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giovedì 16 ottobre 2014

Cosa c'è alla fine di una generazione?

Quando ricomincio ad ascoltare i Diaframma vuol dire che qualcosa sta finendo, cambiando, rinascendo. Fiumani è l'aiuto catarsi per me, e interviene, suo malgrado, a determinare miei improvvisi e silenziosi passaggi epocali. Più sembrano che non siano politiche, sociali, morali e bla bla bla, e più le sue canzoni smantellano la mia mente, scuotono le arterie e stabiliscono un nuovo ordine, come direbbe Matteo Nucci. Aiutano a farlo, sia chiaro, il resto dipende da me.
Sì, lo so, sembro puerile, legato a una cultura apparentemente bloccata e viziata dai desideri a buon mercato. Ma cosa ne sai tu di me? mi verrebbe da dire a chi si avventa e sfiora la mia superficie online. Io scavo come un matto ogni giorno per aprire varchi, conoscere la differenza tra un avverbio e una congiunzione; mi sveglio ogni giorno per amare la cultura classica, per scacciare quel po' di ideologico e disumano che mi trascino ancora dietro come coda incendiaria e ridicola: testimonianza di tempo usato e saturo.
Cosa ne sai delle responabilità che allagano la testa e che ti fanno abbracciare di notte i figli, come in una stiva di una nave?
Me la caverò, ce la caveremo, ogni cosa avrà la sua giusta luce di riconoscenza. Intanto il tempo passeggia con me, in queste strade mai viste.



mercoledì 8 ottobre 2014

la spigola e la pausa pranzo

Ieri percorrevo a passo d’uomo la Tiburtina, fino a Tivoli: sul sedile posteriore avevo i fratelli fallimenti di questi anni. Case sgaruppate abitate per necessità. Posti di lavoro come manicomi, e uno per davvero: e io dentro a fare il basagliano con contratto a tempo indeterminato. Dopo i miei subconsci segnali di disobbedienza, che si traducevano in ritardi e malattie, sono stato sbattuto fuori proprio l’ultimo giorno di prova.
Stavo in macchina poco prima di Villa Adriana e sentivo quel puzzo di fogna-travertino e vedevo quel sabbione sporco ai bordi, e pensavo che questo scenario è stato permesso da ogni genere di giunta comunale. Da lì ci passano tutti: magistrati, preti, cittadini attivi e compagnia cantante, eppure, quella sabbia che si deposita ai lati delle cave fa parte del paesaggio, come una brutta abitudine che col tempo sembra faccia meno male. Come buttare le cicche per strada: si è sempre fatto, eh, direbbe il fumatore e qualche mio amico fricchettone. Una manica di abitudinari maschilisti ci governa i giorni, e quelli più velenosi non hanno ancora pieno potere: cialtronano leccando il culo nei corridoi affollati.
Ma lasciali stare, direbbe la vocina stronza. Ma come faccio?
Oggi mi godevo la mia mezz’ora di pausa, al sole d’ottobre, dopo cinque ore di ventisette bimbi negli occhi e nella testa, pianti compresi. Stavo nella piazzetta del quartiere veltroniano dove lavoro: ci abito pure in un quartiere simile, e dio solo sa quante illusioni si stanno sgretolando in quelle aiuole incolte, zeppe di cicche e preservativi, che perimetrano come un’isola viziosa e vuota il quartiere dalla città. Insomma, mi siedo a gambe accavallate sulla panchina di fronte al bar – niente caffè, niente dolcino, 1100 euri sfumano subito – e osservo quelli che prendono il caffè ai tavolini del bar. Focalizzo l’attenzione su due. Uno grosso, sulla cinquantina, l’altro tozzo, sulla trentina. Lavorano alla sede centrale di una grande banca italiana. Quello sulla cinquantina fa: oggi me so’ magnato una spigola e cento grammi de’ patate. E aggiunge, stavo dietetico comunque. Ecco, in quel preciso istante, mentre usciva l’ultima sillaba piaciona, in quel frammento di post-veltronismo, io e la mia coscienza ci siamo osservati allo specchietto del Mercedes parcheggiato: io e lui abbiamo lo stesso articolo 18, io e lui però siamo distanti come Domodossola e Canicattì. Eppure, ci legano una piazza, un suolo, una lingua e uno Statuto dei lavoratori. La spigola alla pausa pranzo no, e neppure la prospettiva: lui guardava me e la mia maglietta unta di bimbi, io lui e la sua giacca immacolata d’ordinanza, come fondale di un’intera diseguaglianza.


