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sabato 26 febbraio 2011

letture salvagiornate

Mi sveglio raffreddato e stanco nelle ossa, da una settimana di fatiche educative; poi leggo, anzi rileggo, poiché una decina d'anni fa l'avevo già letto, insomma divoro  il primo capitolo de "Una questione privata" e ritorna la serenità. Quella che, nonostante le angherie del proprio tempo, ti spinge più in là della propria condizione di semi-povertà. Quella di mai pienamente adattato. Allora ogni minuto post lettura sono attimi da sciogliere nel pentolone della giornata che si sta presentando.
Così ti viene da ringraziare la L., e tutte le meteore benefiche che durante i  giorni  danno una scossa al nostro torpore. Compreso l'amore.

giovedì 24 febbraio 2011

Massimo Volume - Litio

l'assedio

Mi sa che l’assedio di Gaeta, che chiuse l’era borbonica e decretò di fatto l’unità d’Italia, stia ancora dentro di me. Tramandatomi dai fantasmi travestiti da polpi grigi. Infatti, sento di essermi difeso negli anni arroccato dentro a una fortezza; il mare alle spalle dei giganteschi bastioni, lasciava un ricordo di libertà che sta a due passi, ma sia io, che i gaetani all’epoca, non ce ne preoccupiamo. Conta ripararsi dalle insidie esterne e aspettare i rinforzi interni.
Alla lunga il conto da pagare sta nell’eccesso di euforia nelle domeniche mattina. Poi, già nel primo pomeriggio, una malinconia d’abbandono che paralizza i sensi e fa vedere tutto nero. Provate a passeggiare per le vie di Gaeta vecchia nei pomeriggi d’inverno. Gli echi delle cannonate dei piemontesi sono nelle orecchie dei suoi abitanti che tramortiti si rifugiano in quelle gattabuie a sputare le cicche umide. I bambini, come uccelli in una stanza per sbaglio, sbattono contro le pareti e restano muti.
Certo, l’unità ha portato pace; sicuramente a me ha portato una gran voglia di scappare da quel buio nero, e riparare dentro il mare di caos che Roma mi offre ogni santo mattino.
Poi l’estate scuote le voglie e i desideri passeggiano nelle vie assolate del borgo.


domenica 20 febbraio 2011

allo scadere


Davanti ai quadri di pennellate nervose e luminose, J. si agitava e sorrideva, come un gatto davanti a un laghetto pieno di pesci rossi. Guardare i dipinti in fila indiana, tra facce capricciose e annoiate, da domenica pomeriggio elegante e ozioso di niente, non mi ha fatto godere a dovere. Poi, tra permanenti e lenti, mi elettrizzo davanti ai cipressi che sembrano scuotersi, alla faccia dell’aria satura e viziata del salone del Vittoriano. Non importa, erano anni che ti aspettavo, Van Gogh, e oggi proprio allo scadere sono venuto a vedere i quadri che da anni sono dentro gli occhi miei.
Evitando le scorciatoie retoriche, e forse non riuscendoci comunque, mi va di dire che alcuni suoi quadri sono universali. Escono con leggerezza da ogni antologia; si bloccano e scappano quando intravedono correnti. Esprimono un tempo proprio, che forse è quello viscerale e infantile, del sogno coniugato al presente.
I luoghi e i ritratti sono anche cartoline dei nostri giorni, ma la passione e le emozioni che contengono stanno solo dove riescono a trovare ospitalità: che nella notte, e in certi pomeriggi di scirocco, esplodono nelle nostre teste come schegge d’innocenza violata. Dall’estrema solitudine che chiama le nostre paure al riparo, e così facendo ingabbia ogni fuga. Restano le nostre facce sbigottite che si specchiano nei tuoi malinconici autoritratti.


