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lunedì 29 dicembre 2014

ma la tua storia come sta?

“Non ricordo quasi mai niente. Il finale dei libri, dei film; di tutte le poesie che mi son piaciute. Della prima parola (parola) detta dal primo figlio, o della prima ferita col sangue del piccolo. Non ricordo della prima volta che le sono venuto dentro. Della faccia di mio padre morto. Del primo ricovero di mia madre. In realtà ora ricordo, di questi interminabili ricordi, solo i dettagli sentimentali rimasti appiccicati alla mente. E poco più.” (Memorio Carpito, 1970-2011)

Affaticato dalla nottata nervosa e priva di senso – il senso che serve per addormentarci sereni la sera - decido di uscire e percorrere tutto il perimetro del mio quartiere. Abito qui da nove anni. E’ un quartiere rettangolare, concepito rutelliano ma veltroniano di nascita, che alle due estremità est-ovest ha due ferri di cavallo di strade: ai lati la campagna romana arrabbiata. Più che una borgata pare una penisola, ma senza lungomare.

Sono le sette del mattino. Faccio i primi venti passi e mi blocco, prima della fermata del bus, paralizzato dall’eventualità che arrivino i maremmani: spesso dall’auto li vedo gironzolare liberi coi loro cinquanta chili per le strade deserte. Così lo sguardo si stacca e si alza fino a osservarmi laggiù come dentro a un diorama. La gamba sinistra avanti, di fronte c'è una coraggiosa donna ginnica. I figli stanno là con gli occhi appena aperti. Mia moglie minuscola, infreddolita e con un pensiero che ne contiene altri mille, sta lì a riflettere nel letto. Io resto immobile, come tutte le volte in cui ho lasciato scegliere agli altri, o al caso.
Sblocco l’immagine e comincio il giro nevroticamente programmato, poco prima nel letto insonne. Arrivo davanti a un passaggio mattonato, che apre in due un terreno di erbacce fino all’ingresso di un palazzo. Proprio qui un dirigente del comune di Roma disse a una signora del Comitato, dopo che gli chiedemmo che almeno un passaggio decente andava fatto: signo’, mica ha comprato casa a piazza Navona, eh! Questa risposta l’abbiamo digerita come sudditi informati, come coglioni. In fondo me la sono meritata, visto che all’epoca bevevo tutto quello che c’era da bere nell’aria prepost-comunista, per tenere duro, da neo-padre, davanti allo sgretolamento di ogni tipo di credenza, convinzione, che avevo maturato negli anni della militanza ideologica, sentimentale, dentro a un mondo (troppo grande per me) che di certo non coincideva precisamente col mio. E dillo cazzo! Sì, dovevi dirlo anche allora ai tuoi amici mentre passavano le giornate a citare film anni settanta, o a scopare le ragazze degli altri, o ad annunciare catastrofi mondiali durante gli intervalli delle partite dei mondiali. Avresti dovuto dirgliene quattro su chi eri veramente, invece di arrenderti in democratici ascolti di loro questioncelle ancora adolescenziali. Tu avevi la guerra nella testa, e loro giocavano coi soldatini. E vincevano quasi sempre loro. Oggi alcuni di loro stanno in calde e comode case ereditate o comprate bene, e io resto indebitato, serenamente indebitato, e con una casa a cui devo già rifare le fogne. Dillo cazzo che tu volevi stare (anche) per i fatti tuoi, con i tuoi film di Moretti, e con quelle canzoni che piacevano solo a te, quei libri di scrittori israeliani e, il vero motore anti-suicidio: con quella tua favolosa e invidiabile voglia di innamorarti di tutto. Avercelo avuto un grammo di coraggio, l’altro ieri, per scegliere fino in fondo la tua perfetta solitudine dentro alla moltitudine del mondo.
All’epoca loro allegramente faticavano a fare i giovani e tu timido col tuo vecchio groppo sempre in gola, con le primordiali paure nelle tasche, e oceani di ansie negli occhi, restavi fermo ad aspettare che ti chiedessero: ma la tua storia come sta?




Ero ripartito per il quartiere, già, ma forse è meglio osservare il diorama dall’alto e perdonare i vecchi amici, le loro selvagge certezze, e le loro misere necessità, che stanotte sono anche un po’ le mie. E dai, non cedere più al rancore; invece rivesti questo tempo che ti resta di morbidi decori luminosi, e che siano soltanto un po’ più veri di ieri, e che sfiorando appena quel lembo d’organo invisibile che pompa che è una meraviglia, poi producano un soffio di felicità urbana davanti alla tua soglia di domani.

giovedì 4 dicembre 2014

Guarigione (con un po' di Lacci)


