All’epoca leggevo “Scritti corsari” notte e giorno, a casa dei miei, in
una stanzetta disposta alla Van Gogh: invece sarei dovuto stare a Firenze nella
scuola di Luciano Ricci a imparare come si fa lo still life. Leggevo Pasolini
per nascondermi. Qualche anno prima avevo varcato una clinica psichiatrica per
quindici giorni di fila: ci andavo a trovare una persona importante. E in quei
giorni mi è piombata addosso la certificazione sociale della mia diversità:
testata cambiando quattro prime superiori in tre anni. Avevo la testa che
somigliava a una giungla: l’allerta, l’ansia e la solitudine sostituivano
l’acne, le ragazzette e le canne. Facevo finta di niente, come se quelle bufere
non accadessero proprio a me, e addirittura da quei giorni ho cominciato a
sentire di poter salvare gli altri con
la buona volontà, l’esempio. Figuriamoci se non mi salvavo anch’io, nel
frattempo. Così Pasolini compare nella mia stanzetta e mi fa: Io so, ma non ho
le prove. Fu un gioco da ragazzi stare
dalla parte dei giusti.
Leggendo un pezzo su Rivista Studio mi è venuta la smania di disobbedire
alla retorica e andare giù pesante contro la mia storia, e vedere bene cos’era la mia passione per
l’intellettuale di Casarsa. Sì, perché
la lezione di Pasolini io l’ho consumata mischiandola pericolosamente assieme
alla mia inconcludente formazione, e poi nelle conseguenti mille peripezie
lavorative. Dalla frequentazione di quei casi disperati, grovigli d’ingiustizie
e sofferenze ho scoperto di aver sbagliato quasi tutto: avrei dovuto iscrivermi
a Lettere, non a Scienze dell’Educazione. Punto.
Correvo lungo le strade piene di erbacce del mio quartiere, con De
Gregori nelle orecchie e pensavo all’idiota convinzione di allora di sentirmi
bene in brutte periferie: ricordo che costringevo i poveri amici che venivano a
trovarmi a Roma a tour domenicali per Tiburtino III, quartiere senza nemmeno
l’ombra di un’imminente gentrification. Poi quel godere imbarazzante nel fare
del bene, e quel leggero stato di trance quando sentivo di non dovermi preoccupare
a imparare, perché mi bastava essere.
In fondo me ne fregavo di quelle vocine che mi dicevano che stavo sbattendo soltanto
contro un muro pieno di locandine di concerti in topaie o di cineforum
anticapitalisti: dietro quei muri terribili solitudini a cui solo adesso riesco
a dare un nome. Segretamente disprezzavo quell’approssimazione nei ragionamenti
che circolavano in quel periodo sia nella mia testa che in certi luoghi che
adesso fatico a considerare frequentabili: tutta quella fredda ideologia come pioggia
insistente sulle nostre teste frastornate dal tempo. Mi rivedo in quella strada
dritta e buia, nel quartiere degli studenti, con un magone che mi scivola fin
dentro i pantaloni a coste di velluto, in compagnia della disperazione
silenziosa che non raccontavo a nessuno, nemmeno a te.
Tanti
anni fa, in un pomeriggio di giugno, passeggiavo al Circeo con Pino quando lui all’improvviso
mi fa: un giorno vorrei comprare una casa qui, dove ce l’avevano pure Pasolini
e Moravia, ché a me il progresso e le industrie piacciono, eppure migliorarsi
individualmente, come anche vivere nelle belle case. Io risi senza fiatare,
come quando le mie convinzioni si voltano da un’altra parte lasciandomi solo
davanti alle cose della vita: e mo’ rispondi tu, fanno loro, non possiamo
consultare il manuale del perfetto pasoliniano qui al mare, facci fa’ un tuffo
in pace. Anni dopo ho capito che Pino stava un po’ più avanti delle mie
convinzioni, e ora che è morto sento di restituirgli una sottile verità che,
insieme ad altre che ho conquistato negli anni, hanno ribaltato le mie
convinzioni; nel frattempo erano diventate pallide come l’ingresso di un pronto
soccorso d’ospedale.
Arrivo a un’attuale convinzione: io Pasolini non l’ho conosciuto
abbastanza. A parte il divorare gli Scritti corsari, svariati articoli e
qualche poesia, già quando ho letto Ragazzi di vita ho fatto fatica a finirlo.
Il Decameron lo vidi più volte con piacere ma Le 120 giornate di Salò era
davvero pesante come film, troppo lontano da me. Così oggi la cosa più
rispettosa da fare sarebbe rivedere bene Pasolini, con un approccio da pescare proprio
in una delle sue rinomate ossessioni: non vi omologate!
So di aver detto qualche anno fa che
la freschezza di Parise stava scansando per sempre Pasolini dal mio scaffale
ideale, e oggi, dopo un lavaggio stirameno in lavatrice delle mie convinzioni,
capisco che studiare, aspettare e divertirsi sia la miglior arte per
avvicinarsi alla vecchiaia con stile, dimenticando quello che non ci appartiene
più, e forse non ci è mai appartenuto davvero. Care vecchie e vigliacche
convinzioni mie non perdonatemi: lasciate soltanto che scorra questo torrente di
fatti e pensieri fino al loro affluente ancora ignoto.
Questo ieri.
Invece oggi.
Alla fine ora abito in una villetta a schiera, e con la mia famiglia cerco
di andare a tutte le domeniche gratuite nei musei, poi, ogni giorno, controllo
nuove parole al vocabolario, e di altre ancora scopro la pronuncia sull’app del
tablet: sogno che le cose che scrivo vadano dritte nella curiosità di alcuni
scrittori che mi piacciono. Nei risvegli annoiati mando messaggi per stare anche
nelle storie degli altri, ascoltandone le quiete risposte diaboliche: come
stai? ma quando ci vediamo? Siamo diventati un insieme di sopravvissuti che cercano
di scacciare via le epoche passate come se fossero soltanto delle zanzare giganti, in pomeriggi tutti uguali, dolci,
afosi e misteriosi davanti alle nostre cialtrone convinzioni. E’ tutto quello
che mi sta accadendo di buono oggi.
2 commenti:
Bellissimo!!complimenti amico mio lontano.
Grazie, vicinissima amica mia.
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