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lunedì 4 febbraio 2019

180 fumetti per Basaglia

  Mi chiamo Bettina, e sono la figlia più piccola. Volevo bene a mamma e papà mentre mi stringevano le mani lungo il viale dei platani nelle domeniche in cui saltellavo in mezzo a loro. Ho vissuto un'infanzia colorata di Cicciobello, nascondino e quel fiutare famelica i discorsi dei grandi nei vicoli davanti al golfo. Hai degli occhi intelligenti, mi diceva zio Sandro. Però già a 12 anni il primo attacco di panico li ha fatti andare all'ingiù, e in certe buie serate non riuscivo a chiuderli: si riempivano di immagini paurose, di facce angosciate dei miei. In quei giorni ho ascoltato mio padre che parlava in camera con mia madre. Voglio fuggire, troppe cose nella testa, non riesco più a stare bene con voi. Quello che mi ha sconvolto è stato il suo tono spento, non una fuga appariva ma una resa. E mia madre invece di inveire o trattenerlo gli rispondeva con un tono altrettanto dimesso che forse sarebbe stato meglio per tutti. Mio padre non è mai scappato ma è morto di notte, vent'anni dopo questo episodio, senza cause accertate. L'indomani mia madre aveva ancora quel tono dimesso, da moribonda. Come se fosse morto vent'anni prima.
All'improvviso in un pomeriggio gelido di marzo mia madre è salita veloce su un'auto verde: entrava in clinica. Io ho pianto per tutti i quindici giorni del ricovero. Poi ho smesso, e in un altro pomeriggio gelido ho scavalcato la ringhiera arrugginita del balconcino e sono fuggita con la corriera blu. Tremavo su quei sedili sfondati e imbrattati da altri ragazzi più espressivi di me. Ero eccitata dalla mia fuga ma agognavo di essere presa alla fermata successiva: un controllore, o mio padre che mi fermasse col suo ghigno buono. Invece mi sono ritrovata a vagare per settimane alla stazione Termini, sfiorando persone, sfiorando pericoli, mangiando tramezzini e pizza. Mi ha recuperato uno zio barbuto, in un pomeriggio di fine aprile. Un giorno a settimana passava da Termini per lavoro, e in uno di questi mi ha vista accovacciata su di una panchina di travertino. Non parlavo più, vagavo, e ogni tanto mi fermavo a piangere senza lacrimare. Dormivo dove recuperavo spazio, affetto: un corpo, una stanza o un angolo di via Giolitti differenza non faceva. Lui mi ha sorriso sul binario 14 e, parlandomi e ascoltandomi al ritmo di una canzone, alla fine, dopo sospiri e sorrisi, è riuscito a farmi scappare di bocca un grazie emesso coi denti. Faceva il neurologo all'ospedale di Formia e conosceva un giovane psichiatra di una comunità a Cassino, così abbiamo deciso che l'indomani mi avrebbe accompagnata da lui. Quella notte dormii da lui, nel suo studio, avevo come comodino i libri di Asimov e Salinger. Lessi alcune pagine senza paura di non capirci niente, come facevo da sempre coi libri. Mi addormentai sorridendo al buio.
Al mattino viaggiamo sulla superstrada con la musica di Neil Young che rende quelle campagne ancora più verdi, meno deturpate e riesce pure a farci rimanere in silenzio senza imbarazzo. Arriviamo alla comunità che scopro essere un casale rosso, con intorno grano che cresce. All'ingresso, oltre il cancello, persone con fare lento che mi sorridono e scrutano come si fa coi bimbi silenziosi. Entriamo in uno studio passando da una veranda ricoperta di glicine, c’è una credenza verde di fronte alla finestra, un autoritratto di Ligabue alla parete dietro le sue spalle e tutto intorno libri impilati come colonne doriche. Lo psichiatra mi sorride sfoderando due occhi blu ascolto. Mi siedo e aspetto le sue parole di presentazione, poi parlo per un’oretta e alla fine scoppio a piangere con la faccia da stupida che allora detestavo. Il tempo di un silenzio pari a una sigaretta e ricomincio a parlare. Gli racconto di mia madre che non vedo da un mese, di mio fratello che dorme da solo nella nostra cameretta, e anche di papà che non potrà darmi la buonanotte col pizzicotto-solletico neanche stasera.
