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domenica 28 agosto 2016

fichidindia

     Poi ti capita di passare una giornata presso una masseria diventata nel frattempo un luogo per eventi, in provincia di Caserta, dove le strade sono piene di copertoni e prostitute. E sto lì al tavolo con un amico quasi sessantenne, ex fricchettone, uno che mette il panama in testa e riesce a essere sprezzante col mondo intero poco prima di tuffarsi vestito in piscina. Una volta riemerso gli ho chiesto se sapeva da chi era gestito questo posto, e lui, denso d’alcol e rimpianto, mi dice che è una lavatrice di soldi sporchi, ma per poi ammettere, con fare da attore alla Carlo Cecchi, che la sua generazione oramai spara solo cazzate. Romantiche cazzate, che però a me continuano a piacere, così come mi piace fissare quell’attimo prima della decadenza, chissà perché.


E durante la cerimonia ho continuato a chiedere se questo posto è “pulito” a un vice-sindaco, che mi farfugliava mah, chissà, e poi… a un altro parente, che dissertava come un travaglio qualsiasi; c’era poi chi mi rideva in faccia malizioso, e alla fine mio cugino Pasquale che si è ritrovava il mio stesso stupore in volto: magari questi sono diversi, e checcazz! Poi ho scoperto che sì, sono stati minacciati all’inizio, ma che poi sono riusciti a far incarcerare quei delinquenti. Tanto lo so che i “Io so, ma non ho le prove” che Pasolini disseminò in giro, qui, nel basso Lazio o nell’alto casertano, hanno attecchito più delle palme delle Canarie. Insomma, qui tutto si regge sull’emotività, sul pessimismo borbonico o ex-extraparlamentare e nessuno ha voglia di dire le cose per come sono davvero, per come nascono, si sviluppano e poi muoiono: come gli uomini, come le idee, come quell’Erica aggrappata alla Montagna spaccata. Questo vale anche per le questioni personali. Io, per esempio, ho una situazione famigliare stramba da sempre, a tratti angosciante, che gli altri conoscono, eppure, da anni, sono pochissimi quelli che mi hanno chiesto: Come stai? col tono affettivo giusto, di quello che ti fa rispondere senza fretta di troncare per paura di annoiare. Queste persone che l’altra sera ballavano e ridevano io le ho amate tantissimo, fino poi a odiarle altrettanto: anche se non riesco a essere sprezzante come l’ex fricchettone col panama (ti voglio bene ancora, eh!). Io non voglio invecchiare, pensavo stamattina sull’amaca mentre provavo a leggere, senza note, i canti dell’Inferno salvati sullo smartphone. Io voglio scappare dai clan, no, non solo da quelli gomorriani, soprattutto da quelli semplicemente famigliari: nell’aria ci sono turbamenti neri d’invidie e litigi e accuse e risentimenti e diffidenze e vafammocc’. Qui è così. E ci sono scappato nel ’90, per paura di crollare in una depressione coperta da mascara e birra.
Alla fine della serata l’ex fricchettone, oramai a modo suo integrato anche se nel fine settimana sputa veleno bevendo vino rosso buono, e che a me continua a stare simpatico, comincia a delirare spaziando su una gamma d’odio che partiva dagli ebrei, passando dai napoletani e finendo coi gay.
A questo punto gli ho messo una mano sulla spalla, ho abbassato al minimo il tono della voce e cercando l’espressione più dolce e accogliente che avevo appresso, e gli ho sussurrato: buonanotte, amico mio.

  

  Ieri sera il grande ha cominciato a parlarmi dei suoi problemi di comunicazione con gli amici “quelli quando io gli racconto di me mi troncano e cambiano discorso”, scoppiando a piangere alla fine della frase, come se avesse rivisto quell’espressioni chiuse. Allora l’ho abbracciato e mi sono sforzato di non dirgli cazzate, così ho aspettato alcuni minuti, facendolo piangere sotto quell’ulivo dove fiondava luce lunare, e riabbracciandolo gli ho appena sussurrato “ti voglio bene”, con il tono giusto, almeno credo. Dopo siamo usciti a prendere il gelato. E dopo ancora ho rischiato di mettermi il panama anch’io e…
(continua domani).

