Il settantasette. Anno potente,
creativo, violento. Questo mi ha sempre evocato l’anno sacro per eccellenza,
per noi che siamo spersi in ammassi d’anni indefiniti, arrivati sempre dopo. Ricordo
l’emozione acida nel leggere il libro di Franceschini “Mara, Renato ed io”. All’epoca
stavo sempre a sinistra di qualcosa. Quando poi in fondo era il desiderio di
stare coi deboli, gli afflitti dell’universo, quelli che non ce la facevano mai;
non avevo mica voglia di menare il prossimo, o sfasciare vetrine né trollare
negli anni a venire sui social. Non capivo niente. In realtà da un po’ di tempo
sto cercando di dissacrare il mio settantasette della mente. Quella poltiglia
grigia che ha tentato di colonizzare le mie forze reali, autentiche in cambio
di eroi di cartapesta, poca addestrati alla realtà, eppure cosi devianti verso
tunnel paurosi che non vorrei più attraversare. Allora Gli anni al contrario
coincidono col mio tempo, con la mia inattesa resa, e con la mia piccola
soddisfazione di rinascere di martedì. E portare con me di quegli anni lì
soltanto canzoni, film, e ogni commovente cosa che ancora li rappresenta. E alcune
leggi dello stato fondamentali.
Poi compare un presente prepotente, spinto da
raffiche di vento che scopre una storia, nuova, senza più polvere ipocrita a
ricoprirla. Così mi sono ritrovato tra le mani “Gli anni al contrario”, in un
pomeriggio qualunque, dentro un centro commerciale-scatolone, e lì dentro avevo
voglia di alzarmi dalla panchina e dire ai griffati e flemmatici passanti: ecco
la storia che aspettavo. Eppure, a essere onesto, non mi aspettavo che NadiaTerranova scrivesse questa storia. Di
un uomo e una donna, uno stretto, due famiglie ingombranti alle spalle, la politica
che schiaccia nei ruoli, ma nemmeno che raccontasse (così lucidamente bene) quegli
occhi della picciredda. Per non
parlare di quell’esaltazione che si trasforma in terrore, nelle pagine centrali
del libro, senza giudicare se non raccontando con rigore quel tempo. In fondo nemmeno
di quelle lampare spiate con dolcezza la notte, credevo mi raccontasse. Ero
solo un bimbo in attesa del suo racconto, volutamente senza immaginazione.
Così mi ritrovo in Via Teulada assieme ai
profili ancora un po’ sfocati nella mia testa di Aurora e Giovanni. Entro in
Rai; no, non faccio il presentatore, e neppure l’usciere da Vespa, continuo a
leggere il libro nonostante la sala si vada riempiendo di aspiranti scrittori:
di ogni età, e di tutte le velleità possibili. Resto un po’ ad ascoltare la litania,
poi scocciato mi arrendo, saluto, esco, e ai tornelli m’incastro, e accanto vedo
Riccardo Jacona che mi osserva come se fossi un piccione, o uno scemo. Sul 495 mi
rimetto sotto con la lettura, che si apre, e mi confonde spingendomi dentro a
quei sentimenti che ho sempre temuto, aspettato: quelli misteriosi e dolcissimi
che si vengono a creare tra un genitore e il proprio figlio. Infatti, Mara e
Giovanni cominciano una corrispondenza fantastica, che diventa l’appiglio
elastico per gestire un amore, un dolore; che intanto Aurora sente come suo fallimento,
ma a questo punto pare non si arrenda neppure lei, si defila con fatica e
determinazione, permettendo al marito e alla figlia di crearsi un mondo un po’ migliore:
popolato di frasi dolci, di animali da fattoria, e attese che colorano sogni a
venire. Al capolinea di Ponte Mammolo sto tifando per la saggezza di Aurora,
pilastro quanto Colapesce nel gestire le forze bestiali dello stretto, e delle
fragili consistenze del futuro famigliare.
Poi arrivo a casa e saluto la
famiglia, mi viene quasi da piangere a vederli lì con quegli occhi pieni e
desiderosi di aspettarmi, invece sorrido più del solito, e nel mio tono di voce
sento un sottile mutamento: ancora una volta un libro mi spinge un centimetro
più in là della mia condizione precedente.
Mi ritrovo nel letto e subisco beato
il crescendo emotivo del racconto: tutti dormono quando sento entrarmi dentro -
da sconosciuto - la storia degli occhi nell’epilogo
che fissano i miei già umidi, che stanno brillando di rimbalzo alle nuove luci
comunali a led. Fuori c’è il solito vuoto di silenzio, dentro aria familiare
che fa galleggiare paure e ignoti pensieri. Che bellezza questo minuto, mi
dico, e che tenera sorpresa questo libro così vicino ai miei pensieri.
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