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domenica 18 gennaio 2015

Gli anni al contrario

Il settantasette. Anno potente, creativo, violento. Questo mi ha sempre evocato l’anno sacro per eccellenza, per noi che siamo spersi in ammassi d’anni indefiniti, arrivati sempre dopo. Ricordo l’emozione acida nel leggere il libro di Franceschini “Mara, Renato ed io”. All’epoca stavo sempre a sinistra di qualcosa. Quando poi in fondo era il desiderio di stare coi deboli, gli afflitti dell’universo, quelli che non ce la facevano mai; non avevo mica voglia di menare il prossimo, o sfasciare vetrine né trollare negli anni a venire sui social. Non capivo niente. In realtà da un po’ di tempo sto cercando di dissacrare il mio settantasette della mente. Quella poltiglia grigia che ha tentato di colonizzare le mie forze reali, autentiche in cambio di eroi di cartapesta, poca addestrati alla realtà, eppure cosi devianti verso tunnel paurosi che non vorrei più attraversare. Allora Gli anni al contrario coincidono col mio tempo, con la mia inattesa resa, e con la mia piccola soddisfazione di rinascere di martedì. E portare con me di quegli anni lì soltanto canzoni, film, e ogni commovente cosa che ancora li rappresenta. E alcune leggi dello stato fondamentali. 

 Poi compare un presente prepotente, spinto da raffiche di vento che scopre una storia, nuova, senza più polvere ipocrita a ricoprirla. Così mi sono ritrovato tra le mani “Gli anni al contrario”, in un pomeriggio qualunque, dentro un centro commerciale-scatolone, e lì dentro avevo voglia di alzarmi dalla panchina e dire ai griffati e flemmatici passanti: ecco la storia che aspettavo. Eppure, a essere onesto, non mi aspettavo che NadiaTerranova scrivesse questa storia. Di un uomo e una donna, uno stretto, due famiglie ingombranti alle spalle, la politica che schiaccia nei ruoli, ma nemmeno che raccontasse (così lucidamente bene) quegli occhi della picciredda. Per non parlare di quell’esaltazione che si trasforma in terrore, nelle pagine centrali del libro, senza giudicare se non raccontando con rigore quel tempo. In fondo nemmeno di quelle lampare spiate con dolcezza la notte, credevo mi raccontasse. Ero solo un bimbo in attesa del suo racconto, volutamente senza immaginazione.
 Così mi ritrovo in Via Teulada assieme ai profili ancora un po’ sfocati nella mia testa di Aurora e Giovanni. Entro in Rai; no, non faccio il presentatore, e neppure l’usciere da Vespa, continuo a leggere il libro nonostante la sala si vada riempiendo di aspiranti scrittori: di ogni età, e di tutte le velleità possibili. Resto un po’ ad ascoltare la litania, poi scocciato mi arrendo, saluto, esco, e ai tornelli m’incastro, e accanto vedo Riccardo Jacona che mi osserva come se fossi un piccione, o uno scemo. Sul 495 mi rimetto sotto con la lettura, che si apre, e mi confonde spingendomi dentro a quei sentimenti che ho sempre temuto, aspettato: quelli misteriosi e dolcissimi che si vengono a creare tra un genitore e il proprio figlio. Infatti, Mara e Giovanni cominciano una corrispondenza fantastica, che diventa l’appiglio elastico per gestire un amore, un dolore; che intanto Aurora sente come suo fallimento, ma a questo punto pare non si arrenda neppure lei, si defila con fatica e determinazione, permettendo al marito e alla figlia di crearsi un mondo un po’ migliore: popolato di frasi dolci, di animali da fattoria, e attese che colorano sogni a venire. Al capolinea di Ponte Mammolo sto tifando per la saggezza di Aurora, pilastro quanto Colapesce nel gestire le forze bestiali dello stretto, e delle fragili consistenze del futuro famigliare.
Poi arrivo a casa e saluto la famiglia, mi viene quasi da piangere a vederli lì con quegli occhi pieni e desiderosi di aspettarmi, invece sorrido più del solito, e nel mio tono di voce sento un sottile mutamento: ancora una volta un libro mi spinge un centimetro più in là della mia condizione precedente.

