte la testa. Nessun colpevole, tranne che me; ma vedo occhi serrati e labbra secche davanti ai miei incubi; orgogli frantumati lungo vie ancora luminose, dove passeggiare diventa quasi agonia, con buste della spesa piene di poco, incollate a mani colorate di vene e petrolio.

Questo veleno ha lo stesso colore dei tuoi occhi, nella mattina che accoglie piogge e parole feroci. Guardiamoci e lasciamo uscire il nero che si diverte dentro le nostre bocche carnose. Come ha fatto Gerardo, tuo cugino, che si è fatto sbattere fuori di casa dalla moglie. Oramai portava a casa meno di mille euro al mese e i pomeriggi li passava a bere birre e mangiare noccioline. Poi la sera film porno giapponesi, in lingua originale. Le poche energie che restavano di certo non le donava alla moglie, che coi suoi capelli lisci e puliti lo salutava appena la mattina, dopo il caffè. Quella domenica invece l’ha sbattuto fuori con parole che grondavano sangue viola; lui ha fatto la valigia, e sentendosi a suo agio in questi anni isterici, attraversando il salone ha fatto una sceneggiata discreta da salotto. Poi una porta che sbatte, e il figlio che si rimette con la testa dentro al nintendo. Una vecchina passa lì davanti con un bustone di cicoria di strada e sorride serena al pappagallo nel mosaico.

Allora perché sfigurarsi di sera con gli occhi dentro al pozzo rosso di cianuro e dolore? Meglio sarebbe farsi crescere i baffi e noleggiare un camper. Come aveva fatto Gino, il tuo ex ancora amico tuo, che aveva vinto il camper di seconda mano alla sagra della cipolla trifolata. I primi tempi andavano sempre in giro per l’Italia, ché i figli urlavano di gioia a ogni data annunciata: Ravenna, Genova, Rimini, e poi tante altre località attraenti sulle coste. Poi un pomeriggio, dopo uno schiaffo e un regolamento di conti inaspettato, si è ritrovato ad apparecchiare per uno nel piazzale dei capolinea dei bus. Una scatola di tonno e un bottiglione di verdicchio dimenticato nella dispensa, segnano un inizio che abbraccia una fine pietosa.

Allora perché ridi di tua moglie che stramazza sempre di più nella stanza, per il disagio che invade ogni angolo di casa e del cuore? perché non prenderla per mano e provare a passeggiare in quelle stradine un po’ buie e piene di gerani e odori sereni?

Staresti meglio coi baffi, certo; come Antonio, che adesso accompagna nei giorni dispari la figlia a scuola. La vede entrare di corsa nel portone che inghiotte bambini e zaini, e, una volta che scompare dai suoi occhi, scappa in macchina a sfidare gli attacchi di panico che lo aspettano nel sedile accanto.

Allora spacca le pietre che aspettano in giardino di essere divise per poi trovare posto tra rose, ciclamini e odori vari.

venerdì 4 maggio 2012

scappa


Non volevo venire fino a quaggiù, ma stamattina mi hanno chiamato, e seppure non volevo, ho dovuto accettare senza pensare.  I primi a uscire sono due ragazzi robusti con sopracciglia rifatte e magliette nere attillate; dietro due ragazze bionde con pantaloni stretti e unghie affilate viola, la testa bassa e con quelle lacrime dorate che si vedono solo in tivù. Una delle due porta una borsa rosa piena di documenti, sembrano troppi per la loro giovane età. Ora mi passa accanto una donna con cosce robuste e mi sembra di riconoscerla: provo un assenso ma sembro invisibile. Intorno sento un torrente scorrere, sarà sotterraneo che qui vedo solo auto e motorini accoppiati a disegnare una valle di metallo. Neppure un amico. Non volevo venirci, lo sapevo, ché dopo mi arrivava il magone e quella voglia di piangere sarebbe svanita alla vista di chi stava già peggio di me. Come quella volta sul camion militare che tutti piangevano e vomitavano per il distacco, tranne me, che il distacco l’avevo anticipato in solitudine, dentro la cameretta piena di scritte oscene e incazzate verso il mondo. Oggi nessuno è incazzato ma tutti hanno voglia di essere deboli e ammettere ogni fragilità, nascosta preziosamente sotto il cuscino fino a stanotte. Ora scendono in parecchi, forse è un gruppo, una squadra, una classe intera o semplicemente si ritrovano per caso nello stesso stato e vanno insieme.

Forse ancora non tocca a me e allora compro il giornale, siedo al bar, dove prendo un caffè con panna. Mando un messaggio. Osservo la barista. Sembra lontana da quelle persone che scendono le scale in fretta; questa barista con dei grandi occhi neri mobili e scintillanti, che non sa neppure del fatto che stiamo vivendo, mi potrebbe tornare utile tra poco. È presto, meglio gustarmi il caffè e tutta la panna, che perdermi tra i seni di questa ragazza svelta e gentile e sicura tra questi tavoli deserti, davanti a una piazzetta che per metà è parcheggio con strisce gialle.

Sono già in corsa che scappo da questo posto di merda pieno di gente che non conosco affatto e soffro per qualcosa che mi stava capitando. Soffro sì, ma già è ricordo che scappa con me; come mio zio che scappa dal campo di Buchenvald e soffre all’idea di riabbracciare la moglie giovane dopo un giorno di cammino per le strade devastate di quell’Italia là. Oggi è di nuovo scassato il mondo e io scappo per non doverlo dire: sono un’ottimista del bene e sorrido sempre alle persone che incontro. Come uno scemo di guerra corro verso altre persone, queste sono stanche di me e del mio ottimismo. Corro e mi vedo sulle gambe di mia madre, giovane, appare forte nel tenermi per sé. Corro e sento puzza di bruciato di ferraglia ai lati della strada, sì, è tutto quel che riesco a sentire d’intere comunità diverse e lontane da me; sì, è vero, non riesco più a pensare davvero bene, se non di qualcosa che già conosco.

Sbatto contro l’albero gigantesco davanti al palazzo storico e bello della sua semplicità, con attorno una piazza tonda che vuole accogliere tutti, un po’ alla volta, tutti quelli che capitano per sbaglio qua. Mi sdraio allungandomi e sento un odore dolce di sudore. È mio, lo riconosco, sono ancora qui allora, tra di voi e piantato anch’io nella piazza che accoglie ma lascia passare, non trattiene nessuno. Non ha senso farsi trattenere per sempre quando si è liberi solo in movimento. Come gli zingari. Come i gruppi rock che vanno su e giù per l’Italia a cantare a squarciagola i sentimenti nuovi.