Una mattina mi son svegliato e sono
andato a Porta San Paolo. Da giorni che pensavo di farlo: l’ho fatto portando
con me figli, moglie e amici. Sopra il palco vecchietti arzilli e sotto
bandiere e persone. La persona che mi racconta meglio di tutti la resistenza è Luciana:
riesce a commuovermi come volevo, con la sua
storia dei partigiani. Intanto, tra le bandiere e le persone, esplode il
caos tra il gruppo della brigata degli ebrei e quello dei pro-palestinesi. Lei
continua a parlare, e quando il presidente la invita rozzamente a tagliare,
Luciana s’infervora di più e dice che deve finire il suo discorso. In quel momento l’ho amata, odiando, con tutto il mio
maschio femminismo, il vecchio presidente baffuto. Lo scontro tra le bandiere
ebraiche e quelle palestinesi non finiva più, diventando un inutile spettacolo,
complicandomi il racconto sulla resistenza che avrei fatto la sera ai miei
figli.
Per pranzare ci siamo sdraiati al
parco tra mille badanti e il loro tempo libero, di vino, musica e pensieri di
piombo che sembravano appesi davanti ai loro enormi occhi azzurri.
Nel pomeriggio ci spostiamo al museo
di via Tasso. Le mie orecchie sono ancora lì ad ascoltare le storie di De
Angelis sui partigiani romani, i nazisti e le loro prigioni, e poi di delatori fascisti
e di eroi coraggiosi. E i miei occhi vedono ancora tutte quelle facce in bianco
e nero stropicciate dal tempo, gli eroi nel vento: della storia, della
retorica, del laviamoci la coscienza con gli eroi di ieri. I loro sguardi non
sembravano quelli dei futuri eroi, ma avevano semplicemente una posa da
documento d’identità, e che a me faceva pensare a storie stropicciate e
strappate da uomini ottusi tre generazioni fa.
E noi tra quelle stanze in silenzio
ad aspettare che la Storia arrivi a spiegarci perché oggi lasciamo che cortei
tristi e neri scorazzino ancora nei nostri quartieri ornati di gerani. La sera
prima: noi lì ad aspettare, con le orate fresche nelle buste Coop, di passare una
spensierata serata prefestiva e questi, bloccando il quartiere, scortati, sfilano
scuri di fiaccole e slogan, che pensavamo di non far ascoltare più alle nuove
generazioni. Dopo una settimana di fatica lavorativa pagata appena per una
decenza mal gestita, ci ritroviamo a lasciar scorrere questo fiume rabbioso
davanti alla nostra spensieratezza part-time. Perché? Lo chiederò a Igiaba Scego. E la presentazione del suo nuovo libro potrebbe essere l'occasione. Clicca qui.
Verso sera mangiamo un gelato dalle
parti di piazza Vittorio, e non ci va di metterci a torturare il presente per
evitare di capire il passato: sorridiamo come sanno sorridere le bimbe nei
cortili fioriti in aprile.
Poi ho deciso di scrivere questa cosa
che sa un po’ di me e un po’ di noi. Stanotte spingeva per uscire dal mio mal
di testa.
Vabbe', mi perdono va'.