Mi ritrovo nel letto e subisco beato il crescendo emotivo del racconto: tutti dormono quando sento entrarmi dentro - da sconosciuto - la storia degli occhi nell’epilogo che fissano i miei già umidi, che stanno brillando di rimbalzo alle nuove luci comunali a led. Fuori c’è il solito vuoto di silenzio, dentro aria familiare che fa galleggiare paure e ignoti pensieri. Che bellezza questo minuto, mi dico, e che tenera sorpresa questo libro così vicino ai miei pensieri.


lunedì 12 gennaio 2015

Mascheriamoci da scrittori. E ridiamo, ridiamo...una possibilità.

   Quelli poi non l’hanno mica letto il mio racconto. Ci ho impiegato un mese per scriverlo: tutte le mie ferie. Porca miseria, va. Loro andavano al mare e io ticchettavo con il ghigno moraviano che mi faceva apparire misterioso, sì, ma lo ero soltanto per mia suocera che preoccupata continuava ad occhiarmi. Ma come, scrivo un racconto grosso, gonfio, romanzato, purafiction e tu, oggi, gennaio 2015, ancora non ti degni di leggerlo?
Porca miseria!
Mo’ organizzo ‘na serata a tema a casa mia: tutti mascherati da scrittori. Scegliete: chi da esistenzialista, chi da romantico, chi da tardo fricchettone, eppure gli scansati vanno bene, eh. Io mi maschero da contemporaneo di nicchia.  
Rido, per dio. E poi verso vino, e ascolto tutte le vostre battute col ghigno da scemo eccitato, a un certo punto mi metto come al solito vicino alle femmine e parlo e ascolto dei problemi e delle frustrazioni della nostra età: ‘sta smania nevrotica la conservo pure quando rido da scemo. Poi, all’improvviso, vado in camera e mi vesto tutto di bianco, prendo una sedia impagliata e ci salgo su e mi metto a urlare sguaiatamente: perché non avete ancora letto il mio racconto? la prucidana si è impossessata di me, vecchia e informe femmina dei vicoli della mia infanzia. Così, prima che cali la tensione nel salone entra Antonio - avvisato via sms – e prende la sedia, inforca gli occhiali e comincia a leggere il mio racconto. “Nel ’92 feci una breve vacanza…” Io accanto a lui abbasso lo sguardo e godo, come un cagnolino godo nel sentire queste parole uniche, mie, che cadono addosso a voi, mezzi imbriachi e mezzi schizzinosi. Eccheccazz! Ho sprecato le ferie, con gli occhi di mia suocera addosso, e senza aria condizionata nella stanza, neppure una limonata con quel caldo e tu, voi, che leggete tutti i post di fèsbùc, tutti, pure quelli di zia Lia dal Lussemburgo, ma il mio enorme racconto non lo leggete? Maledetti! Antonio a un certo punto molla, dice che non c’è attenzione in sala. Già, lui è abituato alla sala Umberto; ma gli ho pure pagato il taxi, e dato tre litri di olio buono in anticipo. Anto’, sussurro, Anto’ che figura di merda, non mollare pure tu. Anto’…

Eccomi nella saletta del pronto soccorso a leggere l’etichetta del sedativo giallo, c’è un sole pallido fuori, e capisco tutto, senza che me lo dica lui tutto incamiciato di bianco: le ferie son sacre, la prossima volta porta una limonata alla suocera e scappa di corsa al mare a limonare con tua moglie.

Ma lo vuoi leggere o no ‘sto racconto?

(La prego, signore, si corichi adesso e sogni le ferie).


Il novenne che ero ascoltava questa canzone sdraiato nel letto, attirato dal suo testo misterioso, e aspettando la parolaccia finale, speravo che mia madre intanto fosse uscita dalla mia stanza. Ciao Pinodaniele.