sabato 13 agosto 2016

elogio degli altri


  Ieri sera ho cenato con certi parenti che vedo circa una volta l’anno. Di solito in queste situazioni mi isolo, o bevo, o rido sguaiatamente: di solito non vorrei essere lì. Ieri invece volevo esserci, e non perché ho cambiato idea su di loro né per mancanza d’altro o per un’improvvisa affinità. Forse perché in questi giorni di ferie ci siamo portati appresso troppa tensione poi esplosa in macchina, a tavola, in piazza, e tale da farci rinunciare anche ad andare al mare. Fino a farmi sputare parole sentenziose di cui oggi mi vergogno. Siamo così serenamente una famiglia stramba eppure non abbiamo ancora imparato del tutto a convivere con le storture che ci portiamo appresso dall’infanzia. Qui è tutta aria di famiglia che ci pressa e rende piccolini nelle scelte, nelle parole e nei ricatti ma ieri sera sono riuscito a superarmi e dare il meglio di me: ascoltare ancora di più gli altri, praticare con grazia l’autoironia, e rafforzare l’ironia dei loro racconti. Loro parlavano di Cina o Ungheria e io di Anagnina e mia zia, eppure, ascoltare e poi far rimbalzare i racconti su quel prato ben annaffiato è stato così umano. Sì, lo ammetto: gli altri mi hanno salvato. E vale per tutti gli altri con cui ho condiviso racconti, risate e dolori. Prima degli altri ero introverso e presuntuoso: un groviglio sensibile di fumosi pensieri grandiosi.

Risultati immagini per la prima verità simona vinciHo finito di leggere La prima verità di Simona Vinci. 
Un libro che contiene tante storie legate dal filo nero della diversità internata, maltrattata e abbandonata su un’isola greca o sui marciapiedi di Budrio. Nel libro c’è una parte in cui la voce narrante racconta del rischio corso di cadere nell’isolamento mentale, di perdersi. La mia storia è ancora segnata da tale spavento: mi rivedo chiuso nella cameretta con la scritta sulla parete SIETE TUTTI STRONZI, fatta con la bomboletta. E tutto stava per esplodere, e tutto stava finendo già a quindici anni. Me la ricordo quell’ombra che si lanciava sugli scogli in una notte di novembre. Ora quell’ombra addirittura mi ripara a volte, e mi sconvolge in altre ancora, ma soprattutto oramai mi guida e spinge a frequentare gli altri, ad amarli fino alla devozione, a scappare dalle paranoie e dai silenzi quasi più lunghi dei pomeriggi afosi e massacranti di luce d’agosto. 
Simona Vinci ha scritto questo libro che è una benedizione per quelli come me che hanno sfiorato questo isolamento e che oggi se la ridono nel fa ridere gli altri in cene estive inimmaginabili d’inverno, o tempo fa.
   In questi giorni ho inviato messaggi a persone speciali – a certi altri che sono ancora più altri di alcuni – invitandoli a raggiungerci al mare disegnandogli a parole momenti di assoluta meraviglia, per conquistarli e trattenerli da me: loro sono occhi e braccia che valgono più di mille paesaggi tropicali. Nella mia testa ronzavano tour culturali e gastronomici da riservare a questi ospiti-soccoritori. So che poi gli avrei inflitto anche un po’ della mia ansia, e di quel misto di sottomissione e dedizione che caratterizza, e caratterizzerà sempre, il mio eccitante ospitare.




domenica 7 agosto 2016

E la chiamano estate? (domani, sì domani)

Insonnia.
La tavolata era lunga, fino al fondo dei nostri fallimenti. Sulla tavola frutti di mare, vino, cocomero. Mani timide, mani piccole, tutte a prendersi sprazzi di vita altrui. Sì, si stava insieme per convenienza, per una forzata serata di utilità sociale. I bimbi sono gli unici a saperlo per davvero, e per questo, forse gli unici a fingere di fingere per acchiappare qualche briciola di sincera beatitudine. I bambini lo sanno, e le bambine ancora di più, che il mondo rotola fingendo di stare fermo: così gli adulti si scannano in un precipitare di parole e rancore. Credi di fermare il mondo con qualche bicchiere di vino bianco tracannato di fretta, senza grazia e con quella faccia che a tratti lascia intravedere la smorfia del bambino che eri.
Dopo dieci righe nere.
Non posso che dichiarare tregua al mio precipitare fin dentro la notte dell’estate: non riuscire a dormire, non riuscire a scacciare via la fatica e il fallimento. Leggevo La prima verità ma sapevo che avrei dovuto scrivere la mia ultima bugia. La sincerità delle notti insonni l’avevo dimenticata. Quando senti le facce deformi dei parenti che volteggiano nella stanza, e quelle degli amici, minuscole, che si nascondono negli armadi nel preciso istante che ti siedi sul letto per pensarli.
Dopo sei righe grigie.
La porta socchiusa sul giardino buio. I pomodori dell’orto pomiciano con le melanzane, tradendo così il basilico, che intanto guarda sgomento la scena pur non cedendo lo stesso alle lusinghe della fragola. Il melograno copre tutti zeppo di frutti e pazienza, e aspetta la leggerezza di fine settembre quando gli restano solo foglie e tempo per fantasticare un’altra primavera di api e di acqua.
Dopo cinque righe colorate.
Alle cinque e tre minuti sento le ossa dentro gli occhi che reclamano un letto.