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martedì 12 novembre 2013

Stanno tutti bene tranne me.

   Inizio a leggere il libro e non capisco, sto sdraiato a letto e penso di non capirne proprio nulla di letteratura. Ci sono tutte quelle belle recensioni in giro, ottime impressioni riguardo a “Stanno tutti bene tranne me”, scritto da Luisa Brancaccio. Non ci sto. Solo il mio fiuto mi deve condurre alle belle storie, lasciatemi in pace tuittatori che sapete tutto voi. A me piace soltanto leggere racconti, meglio se contemporanei, vicini alla mia storia, al mio tempo. Per i latini e i francesi c’è tempo, per i greci nella prossima vita. Insomma, mi distraggo all’inizio della lettura e questo non è un buon segno. Poi parte il personaggio di Margherita e m’incanto. La seguo. La vedo. Vorrei mandarle un sms. Mi ricorda un po’ mia sorella e un altro po’ una mia amica. Sento i suoi passi pesanti per il quartiere insieme al suo cane. Ne è pieno il racconto di cani, stanno sempre in mezzo, anche quando scappano tra i cespugli e saldano amori e amicizie, e senti pure la puzza di ‘sti cani, mentre scavano per cercare di disseppellire carcasse. I vecchi dolori. Come fanno i loro padroni. Le relazioni, il libro è tutto una trama di relazioni interrotte: il distacco di Margherita dal marito e dai figli è raccontato coi dettagli giusti, facendoci apparire una famiglia reale per metà folle e per metà normale. Nel mezzo scorre il quotidiano sofferente, sospeso e narrato nei suoi vuoti. Mi stavo affezionando a Margherita quando arriva il dottor De Seta a soffiarmela, con le sue amorevoli cure. Riesce ad accoglierla, anche se in maniera un po’ suggestiva usando un linguaggio accelerato dagli eventi. Suicidi passati, sorelle lontane e un presente di una donna che si sveglia quando già la sua famiglia sta in piena corsa nella società, quando in certi palazzi hanno già speculato spietatamente. Lei resta a letto, e poi se ne va al bar tutta spettinata. Poi esplode tutto. Margherita si riprende l’essenza, scaccia il sovraccarico, l’inutile, il male.
In un rarefatto e notturno giardino condominiale avviene un dialogo tra De Seta e una ragazza. Quasi tre generazioni di differenza permettono una vicinanza speciale; sullo sfondo esplode un litigio finito in amore che genera riflessioni su di una panchina, dopo un tentativo d’intervento sollecitato dalla ragazza al vecchietto. Da lì parte la conoscenza, i due si scoprono, si raccontano. Quando la mano della ragazza s’insinua nel desiderio aperto di De Seta, la narrazione si blocca in tempo, evitandoci un voyeurismo superfluo.
Poi emerge una coppia in fuga nel Chianti, per scordare un dolore. Un uomo che crea i presupposti per un abbandono, per una lenta separazione: di una sua conferma. Perché il dolore, quello potente, a volte separa all’istante e scava vie di fuga, che spesso ci troviamo ad attraversare senza possibilità di un ritorno all’origine.
Ho finito il libro e non riuscivo a dormire, pensavo alla carica di dolore che abbiamo sempre accanto, a cui non vorremmo mai aprire le nostre porte blindate. Dalla finestra, come fa il ragazzo nelle prime pagine, ci piace spiare gli altri con le loro storture, con le loro piccole meschinità. Questo libro ti costringe a stare dentro al dolore: il racconto, con degli artifici efficaci, ci rende partecipi senza ricattarci.

Luisa Brancaccio crea personaggi da cui non ci separeremo facilmente. Come certi cani, o certi dolori che silenziosi ci accompagnano verso bui sentieri segreti.

Alla fine mi sono addormentato e ho sognato questo racconto mentre diventava un film, così facendo scavalcava il dolore lasciandone in giro solo il suo odore.

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