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domenica 8 dicembre 2013

dettagli sul mare

foto di Mimmo Jodice
      Eccomi davanti a quest’enorme stanzone che si allunga fino al mare. Anche se ci sono quelle inferriate rosse un po’ arrugginite che ne bloccano la vista, immagino lo stesso il mare verde di primavera, che si apre fino alle minuscole isole laggiù. In fondo all’angolo c’è un piccolo bar incassato al muro. Nell’aria c’è musica di canzonette. Qualcuno accenna un ballo incerto. La gran parte delle persone stanno sedute ai lati su sedie di ferro e legno, come quelle della scuola, scheggiate qua e là a causa di vecchi lanci contro silenziosi muri pastello: certi omoni un tempo le lanciavano per liberarsi da troppa rabbia che gli usciva dagli occhi. Me l’ha raccontato Luciano, alla fermata dell’autobus, che smontava dal turno della notte più mattina, erano le tre, quindi, anche mezzo pomeriggio si era fatto, a quel punto.
      Davanti al bar c’è un tavolo con sopra una mela. Sembra bacata, ma non ne sono così sicuro, visto la distanza che c’è. Appoggiata al tavolo, e accanto alla mela che sembra bacata, vedo una donna con i capelli lunghi e bianchi - mi fa un po’ paura - con la testa nell’incavo delle braccia, come una gatta, che alza lentamente lo sguardo verso di me e non dice nulla. Mi fissa. A me non interessa il suo sguardo né la sua storia, perché sto qui per un’altra storia: sta lì in fondo, che appoggia tutte e due i gomiti sul tavolino tondo del bar, e parla con la signora chiacchierona di Viterbo. Parlano di me; capisco che mi ha visto entrare e che sta sfruttando i pochi secondi che ci separano ancora, ne sono quasi sicuro, per raccontare un altro aneddoto su di me, magari quello di quando avevo cinque anni in cui dicevo: non ci vedo più perché c’è troppo vento. È il suo asso che si gioca sempre. E’ una specialista di questi ricordi dall’apparenza insignificante, come improvvisi dettagli disseppelliti in stanze buie di muffa. Mi presto a questi ricordi aggiungendo particolari inaspettati, anche per lei. Ma oggi non mi va, oggi voglio restare ancora un po’ sull’uscio a osservare questa stanza enorme che puzza di medicinali. Forse lei oggi esce da qui. C’è da congedarsi da questo purgatorio. Quindici giorni di permanenza non sono niente, direbbe mio cugino esperto in materia; in realtà me lo dirà dieci anni dopo durante una passeggiata d’inverno sulla spiaggia. Ora, cioè trenta anni fa, in questa storia, avevo una visione caotica e allo stesso tempo chiara, lucida, che alimentava una visione di fragilità in ogni angolo del mondo che attraversavo.

      Allo stesso tempo mi sentivo forte per quello che facevo per lei, anche se era una situazione insostenibile per un ragazzo, e le assenze dei grandi, i silenzi degli altri, tutto questo mi ha costretto a cambiare per sempre. Ogni fatto, ogni parola vuota, e ogni assurdità mi scorreva accanto in quei giorni di solitudine: non riuscivo a sfogare quella rabbia di ragazzo, me la portavo a spasso, e mi faceva pure compagnia a pensarci bene. Non c’era nessuna porta da sfondare in quei giorni. Invece, come un soldatino della salvezza andavo avanti; salire sull’autobus arancione sotto casa, dodici fermate, arrivare alla stazione e prendere l’autobus blu che puzza di nafta, otto fermate, poi scendere e di corsa arrivare al cancello grigio. Pochi metri ancora e nessuno mi avrebbe visto. Scomparire lungo quei viali di conifere a cui non so ancora dare il nome.

       Torniamo sull’uscio di quegli anni.
       Aspetto qualche minuto, sicuro di aver buttato indietro le lacrime imbarazzanti, e mi avvicino lentamente alle due chiacchierone. La mela non c’è più. Nemmeno la signora coi capelli bianchi. Parte una canzone di Fred Bongusto che le fa smettere di parlare: si alzano per ballare, fissandosi divertite negli occhi. Mi blocco, vorrei nascondermi o sedermi. Eccole che mi sfiorano e ridono come matte alla deriva. Mi spingono dentro il loro cerchio e ballo con loro, rigido come un palo della luce. Vorticando vedo i loro sorrisi allungarsi: pare che vogliano esprimere momenti unici da raccontare. Qualcuno lo farà, forse, intanto il barista versa succhi alla pera con un ritmo da discoteca pomeridiana di provincia. Vorrei vedere il mare, sta qua sotto eppure nemmeno lo sento, c’è solo questa canzone che parla di mare, rotonde e ricordi ingialliti. Stiamo seduti, le due mattacchione continuano a sghignazzare ed io tra di loro che allento la tensione con sorrisi ebeti, mi rilasso e bevo anch’io un succo alla pera, alternando lo sguardo verso la finestra, e poi sui loro occhi. Ritorna la vecchia di prima e si mette a urlare sguaiata, potrebbe anche essere una canzone che sta cantando, chissà, ma a me spaventa ancora di più di prima e vorrei soltanto scappare. Il medico, ecco, prima di uscire bisogna aspettare la conferma dal medico con la folta barba che legge Asimov, ma non conosce Basaglia: per me allora sembrava una colpa ingiustificabile. Oggi le colpe non servono più. Magari ballare davanti al mare sì che servirebbe, e senza inferriate né mele.

     Contemplare una donna che parla da sola, e sorride, e mentre lo fa, coprendosi con tre dita la bocca, ti accorgi che si tratta di una smorfia carogna che insegue il suo sorriso. Lo fa dal 1940. Da quei giorni d’istituto e freddo. E fame. E silenzio. Bimbi coi piedi sporchi che scappano. Da qualche parte c’è la guerra, di certo c’è nella testa di quella bimba, con un nome regale e le dita sporche di terra. A dormire nella stanza sono in venti. Nessuna mano ad accarezzarla la sera, di giorno schiaffi e baci, in affannata rincorsa tra colpe e sbadigli, fatte da suore grasse e sole. Nel cielo c’era già l’eterno arancione che ancora oggi squarcia i miei pomeriggi in autunno. Questa storia triste non basta a spiegare la sua cattiveria improvvisa, che le esplode in bocca e frantuma ogni precedente tenerezza fatta di parole e sguardi. E tutti non ci capiscono niente. Per me è facile pensarci ora davanti a questo tunnel lungo tre chilometri che abbiamo quasi finito di realizzare. La costa ligure mi rilassa, e mi fa pensare soprattutto a quello che non ho saputo fare. La sera beviamo vino rosso negli alloggi tutti uguali del cantiere. A me rilassa stare qui, da tempo volevo staccarmi da tutti e pensare soltanto alla mia storia. Mi mancano i bimbi, gli sguardi di mia moglie, i venerdì sera in cui si mangiavano schifezze e si rideva fino a mezzanotte. Ora sono qui davanti a questo tunnel dove tra un anno passerà un treno super veloce, e io invece tra un mese non avrò più tempo per la mia storia. Sto riordinando le foto sul portatile, in primavera saranno pronte per la mostra: una storia in bianco e nero che finisce a colori e chiude un cerchio antico di dolore e stupore.
     L’anno prossimo la porterò con me all’inaugurazione del tratto ferroviario, e insieme sfrecceremo come bimbi al luna park chiudendo gli occhi all’uscita del tunnel.
   

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