Non raccontateci imprenditori e sindacalisti, politici e giornalisti, di unità, di stesso comune destino, di alleanza strategica, del stiamo tutti sulla stessa barca. Perché no, caro mio panzone con la spigola in corpo già il mercoledì in pausa pranzo: ché su quella barca fino a qualche tempo fa c’era mio padre, e, magari, pescava le spigole per tuo padre: che poi portava, magari, come dono la domenica mattina a qualche console democristiano ciociaro.
Io mi sento forte dentro a una storia di sconfitte e rinascite, mica mi perdo davanti alle grossolane differenze che persistono, nonostante la tecnologia e la letteratura, e che spaccano il dibattito in due; no, io sto già a camminare lungo i bordi di memorie future. Bye bye.
Non importa cari miei, davvero, ché io da sempre preferisco le insuperabili alici fritte alle spigole cotte su piastre bisunte.
P.S.
A me che ci sia la ricchezza non disturba, che ognuno scelga come gli pare il proprio castigo; a me disturba, e tanto, che ci sia un eccesso di ipocrisia nel dibattito pubblico.
  
lo spinario

giovedì 2 ottobre 2014

parole improvvise

Vent’anni fa sognavo giorno e notte. Vent’anni fa sognavo in bianco e nero. Ora io mi chiedo come si faccia a restare stupiti nel mondo, accettarne l’incanto, mentre si sta sprofondati e soli in un’assemblea condominiale. Vorrei stupirmi ancora, spinto da un’influenza ossessiva e bambina che mi faccia continuare a essere metà allocco e metà segugio. Voglio rimanere con lo stupore in bocca, e osservare le spalle ricurve di quel padre, tralasciando i suoi vestiti posticci: seguire il suo sguardo non la sua disgrazia.
Ieri sera non prendevo sonno, ma leggendo Raymond Carver mi sono lasciato sollevare fino al soffitto delle possibilità: nuotando in questo periodo incerto sfruttando le influenze che ci sono.

Poi di fare il complicato non mi va, così ho pensato di mettere su questo blog due foto che feci nel ’91 a mio padre e agli altri pescatori della rezza. Così, per ridimensionarmi un po' e riavvicinarmi (tanto per dire) a quella beata semplicità che esprimeva quel mondo lì. 









Una piccola finzione da esporre, soltanto un modo simbolico e debole di rappresentare un passato trapassato, e poco più. Stanotte cullo un dolore blu già sconfinato nel futuro, cui dare voce una domenica mattina, prima del caffè, mentre gli altri dormono accanto al mio ticchettio frenetico, beatamente, sfiorati solo dalla mia tenerezza. 

Queste righe quassù volevo cancellarle, poi ci ho ripensato, poiché tra le cose che mi son riuscite meno nella vita son state le scelte, quelle azzardate. La fretta del cane affamato. Volevo dirvi che in questi giorni sto leggendo felicemente pezzi di scrittura femminile, sulla scrittura maschile al femminile, e la possibilità che anche gli eroi piangano, i maschi, appunto: che l'ondata di creatività femminile avvenga, come dice A. P.
Volevo metterlo a piè di questo strisciante - fintamente, spero si sia capito - nostalgico post senza fiato. Da sempre in realtà mi sento femminista da sparecchiamento anch'io, e, per spiccato senso femminile, ho sempre difeso, davvero o coi pensieri, tutte le possibili aggressioni, raggiri nei confronti delle donne. Una cosa innata, o forse una reazione a modo mio  a quel fantastico e orrendo mondo maschile che ci portiamo dietro. Reagivo così, e oggi sono fiero di scendere dentro a quei sentimenti che gran parte degli uomini evitano istintivamente.
Un cadere a terra a cercare frammenti di sementi.