Pagine

lunedì 31 ottobre 2011

era bella, bella era.


Quel pomeriggio faceva caldo di giugno. I tuoi capelli pieni di doppie punte riflettevano tutta la mia timidezza. Ero stordito di te e così ti ho baciata. Un auto e un marciapiede, poi due ragazzi nel pieno del rapimento. Il tuo odore d’allora porto ancora con me, mi serve in certe mattine di novembre. Euforici d’amore improvviso ci salutammo come due pettirossi in volo. Niente pesava più. E nella mia testa entravi con tutte le scarpe. Non c’era più lo spazio per la solitudine. Nei miei occhi tutta la tua faccia. E non c’era spazio per le deboli immagini. Nella mia bocca tutto il tuo seno. E non avevo più appetito la sera. Nelle tue mani tutti i miei desideri. E non riuscivo ad afferrare altro. Poi una vespa bianca è ripartita spedita, nel fumo nero della marmitta le tue lacrime grigie. Io sorridevo svogliato e aspettavo glorie di donne.
Silenzio.
Quella pizzeria davanti al mare nero, era ottobre, e la tua lunga gonna creava ombre davanti all’auto. Baci dappertutto e fiato colorato. Fuori le mareggiate carezzavano la sabbia abbandonata. Nessun uomo che moriva in quel momento, solo un gemito che rimbalzava allegro. Tutto appannato su di noi e dentro pure, che non si aveva il coraggio di urlare gioia. Perché?
Spensierati d’ansia ci avviciniamo ai nostri desideri, e non si poteva più scappare. Si doveva stare uno dentro l’altro, come in quella stanza appena presa in affitto e già colma dei nostri gesti d’amore. Nessuno che puntava il dito, ognuno che ci apriva il proprio castello. Così il viale ci conduceva dritto al sogno.
Poi.
Temporali d’angosce e pensieri bui a spezzarci le ossa. Tu piangevi, io con le gambe strette facevo il bambino notte e giorno. Poi abbracci e risa da pazzi. Poi ancora fughe verso oasi di parole. Non ero me. Tu chi eri?
Tre salti e ci ritroviamo dentro questa casa più alta che grande. Due bimbi. Due storie da cullare. I desideri fermi sulla sedia con le gambe strette, ad aspettare un invito. A volte c’è, e allora le mattine chiamano tutti i venti a circondare la casa.
Ci poteva capitare di più e di meglio, ma siamo ancora fermi alla casella bianca dove tutto è ancora possibile. Dove un graffio può rovinare la tela, e un rosso fermare il desiderio. La tua faccia che ieri pareva di ragazzina innamorata, la tua faccia che sola illumina tutta la scena, la tua faccia che bianca dipinge tutto il resto. Io devio a zig e zag con un premio nella bocca. Non so chiedere altro. Aspetto un lampo, un vento di quel mattino, per spazzare via ogni pianto.

mercoledì 26 ottobre 2011

Illuminante, almeno per me.


Queste persone, così utili agli altri, in realtà sono infelici perché sostanzialmente sole. Certo, nella loro continua ricerca di altra gente, scoprono spesso in questo o quel paese persone simili a loro, di cui sanno tutto e che conoscono a fondo. Poi, una mattina, si svegliano sentendo che niente li trattiene dall’andarsene anche il giorno stesso. Di colpo sentono il richiamo di altri lidi e altre genti, e ciò che ancora ieri li appassionava oggi è diventato insipido e insignificante.
Non si legano profondamente a niente, non mettono mai radici. La loro empatia è sincera ma superficiale. A chiedere loro quale tra i paesi visitati preferiscano, non sanno che cosa rispondere. Quale? Un po’ tutti, visto che in ognuno c’è qualcosa di interessante. In quale vorrebbero tornare? Nuovo imbarazzo: non se lo sono mai chiesto. Quello che sicuramente vogliono è ripartire, tornare in pista. In fondo desiderano solo viaggiare.