sabato 19 febbraio 2011

bestiale


Osservazioni bestiali mi aspetto. Solo sguardi di cuore dentro a pensieri non ancora caduti: a terra, o nel dimenticatoio del quotidiano.
Provo ad avere un impatto d'istinto nelle solite cose del giorno. Insomma, cerco di non diventare il becchino compiacente delle mie mattine così e così.
Aspetto uno squillo, di telefono o di tromba, che squassi l'insostenibile quiete di fine febbraio.
Vabbè, l'impegno qui è solo velleitario di carattere (poco)letterario, meglio che vada a confondermi negli altri, e nel crogiolo di orgogli mai sconfitti, tirar fuori il meglio del giorno.
Che noia la depressione caspica che ti si appiccica alle caviglie...
bye bye tenebre di periferia

venerdì 18 febbraio 2011

non ci resta che citare

"Furono dati sulla mia bocca i baci di tutti gli appuntamenti,
sventolarono sul mio cuore i fazzoletti di tutti gli addii…"
Fernando Pessoa SM, I, 331

martedì 15 febbraio 2011

VELVET UNDERGROUND - FEMME FATALE

luce


Una donna bionda con grazia d’animale cantava da un palco

Poche persone ai suoi piedi, due uomini accanto

Applausi timidi e sguardi felini

Io in prima fila per sbaglio mi godevo la liturgia

Parole di luce su note flebili, poi un urlo

Erano le luci del punk che non ho mai abbastanza amato

Impazziva di luce, cantava e pareva non finisse più

mi rivedo a donare a una ragazza tanti anni fa questi suoni

lei incredula guardava i miei occhi spiritati

ma con lei non ci ho fatto l’amore mai

In fondo sempre in ritardo con la storia

lunedì 14 febbraio 2011

vanghe di periferia


Si doveva realizzare un muretto per dividere il giardino in pendenza, intorno al centro diurno. G. era in forma quella mattina. Fumava aspirando lentamente le sue Ms mild. Erano già due settimane che era uscito da Rebibbia, e l’idea di dormire sempre appiccicato a Teresa lo tranquillizzava, come a un bambino l’orsacchiotto. Anche se Teresa era pure esigente: voleva sempre il marito tra le gambe. Una ventosa, diceva lui al bar. Er Serpe annuiva come a dire” lo so, te capisco…”. Ma non diceva nulla. Annuiva, appunto.
Intanto i due uomini stavano organizzando un gruppo di lavoro più unico che raro: G. all’impasto; Paolo alla cardarella; er Serpe alla carriola; Massimino pronto con l’americana, e intanto allineava i mattoni; Massimetto tutto fare (chiamateme quando ve serve); Fabietto al piccone. Fabio alle misure. I due uomini un po’ qua e un po’ là.
La sfida parte verso le 10, dopo una serie di cappuccini al bar. “Portame la briosce co’ a crema”, urla Er Vipera.  E Massimetto “ a Vipera ma quanto magni, è il terzo da stamattina, li mortacci tua. Sei un chiodo, sei”.
Insomma si parte. Il via vai nel giardino a elle, che chiude l’intero edificio dell’Asl, sembra una scena di un film muto. Tutti accelerano con fare frenetico. Il medico di guardia del primo piano, affacciato come al solito con la sigaretta sempre con la capocchia intera - un vezzo impiegatizio, che fa incazzare gli operatori del piano terra - “sempre a non fare un cazzo, sto dottore sta sempre appeso alla finestra. Poi, quando i nostri vanno a rota, entra dentro come un codardo. Stronzo”.
Insomma, questo con la sigaretta incapocchiata, non crede ai suoi occhi: “questi so matti, stanno a lavorà davvero!” dice all’infermiere di turno. Che ribatte al volo:” mo mo, staranno a fa due cazzate per ottenere un permesso. Questi vogliono solo sta’ lontano da Rebibbia, so figli de ‘na mignotta, so”.
Intanto al piano terra, in giardino per la precisione, questi uomini non si fermano neanche per fumare. Corrono come neppure al cantiere dei mondiali del ’90. G. oramai è un masto, gli altri lo seguono senza batter ciglio. Pure Massimino, che di solito ha sempre da ridire, si è messo a disposizione. “A Giulià, quanto cemento ce metto nel canaletto?” e poi Er Vipera che sghignazza con i mattoni sulla spalla. Due alla volta, c’è da stabilire sempre una gerarchia. Non si scappa, questi senza la gerarchia s’innervosiscono. Ci vuole.