Alfredo, così si chiama lo psichiatra, mi invita a restare da loro qualche giorno. Me lo chiede mentre passeggiamo lungo un viale di rose gialle. Mi spiega che potrei fare dei colloqui con lui, che farei anche delle assemblee con gli altri della comunità, che potrei lavorare nella serra del vivaio, che potrei andarmene se non resisto, che dovrei prendere però anche qualche farmaco. Inoltre, che si farebbero delle gite in città, al mare, e avrei pure una camera dove potrei stare per conto mio. Ci fermiamo davanti a un laghetto pieno di pesci rossi, mi guarda, mi mette una mano sulla spalla, sorride un attimo e sprigiona tutto l'affetto della terra possibile in quell'attimo che cambierà per sempre la mia giovinezza: c'era nell'aria un profumo pungente di mandarino. Lo sento ancora quel profumo, anche in questa casa di città, al sesto piano, oggi, dopo trent'anni, mentre sono bloccata da un'oretta su questa tavola e non riesco a disegnare niente di buono: perché penso, piango e sorrido. Sorrido, piango e penso a come sono stata brava nel riuscire ad annuire accettando il suo suggerimento, vincendo l'orgoglio e la paura, fidandomi della faccia barbuta e sicura di mio zio.
Oggi devo disegnare questa scena ma non trovo i colori giusti, ché se penso a quelli di quel tempo erano scuri, invece oggi voglio vederli pastello. Non sarebbe il tono giusto. Voglio raccontare la verità che cambia colore, non la finzione che usa i colori
“Bettina quanto sei complicata. Disegna quello che hai nella testa oggi, che poi qualche colore di ieri ti viene fuori.
“Alfredo tu mi vuoi troppo bene, mi stimoli ma stavolta sto davvero in crisi: se non azzecco il tono giusto in questa scena tutto il fumetto non ha senso…
“Fermati, non ne capisco di fumetti, ma so che la tua mente ha bisogno di tempo per esprimersi al meglio: non abbiamo fretta, prenditi il tempo che ti serve.”
“Facile per te, te ne esci sempre con la tua psicologia pronto soccorso. Ciao Alfredo. Ciao.”
Anche stavolta Alfredo ha ragione ma io gli faccio capire il contrario, sin da quel giorno davanti al laghetto. Con questo fumetto però è diverso, ché io sto in crisi davvero e l'ho capito da un principio di attacco di panico che ho tenuto a bada con Valeriana e respirazione profonda. Mi sono pure masturbata per resistergli. Ma sento che sta arrivando l'onda che spazzerà via la riva delle mie piccole conquiste di questi anni: una casetta, amici simpatici, viaggetti e la libertà di cazzeggiare in giro per la città quando mi va. Invece più avanti della linea della riva, dove la risacca non arriva, ci vedo ancora i miei genitori seduti con lo sguardo di due che non hanno capito niente delle loro vite. Io li fisso e mi paralizzo, e vedo le incapacità della dodicenne che ero tutte ancora da indossare. Non è cambiato nulla, e io mi spavento e svengo di insicurezze. Spesso in questi giorni arriva questo pensiero e non riesco a disegnare niente. Ma oggi provo a disegnarla e inserirla come un inciso, una ferita rossa dentro un fumetto ottimista che ha bisogno, per essere tale, di uno squarcio che assomigli a un incubo rosa passato.
“Alfredo, scusa per prima… poi  mi è uscita fuori la scena che mancava.

Racconto di Rosa Speranza.

(Ogni tanto quando vado a trovare i miei al paese, passo a salutare Alfredo, gli educatori e tutti gli altri della comunità. Sto scrivendo una storia a fumetti sulla legge Basaglia, me l'ha chiesta il figlio di Alfredo, che si occupa del laboratorio di scrittura della comunità. Facciamo degli incontri mensili in cui i partecipanti, pazienti e operatori che, raccontando una loro esperienza, contribuiscono a formare le storie della comunità. A me hanno chiesto di racchiudere tutti questi racconti in un fumetto.  Lo sto immaginando che possa partire da quel sorriso di Alfredo esploso in quell’attimo di un aprile di rose gialle e che magari possa passare dalle tante storie dei suoi pazienti e arrivando fino al sorriso sognante di Franco Basaglia. Quello che ha nella fotografia mentre osserva il paziente che se ne va in giro per la città da solo dentro un altro aprile. In realtà, in quella foto la sua faccia è in primo piano, e quel paziente che va in giro per la città non esiste. Forse sono io, o è Mattia o Teresa, i miei compagni d'avventura nel periodo della comunità. Chissà. Intanto vado incontro all'onda)