Ryszard Kapuscinski da “In viaggio con Erodoto”.

Polvere di me



Sono stata tutto il tempo a sperare che se ne andasse. Oggi non volevo per niente. Tutto il giorno in giro per quei viali polverosi. Non sapevo come spiegarglielo. Sì, tutti i giovedì ci vediamo, ma cosa c’entra? Ci sarà pure un giovedì storto. Invece lui insisteva. Mi sono ritrovata con la faccia al soffitto e lui che trafficava su di me, sulla mia distesa immobile. Intanto mi passano le facce degli operai davanti: tutte con la polvere che si ferma sulle basette e i primi capelli dell’attaccatura. Gli altri no, quelli erano coperti da cappelletti improvvisati, come nelle foto degli anni cinquanta. Oggi, prima settimana di settembre del duemilaeundici, nella vallata desolata tiburtina ho visto tanta fatica. Lui continuava a spingere con una certa eleganza di routine, in quella maniera fastidiosa pure per lui, credo, visto che quando ha rimesso i pantaloni pareva avesse finito di giocare a calcetto. Mentre mi avvicinavo al container spogliatoio degli operai, mi tremavano le gambe. In tutta quella voragine ero l’unica donna; l’unica non impolverata. Da lontano sentivo gli sguardi addosso di uomini che addentavano panini di mezzo metro. Ogni morso un pericolo scampato. Poi, invece, appena di fronte al gruppo più numeroso, quello che copriva quasi tutto lo sfondo di roccia, ho capito che la loro fatica stava stemperando sotto quella pergola di pizzutello che uno di loro, con tanta cura, riesce a far  esplodere di grappoli ogni anno. Nonostante la polvere. Il puzzo, e la schiena che pare si stia spezzando sotto al sole. Lui ora è già a tavola, con lei tutta cuoca per il marito gran lavoratore d’ufficio. Tutto il giorno a contare soldi; sta tutto il giorno con la responsabilità di gestire interi patrimoni di una cricca di commercianti. Vestiario all’ingrosso. Grandi firme.
Stasera però non vedo la sua faccia su questa parete bianco avorio con le greche, no, vedo solo le facce di quelli lì. Uno più affaticato dell’altro. E come ci tengono a quel lavoro massacrante. Tutti ossequiosi e con quell’accortezza di far trovare tutto a posto. Erano tutti operai tranne uno: si è dichiarato capo squadra, in realtà un controllore caporale della ditta. I capi, quelli che girano con le jeep tra una cava e l’altra, giù in fondo, o su verso le pareti di roccia, non ci vanno mica. Soprattutto d’estate. Stanno sparsi e sdraiati sulle spiagge dell’adriatico centrale. Poi se ne vanno in bicicletta sulla pista ciclabile: “ a Giulianova ce n’è una che è la fine der monno, ndevedè ch’èe”. Fa niente che poi tornano più chiatti che alla partenza. E le mogli con quelle scarpette dorate, ma come  fanno a piacere quelle scarpette da principesse arabe? Bah, questi secondo me non scopano più alla vecchia maniera. Magari si sdraiano nudi nei Suv e, con Michele Zarrillo a palla, si guardano le banchine deserte d’inverno. E aspettano che finisca il piacere di possedere quel carrarmato di macchina, con tutta quella tappezzeria morbida sulla pelle, e lo stereo “che è na’ bomba”.  Ché d’estate  non lo fanno invece,  visto che sudano come animali sempre dentro ‘ste trattorie caserecce. Sempre appresso al casereccio stanno. Con lui invece all’inizio si trombava sempre. Una volta pure dentro alla mia macchina dell’ispettorato. Davanti all’ingresso di villa borghese, alle sei di mattina, con gli autobus già pieni che rischiavano di godersi un porno improvviso, ancora prima del caffè. Quel giorno sono stata bene fino al sonno, e non capita quasi mai. Il mio lavoro mi fa sbattere contro una realtà che nessuno racconta davvero. I giornali e i programmi tivù vogliono urla e drammi in diretta. Quelle facce di polvere che ho fissato oggi, proprio non le vogliono vedere. Senza ribellarsi, senza parlare, quelle persone mi dichiaravano la loro resa sotto forma di volontà a proseguire a tenere in piedi le loro case popolate di bambini e nonne. Come negli anni cinquanta, come a Timsoara. Stasera quindici gocce, ché ieri notte ho dovuto sognare pure mio padre, poco prima che morisse e subito dopo la cassa integrazione.
2.
Questa bella macchina che mi ritrovo, comprata a rate morbide, che per una come me, funzionario pubblico di un buon livello, non costa molto. Ieri origliavo, mentre il capo cercava la documentazione, origliavo le parole mozzicate dalla rassegnazione di due operai. Uno non poteva iscrivere il figlio a basket quest’anno, e l’altro stava con otto euri in tasca. E la fine del mese era desiderata quanto la Bellucci appesa all’ingresso della loro barracchetta dove riposavano, subito dopo aver immolato il panino con la mortadella. Percorro la lunga strada che porta alla cava. Mi aspetta anche oggi, solo lei, che tutti gli altri desiderano magari che mi schiantassi contro gli sparuti platani che ancora cingono questa scassata consolare. Ma come faccio, se qui si va a due all’ora? Ieri sera mi sono messa a vedere questo percorso casa-cava dall’alto, su google maps. Avanzavo lentamente e cercavo di vedermi dentro alla mia macchina scura; vedermi che cercavo di mantenere la calma dentro ingorghi che nemmeno a Città del Messico. Eppure oggi mi va di andarci. Almeno uno tra quelli mi aspetta. Credo. Spero.