   Mentre finivo di leggere Guarigione, proprio quando l’io narrante scopre di non essere lui, né la sua storia, la causa della malattia ereditaria del figlio, in quell’istante mio figlio novenne sbatte con la schiena al rubinetto della vasca. Piange e faccio i gradini tre alla volta per raggiungerlo. No, non credo ai pensieri magici, e cose del genere, no; in quel momento, osservando la sua ferita, mi è solo venuta voglia di abbracciarlo più forte del solito, e disinfettargliela per bene. Certi libri, quando sono scritti con rigore letterario, e hanno una forza intrinseca nelle parole usate, ti spingono a riflettere, ad agire, ma con discrezione, e magari riuscire ad avere un passo nuovo verso il mondo. Almeno nell’immediato, e uno poi spera che duri nel tempo. In questo libro, Cristiano De Majo, con tutta la materia incandescente che tratta, avrebbe potuto precipitare nell’emotività, nell’urlo acchiappa lettori, invece, pur raccontando di malattie, morti, rapporti conflittuali coi genitori e con la propria generazione, riesce a mantenersi in equilibrio tra la passione e la ragione. Racconta, non dispera.

   Da qualche tempo tendo a una quiete, a un fermo biologico e riflessivo sul mio tredicesimo anno di paternità, e leggendo questa storia ho intravisto alcuni appigli allo scopo: la tenacia, e le infinite attese della crescita, che di tanto in tanto lasciamo sfociare in oceani d’amore. L’amore complesso e trasparente per i figli. De Majo narra di un percorso nato da un suo tumore ai testicoli, risolto, passando dalla malattia alla pelle a uno dei due gemelli nati dalla sua storia con Laura, fino ad arrivare a una quasi guarigione, perlomeno a una convivenza con i suoi residui. Nel mezzo ci sono traslochi, fallimenti esistenziali di vecchi amici, ma anche esperienze lavorative fatte un po’ controvoglia che alimentano, contaminano, e determinano il passaggio concreto, doloroso e carico d’amore verso la paternità. Questo non prima di aver deciso di ascoltare la storia di un suo vecchio amico, morto in un incidente stradale, raccontata dai genitori del ragazzo, che intanto si sono rimessi insieme dopo il lutto: questo racconto nel racconto è struggente. Nella vecchia cameretta del vecchio amico vive nel frattempo una ragazza, figlia di una badante di un’anziana di famiglia, che partorisce una bimba; questo passo del racconto mi è sembrato una cosa tenera, cruciale, e forse decisiva per il protagonista: lo slancio verso un pensiero ancora più umano per le cose della vita. Gli occhi dell’autore cercano di giudicare il meno possibile, pur facendoci partecipi della sua opinione incerta su temi come la solidarietà, l’immigrazione, il mondo letterario, le relazioni famigliari e amicali, che in parte riesce a sbrogliare, pagina dopo pagina, ma soltanto dopo averla attraversata con l’esperienza diretta. Tra inciampi e sguardi verso la sua realtà.
    Ci sono pagine su Napoli che pare trattengano sentimenti in conflitto tra loro, eppure, evitando il troppo già detto, ne restituisce nitide immagini della sua potenza contraddittoria e vitale. La racconta, non la celebra né demonizza. A un certo punto fa specchiare la sua sonnolenta città natale con la modernità di Milano, e sono pagine memorabili di analisi e tormento di un giovane adulto alla ricerca di un luogo dove vivere meglio: il rimbalzo emotivo tra una voglia di fuga e la stabilità necessaria. Quelle sue sigarette ancora da accendere, appena spente, o fumate con voluttà, me lo fanno immaginare nel suo camminare nervoso, acceso da pensieri che disegnano futuri colorati nell’aria.

    Prima di Guarigione avevo letto Lacci di Starnone, e a me, che so poco di libri ma forse ne intuisco subito la potenza, sono sembrate parenti le due storie raccontate. Una finisce dentro l’altra, una scaccia l’angoscia dalle pagine dell’altra: una spiega meglio l’altra. Almeno per me, che dai libri voglio sempre una scossa, un intervallo sentimentale dalla vita che scorre, per poi starci giorni e notti con la testa dentro, che la vita, quelle che continua a scorrere implacabile, poi mi chiede il conto: cene saltate, carezze non date, telefonate mancate. Intanto me ne sto in poltrona, come patibolo di maschio distratto, e il libro sopra le gambe assomiglia a una bomba inesplosa: vedo già i frammenti caldi dei miei pensieri spazzati via al mattino.
    Chiudo suggerendo di leggere a tutti Guarigione, ma in particolare ai miei coetanei quarantenni, o giù di lì, così, tanto per avere giusto un pensiero in più durante questa nostra splendida convalescenza generazionale. E poi fatemi sapere se nella testa un formicolio non alimenta anche a voi quel desiderio di riordinare al meglio, senza paura né troppa malinconia, le nostre storie un po’ allegramente alla deriva.