Ecco i due uomini alla fine della giornata. Il sole romano sta rendendo tutto arancione, e il Tiburtino somiglia un po’ assurdamente ai Parioli: una luce calda che annulla le differenze e fa diventare l’asfalto un tappeto orientale. Si stanno confidando, quasi stupefatti del loro successo. C’è pure Fabio con loro.
“Ma ti rendi conto? tutti a lavorare come al cantiere, e neppure li abbiamo pagati.”
“Eh sì, vedessi la psicologa come gongolava. E pure la segretaria, con la sua solita faccia da pazza, che sembrava facesse smorfie di sorriso, di tanto in tanto.  Fabio sei sfiancato, vero?”
“Un po’, ma so contento. Questi hanno fatto pure sul serio. Paolo sta ancora a controllare il muretto. Stanotte mi sa che dorme qua, si è proprio attaccato all’opera!”
“Meno male, stiamo sempre a fargli rispettare le regole, a contestargli i ritardi, almeno hanno fatto tutto senza batter ciglio.”
“Altro che psicoterapie brevi, grandi gruppi e ‘ste fregnacce qui. Questi vogliono fa’ le cose vere”
“Vabbè che c’entra, servono pure ‘ste fregnacce. Solo che se ne fanno troppe, e questi poi si rompono”
“e non sono loro….hihihi”

L'odore del sangue(finale) di Goffredo Parise .


domenica 13 febbraio 2011

Dente - Buon Appetito

dedicato a tutti quelli che oggi attraversano e vivono (un 'apparente?) difficoltà: sia solo una pausa tra il presente e il desiderio. in mezzo subbuglio da decifrare, magari in una mattina fredda di sole. Niente scorciatoie dentro a questo ventre di attese inaspettato.

sabato 12 febbraio 2011

certo, essere contenti che in Egitto sia andato via Mubarak, e che sia stato il popolo a farlo, fa piacere davvero; poi scoprire che i militari hanno la situazione sotto controllo, inquieta un po'....insomma, stiamo a rota di aria nuova e ci attacchiamo a tutto. in Italia, a Roma, a casa mia.
urge un rilassato distacco dall'attualità, per capire meglio cosa vogliamo. cosa siamo diventati.
ora mi viene voglia di ascoltare una canzone di Mina e provare a sognare con la testa di un uomo degli anni cinquanta. italiani. sia chiaro.




venerdì 11 febbraio 2011

Parole a Memoria

E ti vedevo con quella faccia fresca. Un po’ timida ti lasciavi andare all’amore dopo qualche accelerata risata. Niente d’inutile c’era tra noi, solo attimi da divorare nel caos del tempo. Quello che ci ostinavamo a passare sempre insieme. Oggi non è così, solo ritagli, tra giornate piene di serene routine. Ricordi quel viaggio in treno fino a Firenze a sperare in un anfratto per toccarci e liberarci dei lacci che la lontananza procurava? Poi sì è recuperato tutto, compresi i giochi spinti e le beate conseguenze dell’amore.
La nostra storia è scritta già: nei pensieri degli amici e in quelli dei nostri figli.
Quello che resta è un’aggrapparsi al senso, dei giorni, delle notti e di ogni gesto mai appieno capito. I tuoi occhi carezzavano i pomeriggi dentro le case che abbiamo abitato. La sera era un cercare continuo occasioni di vita; non si sprecava nulla, non ci spaventava niente. Dominatori di strade sterrate s’inseguiva il desiderio di somigliare ai nostri miti. Gli anni settanta in tasca, e nel cuore i nostri corpi. Intorno felicità barcollante nella più dura realtà, che ci poteva capitare, che ci poteva investire: bombe che fanno saltare speranze, dentro a delusioni cocenti del nostro tempo.
Eccoci ancora qua a leggere i fondi di caffè, e nel farlo, di nascosto uno dall’altro, ci accorgiamo di resistere in compagnia di un vecchio, e mai seppellito, desiderio d’amore.