Questa strada vista dall’alto, all’altezza di questo semaforo pedonale, dentro a questo quartiere residenziale, che sta schiacciato tra una zona industriale vecchio stampo: artigianale, bellica, mega magazzini e uffici. Un’altra invece di nuova generazione: tecnologica, e intorno certi scatoloni di ferro e cemento con dentro tanti negozi scintillanti e vuoti. Anche un cinema. Anche il ristorante giapponese. Dove sono stata con lui un pomeriggio, a mangiare sushi.  Stavamo sereni, grazie, avevamo scopato per due ore di fila dentro a un albergo a ore vicino all’autostrada. Lui mi sorrideva innocuo, senza quella spocchia aggressiva solita, prima dell’atto, prima della guerra. A me un po’ quella faccia lessa disturbava. Mi faceva pentire d’averlo incontrato e scosso, io, che agli uomini so stare alla larga, soprattutto da quelli logorati da tanti anni di vita amorfa. Senza futuro. Come questa strada che sopravvive a vecchie idee anni ottanta, e non ne vuole sapere di vedere la modernità. E neanche l’Asia che preme con i suoi giovani laureati preparati, vuole vedere. Vallo a dire a quel capo lì alla cava. A lui interessa solo vedere salire sui camion quei preziosi lastroni di travertino che barcollano poi lungo queste strade stanche, fino ad arrivare a porti o aeroporti. Per andare alla fine sempre verso l’Asia, nel medioriente. A Dubai. Verso bagni solcati da marziani in tuniche retrò, che fanno il bidè dopo aver distrutto giovani donne. Anche occidentali. Anche una mia conoscente. Che dice si è fatta lavorare da mani incallite per una settimana di fila, per scippare, “onestamente”, almeno quanto sei stipendi miei. Onestamente. Dice. Ancora sento le voci flebili di quei due omoni che ieri si sussurravano i propri guai. Otto euri per un’altra settimana. Non è che quello viva in un villaggio rurale, dove possa arrangiarsi con l’orto e con la solidarietà obbligata, sacra, del clan. Quello sta dentro un palazzone di otto piani, e ha vicini lontani anni luce dagli occhi dei suoi figli. Scuri e dignitosi. Per niente caritatevoli, quindi, affamati ancora per qualche giorno. E poi? Magari dopodomani  si laureano alla Bocconi e sfottono in tv i figli nostri che giocano ancora coi soldatini in piazza. Tu cattivo, io buono. Ancora? Meglio arrivare il prima possibile alla cava, che qua tra queste lamiere lucide mi viene un magone che assomiglia alla faccia di mio padre. Quelle mani forti e vogliose di sgombrare il presente di fame. E dai, ma guarda ‘ste macchine che fanno passettini di danza invece di sgusciare via. Ma che, non volete andare a produrre oggi? porcamiseriaccia. Vabbè, mi fermo a prendere un cappuccino.
“Senti, qui è arrivata una mail che riguarda la cava che stai seguendo, te la invio sul Blackberry, occhei?”.
“ Va bene…scusa, ché sto con mezzo cornetto in bocca….ehm… d’accordo la leggo più tardi. Ciao”.
Scendo questa discesa che mi sta diventando già familiare. Ma che fanno quelli con quelle pale in spalla? Bah, questi li spremono troppo a questi uomini. Speriamo che oggi il capo mi conceda più dei dieci minuti netti di ieri. Perdeva tempo, uno stronzo coi fiocchi è, e spalleggia quei panzoni che per ora vedo solo sfrecciare sulle jeep impolverate.
“Salve, oggi lavorate con le vanghe? Ce la fate a spaccare la pietra con quegli attrezzi?”.
“ No signora, solo sabbia stamattina, dobbiamo spostare solo un po’ di sabbia”.
“Bene, allora un lavoro un po’ più leggero del solito. Meno male. Buon lavoro”.
Certo la forza non gli manca. Neppure la volontà, magari ci fosse pure un guadagno giusto. Lui questo mese mi ha regalato un altro anello. Stiamo a otto. Otto anelli in un anno di relazione. Dovrei avere il coraggio di dirglielo che non servono. Io sto con lui perché mi piace, in fondo. Anche se la passione pura e travolgente è sfumata nelle consuete scorribande del giovedì. Dovrei dirglielo il mercoledì però, e non pensarlo il giovedì sera. Ma come faccio, oramai è un legame sicuro. Ah, devo leggere la mail, me ne stavo dimenticando. Tanto il capo squadra prima che si dedichi davvero a me, passerà ancora un’altra mezz’ora. Gira scartoffie tra le mani neppure fosse carta igienica. Ecco,‘sto telefono è proprio bello, con questo schermo enorme sulla mia mano….
“ Cara Signora, scrivo lettera da computer per mio figlio, mi aiuta lui. Volevo dire voi che la cava dove andate per controllo è piena di bidone sporchi che puzzano. Mio marito non capisce cosa è, ma vuole fare capire a lei. Notte camion vanno giù. Vedo pure io sabato passato.
Aiuta loro che noi abbiamo paura dei capi. Abbiamo lavoro e volgiamo ancora altri anni ancora.
Scusa italiano mio ma o studiato solo in romania. Mio figlio a sette anni. Grazie.

