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sabato 21 dicembre 2013

Preziosi attimi

L’altra sera me ne andavo in giro per San Lorenzo, senza meta. E grazie, alle 20.30 stavo già all’ex cinema Palazzo per il concerto. Dopo centinaia di concerti ancora faccio finta di credere che i concerti a Roma inizino alle 21.30. Così mi ritrovo davanti a una sede di (vari) comunisti ben illuminata e con vetrate enormi, sembrava un acquario, insomma, davanti a questa scena – sul fondo c’era un enorme dipinto stile Guttuso – con una decina di persone in cerchio a discutere con flemmatica dialettica, be’, io mi sono incantato. Da fuori sentivo quell’odore di stantio, fumo, lattine mezze vuote di birra e quell’aria pesante che solo al pensiero mi emoziono, ma, mannaggia la miseria, subito dopo mi deprimo. Un mondo fa. Agli angoli di San Lorenzo ci sono spavaldi spacciatori nervosi. Non sapevo più cosa osservare, avevo scrutato tutti i locali e i loro avventori, gli studenti allegri e i tipi che al cellulare dichiaravano i loro amori e poi i dolori, e allora, dopo che mi ero fermato davanti alla palestra popolare, e avevo visto ‘ste ragazze fiere di stare nella palestra popolare, mi sono rifugiato a leggere a scrocco dentro la libreria Giufà. Alle 21.40 mi sono infilato in un bar anonimo, di quelli che piacciono a me e che resistono ai cinesi e alle mode degli studenti, e mi sono seduto davanti a un tè caldo e a un Messaggero sfogliato già da migliaia di dita, chissà da quali mani e che occhi. Alle 22 stavo davanti al palco. Ascolto per rispetto il primo gruppo e poi inizio ad assistere allo spettacolo strambo dell’euforico, e un po’ avvelenato, Filippo Gatti. Parte coi pezzi vecchi tirati e poetici e mi comincio a muovere e a commuovere, nella mia rigida posizione di solitario ascoltatore. Come mi piace ascoltare da solo, ma se fossero venuti quei quattro amici che avevo invitato, di certo, sarei stato bene lo stesso con loro a chiacchierare di aneddoti e cazzate pre e post concerto, con una birra tremante in mano. Dopo tre pezzi salta la corda della chitarra e Gatti ci scherza su. Poi si rompe la tracolla. Poi durante un pezzo squilla il cellulare del bassista, e qui comincia a scemare l’umorismo, e si entra nello spettacolo puro. Le canzoni sono belle e suonate anche meglio, e Filippo Gatti dice che dovremmo firmare il nostro nome su di un foglio, per ricordarci di questa serata, di quello che stiamo vivendo lì con lui. Chissà cosa gli passava per la testa, magari pensieri potenti che andranno a finire dritti nelle sue nuove canzoni. Chissà.


Non riesco a finire ‘sto pezzo perché mio figlio mi obbliga a studiare i metalli preziosi, dice che non so nulla del bronzo, del rame, e figuriamoci dell’oro! Già, non so proprio nulla di ciò che è davvero prezioso, per questo vagavo solo per il quartiere che ho amato di più a Roma, e che oggi mi sembra solo un quartiere vecchio e poco più. Per questo aspetto con piacere le nuove canzoni di Filippo Gatti. Meno male che solo gli stupidi si muovono veloci. Va.


Buone feste a tutti voi, e che siano gentili e leggere come questo discorso qua (clicca).