giovedì 10 febbraio 2011

fraternale

Mentre giocavo mi giravo di scatto sul campo di calcio : non c’eri, non ci sei mai stato. Forse non sei mai venuto a vedermi correre dietro al pallone. Già, stavi muto dentro alla tua corazza, arrugginita dalla troppa umidità del mare.
Caro mio oggi sono grande io. Ti vedo piccolo e lontano.
Non c’è neppure un campo di calcio a dividere le nostre storie. Solo nebbia insolita che mi guida verso il prato verde del sogno: le gambe scattanti di mio figlio scartano le scorie tossiche della mia storia. L’altro mio figlio ride forte con gli occhi quasi come i tuoi.
Nella notte che sfuma verso il ricordo già sento l’eco del sogno di vendetta che prometto. Ma non sarà così, stanotte piego sul cuscino il lato buono del ricordo: e la tua faccia spaurita e pallida della mattina dell’abbraccio fraterno, carezza il primo sole del mattino.
Ora nell’abbaglio del pensiero nostalgico, mi ricordo che volevo essere come te. Almeno fino a ieri. Ora ho tanto da imparare da fratelli venuti per caso a bussare alla mia storia.
Sei linea che si perde. Nella direzione del niente. Altro non mi viene, e allora aspetto il prossimo ricordo.

Bobo Rondelli - Licantropi

Stavolta avevo meno aspettative. Andare al concerto è stato più un’occasione per incontrare amici, che non una voglia di ascoltare musica. Invece l’ascolto dello spettacolo di Bobo Rondelli, mi ha scatenato un’infinita gamma di emozioni. Come sempre mi sono commosso davanti a “Shangai…”, “alla Marmellata…” “Gigi balla”; poi anche risate, qualche pensiero malinconico sul tempo che scappa, e infine un po’ di rabbia: quando l’artista si dimena a fare il clown e cosi va a mortificare le proprie canzoni, facendosi burla della sua verve sentimentale. Insomma, va bene tra un pezzo e l’altro raccontare cose strambe e divertenti, ma quando canta, Bobo dovrebbe farsi imprigionare dal demone della poesia. Tanto c’è, è inutile che tenti di scacciarlo via, quello emerge e lo accompagna attraverso il suo cantato perfetto, e con tutta la scia di sentimenti che si dissolvono lentamente al termine dell’esecuzione.
Mi ha fatto piacere vedere Filippo Gatti seduto tra gli orchestrali, che silenziosamente dirige verso suoni armoniosi e compatti. Fa piacere rivedere personaggi che ci hanno accompagnato in questi anni, e nell’osservarli capisci che il loro valore aumenta a vista d’occhio….
Le nuove canzoni presentate da Rondelli sanno di poesia masticata con la bocca aperta al mondo: Loi e Caproni gli ispiratori, che finiti dentro le sue canzoni diventano linfa dai colori malinconici. Ma quanta vita esprime Bobo? nel suo aspetto trasandato, e un po’ ingrassato, s’intravede una gran voglia di giocare con i giorni a venire. Noi lì davanti alla transenna pressati dall’urgenza di annusare e prendere tutta l’energia che c’è.
Così la serata finisce e mi trova seduto a fare il narratore ironico: gli amici che mi abbandonano per buoni motivi. Gli altri che si sentono in dovere di bere ancora una birra con me. Claudio che mi ringrazia... E altri ancora con la voglia di mostrarmi il piacere di aver condiviso bellezza e vita, in una serata pungente che sa di cinema d’essai dentro a un giardino ghiacciato e accogliente.
A me tutto questo fa tremare le gambe. Mi raddrizzo solo dopo aver capito che intorno c’è affetto, e che per prenderlo ci vuole Arte e pazienza.
Magari alla fine mi prendo in giro per il mio egocentrismo bambino, che avvolge la mia faccia, e costringe le mie mani a gesticolare per disegnare storie altrimenti abbandonate dentro la testa, e in questo misero blog invernale.
E so contento!...

