Fa freddo. Le sette del mattino.
L’auto parte e mi porta a casa dei miei.
Nel frattempo.
Stringi gli occhi che non è successo
niente, quello si è sbagliato, non ti agitare. Magari l’ha sentito appena,
senza capirci nulla mi ha subito chiamato. Mo’ richiama. Sì, me lo sento. Mica
può succedere oggi, fa troppo freddo. E’ settembre eppure fa freddo. Laggiù il
mare è celestino di barche e silenzio. No, non voglio accendere la radio, ché
poi se chiama non li sento. Perché chiama ora, che ti credi, e chiama su: ecchecazz!
Vado a cento all’ora ma sto fermo, e i semafori li sfioro arancioni, poi
abbaglianti, clacson, e mani sempre più piccole che si alzano per maledirmi.
No, il pullmino della scolaresca no, non ci voleva; passate bambini belli, su, io
non vengo, ché io da oggi non sono più bambino. Ma no, che pensi, che dici
davanti a ‘sti tergicristalli che so’ partiti da soli. Mi sa che il braccio
appeso sul volante ha schiacciato la leva. Boh! Devo farla vedere ‘sta
macchina, l’altro giorno pure le quattro frecce son partite da sole. Ecco,
manca poco, due semafori, un bar e l’incrocio dell’ospedale. So’ arrivato,
aspettatemi.
Scendo e corro. Arrivo. Mi ricordo,
appena vedo il divano con il cuscino sgualcito, e poi la faccia di mia madre
che scompare nel collo e le mani di mio fratello che afferrano solo aria, sì, ricordo
che ho sentito il suono dell’ambulanza, un secondo fa. Sì, allora è salvo. Invece
ci abbracciamo io e mio fratello, l’ultima volta era successo dopo il goal di
Hateley nel derby, un secolo fa. Ci abbracciamo, e io ora lo so: è muort’.
Stringo anche mia madre, la sua angoscia bianca, e in un attimo tutte le foto
della casa diventano bianco e nero.
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