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venerdì 7 novembre 2014

fa freddo ( pensando a Pino, ovunque sia)

Fa freddo. Le sette del mattino. L’auto parte e mi porta a casa dei miei.
Nel frattempo.
Stringi gli occhi che non è successo niente, quello si è sbagliato, non ti agitare. Magari l’ha sentito appena, senza capirci nulla mi ha subito chiamato. Mo’ richiama. Sì, me lo sento. Mica può succedere oggi, fa troppo freddo. E’ settembre eppure fa freddo. Laggiù il mare è celestino di barche e silenzio. No, non voglio accendere la radio, ché poi se chiama non li sento. Perché chiama ora, che ti credi, e chiama su: ecchecazz! Vado a cento all’ora ma sto fermo, e i semafori li sfioro arancioni, poi abbaglianti, clacson, e mani sempre più piccole che si alzano per maledirmi. No, il pullmino della scolaresca no, non ci voleva; passate bambini belli, su, io non vengo, ché io da oggi non sono più bambino. Ma no, che pensi, che dici davanti a ‘sti tergicristalli che so’ partiti da soli. Mi sa che il braccio appeso sul volante ha schiacciato la leva. Boh! Devo farla vedere ‘sta macchina, l’altro giorno pure le quattro frecce son partite da sole. Ecco, manca poco, due semafori, un bar e l’incrocio dell’ospedale. So’ arrivato, aspettatemi.
Scendo e corro. Arrivo. Mi ricordo, appena vedo il divano con il cuscino sgualcito, e poi la faccia di mia madre che scompare nel collo e le mani di mio fratello che afferrano solo aria, sì, ricordo che ho sentito il suono dell’ambulanza, un secondo fa. Sì, allora è salvo. Invece ci abbracciamo io e mio fratello, l’ultima volta era successo dopo il goal di Hateley nel derby, un secolo fa. Ci abbracciamo, e io ora lo so: è muort’. Stringo anche mia madre, la sua angoscia bianca, e in un attimo tutte le foto della casa diventano bianco e nero.

Risalgo in macchina, e da solo raggiungo l’ospedale. L’atrio ha troppo marmo, e questo è l’ultimo pensiero dell’infanzia. Mi fanno entrare in una stanza enorme divisa a fette: da sipari di stoffa opachi. Sì, è lui. No, non fate l’autopsia. Ciao papà.


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