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venerdì 14 novembre 2014

Cose da tenere

Sto salvando una cartella di mail che ho chiamato Cose da tenere. Ci sono là dentro quattro anni di complimenti, attenzioni, critiche e stupori verso le cose che ho scritto negli ultimi quattro anni, con gioiosa fatica, per scavallare la giovinezza, il passato, con discrezione umana. Negli anni precedenti avevo sempre fatto presagire, sussurrando, o slanciandomi con l’aiuto del vino, della mia volontà di raccontare i sentimenti miei, o quelli altrui all’occorrenza. Ammettevo pure nel frattempo la mia scarsa tenuta tecnica, grammaticale, culturale: così mi sganciavo insicuro da ogni attesa smisurata. Poi aggiungevo altre zavorre tirate fuori col preciso scopo di inciampare da solo, senza il solito sgambetto della vecchia vocina stronza: lascia perdere e pensa a campa’, mi ridacchiava impietosa all’alba. Invece qualcosa poi ho scritto. Siccome mi sento alla fine di questo stato di grazia, di scrivere come se mangiassi o passeggiassi, e siccome sto cambiando gestore telefonico e la casella mail andrebbe persa, così, dall’altro ieri, mi son messo a rileggere tutta ‘sta corrispondenza rimanendo per tutto il tempo sul filo della lacrima, e con il desiderio di rispondere di nuovo ad alcune mail, anche di quattro anni fa. In questo periodo mi prende lo spavento per improvvisa incapacità, crollo definitivo, e prosciugamento creativo. Ma poi che fa? Non si può mica campa’ così una vita.
Potrei consolarmi con le mail di N. o di D. e anche di E. e A. senza scordare S. e V. e altre ancora che mi riempiono il cuore e carezzano la nuca quando sono a terra. Potrei ancora. Perché l’ho fatto davvero in questi anni. Invece di uscire la sera o imparare l’inglese, mi mettevo prima a scrivere per il blog, e, una volta sazio, a salvare o rileggere i complimenti o gli incoraggiamenti. Cari miei, vengo anch’io da deprivazioni più o meno pesanti, ingombranti, che poi col tempo non ho avuto il coraggio di riscattarle più: di troppa sensibilità si impazzisce di rabbia.
Rileggendole mi scatta anche un pensiero: quanta energia ho speso per scrivere? Così finisco col pensare alle notti e ai pomeriggi in cui ho trascurato moglie e figli, o qualche vecchio amico, e perfino quelli nuovi, conosciuti proprio perché scrivo. Anche la voce di mia madre ho un po’ scordato ultimamente, e nelle sue stanze strette rimbomba il suo silenzio.
Insomma mi fermo qui, poiché dopo quello che ho scritto per l’intero mese di agosto, in cui ho ficcato vent’anni di storie verosimili a quelle di decine persone conosciute, amate, temute, adesso mi siedo e aspetto: di rifare altre frittate. Di combinare incontri esplosivi, e ascoltare la sera i miei figli. Scopare la notte. Camminare e camminare. Come ho fatto l’altra sera, che ci siamo ritrovati a partecipare alla fiaccolata per Stefano Cucchi, insieme a tanti altri silenzi come noi, e ho potuto ammirare da vicino gli occhi dignitosi di Ilaria Cucchi, e ascoltare altre voci pari alla sua di coraggio e dolore. In quella piazza ho visto, sentito e strusciato persone, storie, che mi son sempre state vicine e che in questo periodo sto scacciando da me per mancanza d’aria: no, non vi odio più, ma lasciatemi solo e vi saprò dire altre cose interessanti.
Ricomincerò magari domani, intanto scuoto tappeti e lenzuola, non prima di aver conservato tutte le vostre cento dolci mail.

Vorrei scrivere di Pino e della sua improvvisa scomparsa, che per me l’anno scorso era stata una ricomparsa: di ricordi teneri, e parole scolpite durante passeggiate di secoli fa sul Circeo, o in campagna da me. I suoi enormi occhi, e le sue rose al taschino e le sue frasi che tentavano un salto nel blu, sono pietra da lavorare per la mia memoria.

 Ora mi fermo per davvero, e intanto penso a come raccontare meglio di lui e di me, di voi e di noi. Provo a non fermarmi.


venerdì 7 novembre 2014

fa freddo ( pensando a Pino, ovunque sia)

Fa freddo. Le sette del mattino. L’auto parte e mi porta a casa dei miei.
Nel frattempo.
Stringi gli occhi che non è successo niente, quello si è sbagliato, non ti agitare. Magari l’ha sentito appena, senza capirci nulla mi ha subito chiamato. Mo’ richiama. Sì, me lo sento. Mica può succedere oggi, fa troppo freddo. E’ settembre eppure fa freddo. Laggiù il mare è celestino di barche e silenzio. No, non voglio accendere la radio, ché poi se chiama non li sento. Perché chiama ora, che ti credi, e chiama su: ecchecazz! Vado a cento all’ora ma sto fermo, e i semafori li sfioro arancioni, poi abbaglianti, clacson, e mani sempre più piccole che si alzano per maledirmi. No, il pullmino della scolaresca no, non ci voleva; passate bambini belli, su, io non vengo, ché io da oggi non sono più bambino. Ma no, che pensi, che dici davanti a ‘sti tergicristalli che so’ partiti da soli. Mi sa che il braccio appeso sul volante ha schiacciato la leva. Boh! Devo farla vedere ‘sta macchina, l’altro giorno pure le quattro frecce son partite da sole. Ecco, manca poco, due semafori, un bar e l’incrocio dell’ospedale. So’ arrivato, aspettatemi.
Scendo e corro. Arrivo. Mi ricordo, appena vedo il divano con il cuscino sgualcito, e poi la faccia di mia madre che scompare nel collo e le mani di mio fratello che afferrano solo aria, sì, ricordo che ho sentito il suono dell’ambulanza, un secondo fa. Sì, allora è salvo. Invece ci abbracciamo io e mio fratello, l’ultima volta era successo dopo il goal di Hateley nel derby, un secolo fa. Ci abbracciamo, e io ora lo so: è muort’. Stringo anche mia madre, la sua angoscia bianca, e in un attimo tutte le foto della casa diventano bianco e nero.

Risalgo in macchina, e da solo raggiungo l’ospedale. L’atrio ha troppo marmo, e questo è l’ultimo pensiero dell’infanzia. Mi fanno entrare in una stanza enorme divisa a fette: da sipari di stoffa opachi. Sì, è lui. No, non fate l’autopsia. Ciao papà.