“ Sergio, hai capito cosa mi ha scritto? cazzo, bisogna indagare capire. Sbrighiamoci”.
“No, ora ti calmi e torni in ufficio. Appena rientra dalle ferie Giannini vai con lui. Sono solo dieci giorni. Capito?”
“ Ma stai scherzando? Come si fa ad aspettare altri dieci giorni. C’è una denuncia”.
“ Ma quale denuncia! Questa è una mail. Pure sgrammaticata. Magari è una cava concorrente che ha escogitato il tutto. Prudenza. Rosa, devi stare calma”.
Devo stare calma, per lui è facile  che non va sul campo di battaglia da anni. Sta comodo e sereno col culo moscio su quella poltrona ergonomica alta quasi due metri. Stai calma. Ma come? Vabbè, oggi continuo a spulciare quelle quattro carte che mi ha dato il capo. Aspetto. Ma non mi arrendo, no, non mi voglio proprio arrendere stavolta. Quella volta mi è sfuggito un particolare, grave, che poi è risultato la causa del grave malore di quei tre operai che hanno inalato vapori tossici. Stavolta no, cazzo no. Quella volta lui mi ha consolato con un’intera giornata passata insieme a Orvieto. Rintanati in un agriturismo dalle nove di mattina alle cinque del pomeriggio. Un turno d’ufficio tutto per me. Basta, giovedì prossimo a questo ce lo mando. Giuro.

