Sto salvando una cartella di mail che
ho chiamato Cose da tenere. Ci sono là
dentro quattro anni di complimenti, attenzioni, critiche e stupori verso le cose
che ho scritto negli ultimi quattro anni, con gioiosa fatica, per scavallare la
giovinezza, il passato, con discrezione umana. Negli anni precedenti avevo
sempre fatto presagire, sussurrando, o slanciandomi con l’aiuto del vino, della
mia volontà di raccontare i sentimenti miei, o quelli altrui all’occorrenza.
Ammettevo pure nel frattempo la mia scarsa tenuta tecnica, grammaticale,
culturale: così mi sganciavo insicuro da ogni attesa smisurata. Poi aggiungevo altre
zavorre tirate fuori col preciso scopo di inciampare da solo, senza il solito
sgambetto della vecchia vocina stronza: lascia perdere e pensa a campa’, mi
ridacchiava impietosa all’alba. Invece qualcosa poi ho scritto. Siccome mi
sento alla fine di questo stato di grazia, di scrivere come se mangiassi o
passeggiassi, e siccome sto cambiando gestore telefonico e la casella mail
andrebbe persa, così, dall’altro ieri, mi son messo a rileggere tutta ‘sta
corrispondenza rimanendo per tutto il tempo sul filo della lacrima, e con il
desiderio di rispondere di nuovo ad alcune mail, anche di quattro anni fa. In
questo periodo mi prende lo spavento per improvvisa incapacità, crollo
definitivo, e prosciugamento creativo. Ma poi che fa? Non si può mica campa’
così una vita.
Potrei consolarmi con le mail di N. o
di D. e anche di E. e A. senza scordare S. e V. e altre ancora che mi riempiono
il cuore e carezzano la nuca quando sono a terra. Potrei ancora. Perché l’ho
fatto davvero in questi anni. Invece di uscire la sera o imparare l’inglese, mi
mettevo prima a scrivere per il blog, e, una volta sazio, a salvare o rileggere
i complimenti o gli incoraggiamenti. Cari miei, vengo anch’io da deprivazioni
più o meno pesanti, ingombranti, che poi col tempo non ho avuto il coraggio di
riscattarle più: di troppa sensibilità si impazzisce di rabbia.
Rileggendole mi scatta anche un
pensiero: quanta energia ho speso per scrivere? Così finisco col pensare alle
notti e ai pomeriggi in cui ho trascurato moglie e figli, o qualche vecchio amico,
e perfino quelli nuovi, conosciuti proprio perché scrivo. Anche la voce di mia
madre ho un po’ scordato ultimamente, e nelle sue stanze strette rimbomba il
suo silenzio.
Insomma mi fermo qui, poiché dopo
quello che ho scritto per l’intero mese di agosto, in cui ho ficcato vent’anni
di storie verosimili a quelle di decine persone conosciute, amate, temute, adesso
mi siedo e aspetto: di rifare altre frittate. Di combinare incontri esplosivi, e
ascoltare la sera i miei figli. Scopare la notte. Camminare e camminare. Come
ho fatto l’altra sera, che ci siamo ritrovati a partecipare alla fiaccolata per
Stefano Cucchi, insieme a tanti altri silenzi come noi, e ho potuto ammirare da
vicino gli occhi dignitosi di Ilaria Cucchi, e ascoltare altre voci pari alla
sua di coraggio e dolore. In quella piazza ho visto, sentito e strusciato
persone, storie, che mi son sempre state vicine e che in questo periodo sto
scacciando da me per mancanza d’aria: no, non vi odio più, ma lasciatemi solo e
vi saprò dire altre cose interessanti.
Ricomincerò magari domani, intanto
scuoto tappeti e lenzuola, non prima di aver conservato tutte le vostre cento dolci
mail.
Vorrei scrivere di Pino e della sua
improvvisa scomparsa, che per me l’anno scorso era stata una ricomparsa: di
ricordi teneri, e parole scolpite durante passeggiate di secoli fa sul Circeo,
o in campagna da me. I suoi enormi occhi, e le sue rose al taschino e le sue
frasi che tentavano un salto nel blu, sono pietra da lavorare per la mia
memoria.
Ora mi fermo per davvero, e intanto penso a
come raccontare meglio di lui e di me, di voi e di noi. Provo a non fermarmi.
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