martedì 8 febbraio 2011

mentre scrivevo 'sta cosa frullavan 'ste note: che ci posso fa?


Il fascio di nervi che ricopre il corpo asciutto e muscoloso di mio figlio, mi dà pensiero. A volte determinano cambi improvvisi d’umore: pianti e scatti d’ira, soprattutto. Non dovrei preoccuparmi tanto. Anch’io facevo così, e pure mia sorella. Mio fratello no, tutto dentro tratteneva. Stitico in senso lato. Insomma, una dannata tradizione di famiglia. Un incrocio di storie da rivedere; L., ti prego esci dalla tradizione e corri via verso nuove città, verso asciutte prospettive di serenità.
Tanto già mi consola il saperti sensibile e veloce di pensiero come me. In fondo sei educato come lo ero io tanti anni fa. Non ce ne vergogniamo. In solitudine provvediamo a rispondere al viscerale bisogno di stare in pace sulla terra, anche senza lo sfarzo della bontà, ci riteniamo allo sbando dentro a vorticose prove di civiltà.
Poi arrivano le corrosive prese di posizione verso la realtà: allora i pianti diventano pensieri d’incubo, e alcune facce che parevano amiche d’improvviso diventano sospette. Allora l’incanto si frantuma, e gli anni adulti sono passaggi su ponti tibetani, senza imbracature sociali.
Figlio delle mie speranze ingiallite, rompi i vasi di retorica che ti avevo messo da parte; con i cocci divertiti a fare i cerchi d’acqua nei laghi limpidi del Canada o delle Alpi. Spariglia quelle unte carte che ti sto accantonando negli scaffali virtuali. Spolvera gli inutili ricordi nostalgici che mio malgrado deposito nel sottoscala.
Ma non dimenticare di annaffiare e concimare quelle poche piante che sono riuscito a far sopravvivere: stacca le foglie secche e usale per riscaldarti durante i gelidi inverni a cui andrai incontro. Che sia tiepida la mattina in cui avrai deciso di liberarti del mio ingombrante pensiero; e splendido e luminoso quel giorno ventoso in cui mi avrai perdonato. Stasera mi sento foto incorniciata dentro ad una stanza colorata: vedo la mia smorfia che riceve sguardi curiosi e di simpatia.
Stasera mi basta questo ricordo di futuro.
Stasera mi basta averti detto le solite parole di dolce routine prima del sonno.
Domani ogni cosa al suo posto.
Gli anni come aghi di pino che mossi dal vento si stagliano sulle nostre facce. Ci difendiamo a stento, e cerchiamo una tana dove rifugiare le nostre storie.

lunedì 7 febbraio 2011

mia sorella e la sigaretta


A mia sorella non piaceva venire in campagna, o afor’: questa parola usavano quelli della mia famiglia per indicare la campagna, cosi si diceva, forse, solo perché un tempo fuori dalle mura del paese, ma a me quella parola risultava molto densa di significati fascinosi. Ancora oggi mentre la pronuncio nel silenzio della mia mente provo un piacere di scoperta, mai fino in fondo avvenuta, di un mondo a me lontano e che si presenta come leggenda da conservare. Anche solo nella testa. Insomma a Concetta, mia sorella poco più grande di me, la campagna non esercitava nessun fascino. Anzi, forse in fondo la detestava come non sopportava certe faccende famigliari. Io no, per me la campagna veniva prima di tutto. Mi piacevano anche tutte le vicende famigliari che vivevo sempre appiccicato ai miei genitori: sempre a piedi sulle strade di Gaeta.
La macchina mio padre non l’ha mai avuta, e per la sua epoca non era in fondo una grossa anomalia. Insomma, nonostante il distacco di mia sorella per i fatti della terra e della famiglia, è immortalata con dei capelli da maschiaccio, accanto a me, davanti al lungo viale che dalla campagna’ di Zi Giannin porta fino all’Appia. Mi teneva un braccio al collo e mostrava un delicato affetto ancora oggi non del tutto svanito. In fondo all’immagine s’intravede il mare del golfo di Gaeta, anche se lattiginoso di foto in bianco e nero.