mercoledì 11 dicembre 2013

una cosa triste che cancellerò

     Scrivo su questo blog sempre meno, il motivo mi sfugge come mi stanno sfuggendo tutte le occasioni che avevo da cogliere in questi mesi. Scrivo questa cosa per scacciare la paura, ma lo sento che qualcosa si sta spegnendo.  L’ho intuito dall’assenza di commenti ai post, e questo, dài amico mio, qualcosa vorrà pur dire; ma soprattutto pensando alla fredda logica dei meriti che mi aleggia sulla testa, e all’assenza di oscure fortune all'alba: mostrarsi così in questo orticello di blog, è semplicemente vanità. Diciamocelo. E poi la vita mi assorbe, e le scelte non fatte mi obbligano a guardare al futuro come a un enorme e informe profilo da definire, da modellare giorno per giorno, con un sito o con uno sguardo: per inventarsi un lavoro che faccia rima con la mia storia, e con i miei desideri. Magari con delle scelte sensate: non sprecare tempo e rabbia per i Grillo di turno, o per alcuni amici che si stanno allontanando dalla mia sensibilità. A questi vorrei un giorno scrivere una lettera senza rancore, e con limature dolci, dove ammettere la mia resa da una condizione che si sta dissolvendo: quella antagonista-estremista-adolescenziale. Sto rischiando la solitudine, quella cruda, come quella descritta da Camilleri subito dopo aver capito che non poteva continuare a fare il fascista. Lui amava Gogol, gli scrittori francesi e obbedire solo a un libro, solo a un uomo, non lo poteva accettare più.  Così rimase tremendamente solo; lo raccontava con un tono commovente durante la presentazione del libro di Piccolo.  Aveva quindici anni allora lo scrittore siciliano ed io oggi ne ho quarantatré, ma, come la sua storia dimostra, non è mai troppo tardi per restare soli e rinascere. Piccolo nel suo libro racconta che Parise si ostinò, anche rispondendo ai lettori del Corsera, a non scivolare nel conformismo di quegli anni, i settanta, ma a viverli e raccontarli con semplicità e stupore. In quel tempo tutto esplose, ogni cosa cambiò, e lui mutava silenziosamente mentre i più urlavano senza fare nemmeno un passo, consolandosi nel sentirsi i migliori della classe. Ed io, che sono nato proprio nel ’70, come potrei oggi arrestare ogni cambiamento e finire, come sta finendo nel nulla la visione, sciagurata e castrante, di certi miei vecchi amici? Con i miei occhi ricurvi scruto la loro rabbia sfumare: un’enorme nuvola di retorica e gas.


Vorrei che i miei figli crescessero il più possibile lontano dalle mie ossessioni, passate e presenti, riuscendo a muoversi con gambe curiose e robuste, e braccia leggere pronte a raccogliere amore in ogni aiuola fiorita del loro tempo.

P.S.
Poi ho letto questa cosa qua (clicca) e la tristezza si è cancellata d'incanto.

domenica 8 dicembre 2013

dettagli sul mare

foto di Mimmo Jodice
      Eccomi davanti a quest’enorme stanzone che si allunga fino al mare. Anche se ci sono quelle inferriate rosse un po’ arrugginite che ne bloccano la vista, immagino lo stesso il mare verde di primavera, che si apre fino alle minuscole isole laggiù. In fondo all’angolo c’è un piccolo bar incassato al muro. Nell’aria c’è musica di canzonette. Qualcuno accenna un ballo incerto. La gran parte delle persone stanno sedute ai lati su sedie di ferro e legno, come quelle della scuola, scheggiate qua e là a causa di vecchi lanci contro silenziosi muri pastello: certi omoni un tempo le lanciavano per liberarsi da troppa rabbia che gli usciva dagli occhi. Me l’ha raccontato Luciano, alla fermata dell’autobus, che smontava dal turno della notte più mattina, erano le tre, quindi, anche mezzo pomeriggio si era fatto, a quel punto.
      Davanti al bar c’è un tavolo con sopra una mela. Sembra bacata, ma non ne sono così sicuro, visto la distanza che c’è. Appoggiata al tavolo, e accanto alla mela che sembra bacata, vedo una donna con i capelli lunghi e bianchi - mi fa un po’ paura - con la testa nell’incavo delle braccia, come una gatta, che alza lentamente lo sguardo verso di me e non dice nulla. Mi fissa. A me non interessa il suo sguardo né la sua storia, perché sto qui per un’altra storia: sta lì in fondo, che appoggia tutte e due i gomiti sul tavolino tondo del bar, e parla con la signora chiacchierona di Viterbo. Parlano di me; capisco che mi ha visto entrare e che sta sfruttando i pochi secondi che ci separano ancora, ne sono quasi sicuro, per raccontare un altro aneddoto su di me, magari quello di quando avevo cinque anni in cui dicevo: non ci vedo più perché c’è troppo vento. È il suo asso che si gioca sempre. E’ una specialista di questi ricordi dall’apparenza insignificante, come improvvisi dettagli disseppelliti in stanze buie di muffa. Mi presto a questi ricordi aggiungendo particolari inaspettati, anche per lei. Ma oggi non mi va, oggi voglio restare ancora un po’ sull’uscio a osservare questa stanza enorme che puzza di medicinali. Forse lei oggi esce da qui. C’è da congedarsi da questo purgatorio. Quindici giorni di permanenza non sono niente, direbbe mio cugino esperto in materia; in realtà me lo dirà dieci anni dopo durante una passeggiata d’inverno sulla spiaggia. Ora, cioè trenta anni fa, in questa storia, avevo una visione caotica e allo stesso tempo chiara, lucida, che alimentava una visione di fragilità in ogni angolo del mondo che attraversavo.