3. 
Mi ha tolto il servizio ispettivo alle cave. Ne sapevo poco di questa storia ora ne so ancora meno. Solo il sospetto. Ho chiamato lui e gli ho detto che il giovedì sarà il mio giorno di libertà, da lui. Dai soliti giochetti, dalla noia tombale di un marito in forma di amante. Appena l’ho detto mi sono sentita colpevole, non per quello che si faceva, che in fondo è farina quotidiana di pulsioni e parole, no, sono colpevole di essermi illusa per troppo tempo. Le persone ti fanno immaginare mondi possibili ma sta a te, a noi, capire dove disegnare la giusta cornice, altrimenti, in una mattina qualunque dentro un ufficio ordinario, insomma, all’improvviso un vetro si rompe e nessuno sa più come sostituirlo. Ecco, sarebbe il caso di sanguinare qualcosa oggi piuttosto che pensare all’indietro. Ci sono fatti più grandi di noi che sono nati per farti sentire piccola e inutile. Uno degli operai mi aveva sussurrato che guadagnava mille euro e stava tutto il giorno a specchiarsi nel marmo, con le mani deformi ormai. Non si può campare decentemente con appena mille euro al mese, con due figli, una casa e nessun euro speso solo per sé. Si torna verso la fatica, abbandonando il lavoro, senza aspettarsi nulla. Maledetti. Ho cominciato a fare questo lavoro, anche se per caso, dopo una brillante prova al concorso – ero innamorata e gasata a trent’anni – mi sono ritrovata a stare dentro un ufficio che, solo d’arredamento, valeva la mia intera casa. Sono riuscita a stare calma e non sprofondare nelle pallose del lavoro; nel giro di qualche mesetto mi sono ritrovata con un incarico sul campo. Una salvezza. Un dolore. Mio padre che entra a casa con una busta paga di seicentomilalire, era l’ottantacinque, Craxi era già gonfio di gloria e tangenti, noi tristi e stretti dentro una casa appena dignitosa. Dalla fatica mio padre era arrivato al lavoro, nel giro di mezza generazione. Adesso sono schiacciata da questi pensieri, e quello che si salva sta stampato su alcune facce. Una mia amica si è sposata col “suo capo” e ora decora tovaglie per gli amici. Un’altra è partita per il Sudamerica con un cuore sgargiante e adesso fa la mamma che tiene a bada la crisi economica con la pasta fatta in casa, e il pane tutti insieme al sabato. Poi altre, confuse e sincere lottano per una condizione appena provvisoria, smontata da infiniti discorsi, vagamente ironici, sulle presunte capacità a farsi male da sole, noi donne, sole pure quando ci abbracciamo.
Oggi ho fatto due scelte. Ieri ho fatto due cazzate. E domani? Magari m’innamoro di un tipo qualunque, in una notte senza limiti, dove il mio corpo scappa avanti alla mia testa. Guarda cosa mi tocca pensare per fuggire da lui, che in fondo mi ama, mi desidera e mi aspetta sempre. Il giovedì. Non il prossimo, andasse a cercare quella zitella della collega che, durante una nostra crisi, si è fatta avanti e lui l’ha fatta entrare. E io ho capito. Capito? Sono sempre sorridente e serena davanti all’aggressività. Sono sempre silenziosa quando mi calpestano in silenzio.