 Ora questa foto è alla destra della mia scrivania e mi strugge il pensiero che un giorno possa consumarsi nel gorgo del tempo.

Un’altra abitudine che avevo in quegli anni in campagna era di fumarmi una sigaretta nel pomeriggio, dentro al mio rifugio che stava poco sopra al mio orto. Si trovava in cima ai terrazzamenti e a circa duecento metri dalla casupola dove mio zio alloggiava durante la giornata. Comunque lontano dalle serre e quindi dalla parte dove lui era più impegnato nei lavori quotidiani di cura delle piantagioni. I pacchetti di sigarette erano di provenienza americana. Un cugino o uno zio di Zi’ Giannin le portava di tanto in tanto; emigrato negli Stati Uniti nel dopoguerra come era stato emigrante Zi’ Giannin nel Venezuela. Anche se per pochi anni, giusto il tempo di capire che la sua storia doveva compiersi in Italia, a Gaeta, a Vnnic’, Afor’. E non nelle remote Americhe, che forse arricchivano qualcuno, sistemavano molti, ma, in fondo, spesso sradicavano pure intere generazioni.
Fumavo a dodici anni una sigaretta al giorno non come vizio, ma come abitudine da rispettare; a modo mio ero entrato nel mondo degli adulti: avevo l’orto, prendevo l’autobus da solo e fumavo in cima alla campagna, poco sotto alla ferrovia Roma - Napoli. I treni sfrecciavano a circa cinquanta metri dalla mia testa; e ricordo che da piccolo salutavo con la mano imperterrito ad ogni passaggio di treno. Erano tanti che passavano su quella linea, ma io non volevo far un torto a nessuno… allora pure i treni merci salutavo, con le loro macchine traballanti e colorate. E non solo il macchinista, ma anche tutte le Fiat in fila.



Where is my Mind? - Pixies

Ieri sera alla lettura della notizia - sul sito di Repubblica - della morte dei quattro bambini nel campo rom dell'Appia non mi ci sono soffermato neppure quattro secondi. perchè?
poi, all'edizione del tg3 mi sono quasi commosso, perlomeno "me ne sono accorto".
la mia testa a volte non so dove stia: tra il nulla dell'ansia, e il poco del presente. mannaggia alla capa mia...

tengo duro fino a domani...

venerdì 4 febbraio 2011

Neil Young - Alabama

Me ne andavo in giro con la voglia di incontrare te. Scappavo dalla noia pomeridiana e mi aggrappavo alle spalle forti del mio amico. In tasca pietre aguzze mi tenevano saldo alla terra: che brulla si sgretolava alle mie spalle. mia sorella sull'uscio con una vaso di fiori in mano. Dall'alto nulla si riconosceva, si restava anonimi e sereni fino alla sera.

giovedì 3 febbraio 2011

vanghe di periferia

Il caldo improvviso di maggio investe l’intera città. Di certo, e questo resta un mistero al pari di quelli di Fatima, in periferia fa più caldo. Qui esplode il caldo. Sarà il cemento. L’asfalto o i pochi alberi presenti, ma questo pensiero mi fa sentire un po’ più martire di quelli del centro; quando al tiggì parlano di esodo, immagino noi della periferia in prima fila: avvantaggiati dalla vicinanza delle autostrade ma, soprattutto, più scottati degli altri, pariolini o del quartiere monti che siano.
Insomma c’erano questi due uomini dentro al bar “del nasone”, al tiburtino III. Al riparo si raccontavano degli ultimi fatti:
“….e quello lo voleva buttar di sotto. Diceva: “Ti piglio per le gambe e ti lancio dalla finestra”.
“e Fabio?”
“quello non arretrava. È di coccio a volte, bravo e paziente lo è, ma il pericolo cazzo lo vuoi fiutare?”
“Già, pure quella volta che Paolo gli stava dando una vanga in fronte. Ti ricordi? Voleva sfasciare il muretto del giardino appena costruito.”
“come no, quel pomeriggio è dovuta venire la psicologa. Che sembrava la suora in “Amarcord”, quando ha fatto scende Ingrassia che urlava: voglio una donna!”
“ah ah ah, è vero. Stessa scena. Cambiava solo il panorama alle spalle. Noi con i palazzoni grigi con gli infissi rossi. Nel film un paesaggio morbido e ovattato.”
“mo’ ti metti a fa il critico cinematografico….”
“ vabbè, che dobbiamo parlà solo di culi e spacci?”
“ infatti, caro mio qui tocca difendersi. Mica abbiamo la famiglia a carezzarci le spalle. Quelli non ci cacano affatto. Tocca studià, leggere, andare verso il centro. Mortacci loro”
“chi?”
“ i costruttori, gli architetti, gli urbanisti. E pure i politici. Na manica de squali.”
“vabbè mo’ non esagerà…insomma, alla fine Fabio è riuscito a mangiarsi gli spaghetti con le vongole che aveva preparato Enzo, quello che voleva lanciarlo dalla finestra. Ma se non intervenivo, con la trattativa che nemmeno la CGIL, quello ora stava al Verano . Enzo è uscito l’altro ieri da Rebibbia, e mi sa che ci vuol tornare il prima possibile. Qui è disadattato….”
“bella questa, ma in fondo è vero. Quelli da noi soffrono. Vogliono la libertà di fare i cazzacci loro. Dentro.”

Eccola, ora entra Teresa nel bar. Completo leopardato e cagnolino ai piedi. A vederla sembra la Parietti, ma appena apre bocca pure i poster di Tomas Milian alla parete si piegano un po’. E’ bella però. Una sgraziata immagine che al tiburtino diventa una “proprio bona”. E lo sa bene G., che tutte le sere soffre sul letto di prigione, al pensiero che la moglie possa andare a casa di Nazzareno. Quello già una volta non ha risparmiato neppure un lembo di carne: tutta nella sua bocca è passata. Caviglie comprese. Teresa che poteva fare? Erano due anni che G. stava dentro. Poi gli ha promesso che non l’avrebbe fatto più. Almeno fino alla prossima condanna.

martedì 1 febbraio 2011

una faccia amica

Cerco una faccia amica che mi salvi. quella vecchia signora fa scappare anche le pulci. volevo abbracciarla, ma il suo seno enorme mi spaventava. Vago nel pomeriggio grigio e cerco due braccia enormi. vedo solo un bambino tremante con in mano una bomba. come nella celebre foto della Arbus, e così io guardo la mia storia come dentro a un libro. pochi tratti gradevoli: a me piacciono i tratti marcati. I profili osceni. Destini segnati che graffiano il mondo e sulla scia di sangue che lasciano analizzo gli anni a venire. Addio vecchie anemie. Ora accetto solo malaticce condizioni. Il contagio salverà il mio decadente buonismo.
Per oggi basta così, ché la gamma di grigi ora si avvicina al nero: che a colori diventa rosso vivo.

hawaii da shangai - figlio del nulla - bobo rondelli




un altro spettacolo d'arte varia che non mi perderò: al circolo degli artisti il 9 febbraio.
ho bisogno di melodie. un richiamo di culla lontano.