Lasciatemi…oh, ma che volete? Porc...ma….allora? e basta, me ne vado, tranquilli.
Oggi questi mi hanno cacciato a malo modo. Vabbè, non ho più l’incarico ma non possono sbattere fuori così una ragazza. Eh, no. Volevo solo fare qualche foto. Così, un’indagine privata. Mi sono fissata. In questo periodo voglio andare in fondo alle cose. Anche giù in fondo alle cave, dove tutto è sporco e puzza. Dall’alto no, tutto appare piccolo e miniaturale, quindi, da ammirare come si ammirano i trenini dentro i loro paesaggi. Quello di mio fratello era proprio bello. Aveva una cura Marcello nel disporre i vagoni. Tutti per passeggeri, quelli merci li usava poco. A lui piaceva animare le stazioni, e i paeselli intorno che gli costruiva papà. All’inizio, poi ci ha pensato lui. Sempre. Fino all’incidente. Ora dalla carrozzella guida le mosse del figlioletto; che poi lo stressa, e in fondo, credo, neanche gli interessa più di tanto…quello vuole giocare al nintendo. Mio fratello lo vedo tre volte l’anno. Tre volte l’anno piango come una bambina. Tre volte l’anno ho le migliori aspettative, e mai un calo di tensione tra me e la sua vita. Ecco, sto già rimuovendo la brutta avventura di prima con questi pensieri tutti miei. Sì, lo dirò che volevo fotografare la mia cava dalla cava vicina, quella dei bruti che mi hanno allontanato con braccia enormi, di fatica esagerata anche le loro, lo so, ma a me ‘sta cava non mi fa dormire la notte, e volevo capirci di più. Capito? E lui mi risponde che vuole vedermi, che soffre. E la cava? e del mio subbuglio non te ne fotte niente. Pensi solo a scavare nelle mie debolezze che esplodono nella mia faccia appena bagnata da “lacrime trasparenti”. Così diceva mio padre quando mi trovava piagnucolante nello stanzino; lì solo sapevo soffrire. Lì nessuno mi cercava, tranne lui. Che poi mi faceva sempre ridere a crepapelle. Papà, non dovevi. Mi dovevi lasciare soffrire per bene. Vedi che ora soffro a mozziconi e ti sto sempre a pensà? E non è che chiamo a Marcello ed è la stessa cosa. Ma come faccio a spiegargli tutte ‘ste cose ingarbugliate e tristi. A lui porto solo racconti allegri che mi capitano durante l’anno, voglio vederlo ridere di gusto. Come facevi tu. Stiamo dentro lo stesso cerchio che poi diventa pallone e rotola fino ad arrivare sui piedi di Marcello bambino che “dà ‘na botta forte”, e frantuma un’altra volta la vetrina di Gino l’ottico. E quello squarta la palla. E poi ci fa giocare il figlio, che nemmeno una palla sana può avere. Vi osservavo spesso, Marcè, voi maschi facevate proprio tante cose. Noi, io e Mariuccia e, a volte, pure Rosaria, stavamo sempre a chiacchierare con quelle quattro pentole davanti. E le bambole, che poi un po’ ti stavano anche antipatiche, visto che erano tanto viziate. Anche da noi, anche se le nostre mamme ci tenevano a stecchetto di regali e coccole. Le cose brutte non te le racconto, nemmeno quelle strambe, come la mia storia con quello. Questo è la città che procura ‘sti guai, con la scusa che è enorme e ti lascia nascondere i vizi, poi non riesci più a tenere il filo. Capito? E quello ancora con “ti voglio vedere subito, ho una riunione importante ma non fa niente…”; sempre a vedermi come un trofeo, da strappare alla realtà. Lasciami stare, in fondo oggi volevo solo farmi sbattere fuori.  E basta. Non mi bastava l’atto del mio ufficio di togliermi l’incarico, non me lo perdonavo. Magari scrivo a un giornale, denuncia anonima di sospetti scarichi notturni di rifiuti. Ma non ho le prove. E neppure più la mail di quella signora straniera. Niente, solo la faccia col sorriso gigante di mio padre mi è rimasto qui davanti a questa strada allagata.