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sabato 22 giugno 2019

Voi due, e le origini delle mie emozioni

  Questa foto dei miei genitori sulla lambretta, parcheggiata davanti alla Vetreria con la sua alta ciminiera di mattoni rossi, rappresenta l'origine delle mie emozioni.  Mio padre guidò solo una volta una Lambretta, prestatagli da mio zio, e ci andò a sbattere contro un lampione. Era il 1962 in questa foto, non c'ero ma vedo per la millesima volta quell'accenno d'abbraccio tra i due, con quel loro sguardo sgombro di preoccupazioni in quell'attimo d'abbraccio, e oramai mi sembra di essere io a scattare e fissare per sempre la foto in cui nacque la mia famiglia d'origine. Da lì a poco sarebbe nato mio fratello. Intuendo quei loro pensieri densi per un presente di pochi soldi e di fantasmi che si portano appresso dalle loro case di provenienza, oggi, giugno 2019, io li vedo più chiaramente e potrei fotografarli nuovamente. Invece me ne sto qui con gocce di sudore sulla fronte che sanno un po’ di quelle lontane preoccupazioni, di quel loro vivere provvisorio e intimo, di attese, senza minimamente immaginare la decadenza che improvvisa e scura sarebbe piombata in casa nostra negli anni successivi a quella foto. Oggi ho uno smartphone su cui scrivere di loro, ignari e lontani dalla mia potenza espressiva, dalla mia angoscia di non averli amati abbastanza una volta diventato adulto: perché vi siete fatti detestare nel momento in cui avevo più bisogno del vostro amore? Quell’amore lasciato mangiucchiare giorno dopo giorno dal vostro disagio di adulti somiglianti a ragazzini spersi in uno zoo d'inverno. Eravate due persone strambe, ma sapevate farmi ridere quando mi ritrovavo in mezzo a voi nel lettone, in certe serate paurose, in cui i racconti della cavalla zoppa o quelli di sfottò di certe persone dei vicoli, andavano a sostituire i libri della buonanotte. Eppure un po’ mi vergognavo quando vi incrociavo in via Indipendenza, quando camminavate separati da quei due metri di musi: di litigate lì lì per esplodere. Mi vergognavo anche quando tu, papà, mi venivi a vedere come se io fossi un attore teatrale da ammirare, mentre facevo soltanto  il mio lavoro di cameriere. Però ero contento, e sentivo quell’amore semplice e buono che mi trasmettevi da quei tuoi occhi a forma di foglia che sapevano di gelato al limone, come quello che servivo svelto ai villeggianti. Sentivo quel sapore solo dopo che te ne eri andato da quella tua poltronissima, che ritornava balaustra arrugginita del lungomare.
Nelle vie del borgo, l'altra sera, mentre passeggiavo coi miei figli, mi pareva di sentire ancora certe urla sgraziate di mia madre, e subito dopo i passi di mio padre che scappava da una litigata con lei e si rifugiava sulla scogliera di mare nero petrolio: nascosto dal gigantesco Faro verde. Poi la notte, dopo che si è addormentato il piccolo, mi è sembrato di sentirvi ancora una volta che dicevate cose disperanti su di me: ma che farà di buono? Non è capace a niente. Mentre stavate pugnalando il mio futuro, e forse per voi era solo uno sfogo di un giorno così e così, io vi ho visti piccoli piccoli coricati di sbieco su quel lettone a forma di culla.  Da subito ho succhiato latte e realtà voracemente: volevo riscattare la vostra debolezza, e mi pare di non aver fatto altro in questi anni dopo di voi. Come coppia vi ho fatto esistere ancora solo nei miei pensieri gialli, come dentro queste mattinate calde e ferme nella mia casa romana. Come coppia non avete fatto storia, né troppi danni clamorosi, e se vengo ancora in questa villa delle sirene piena di mare e pini a pensare alle vostre umanissime anime perse, a prendere il caffè, e a scrivere di voi, beh, forse vuol dire che un po’ d'amore è rimasto incastrato tra le scapole e i miei disordinati, brizzolati capelli.

venerdì 7 giugno 2019

Ritornare a Roma, da me

Poi ci ritroviamo alla stazione Centrale sfatti e contenti di rientrare a casa, seppure col rimpianto di aver visto troppo poco della Milano che desideravamo amare. Ho comprato un libro di Agnello Hornby a mia moglie, un manga al piccolo e La vita agra per me. Questo libro nelle prime pagine parlava di Brera, e io non lo sapevo. Gli scrittori mi spiano. Insomma, arriviamo a Tiburtina a trecento all’ora verso mezzanotte. L’indomani mi ritrovo al Tecnopolo dove ho un orto, mi siedo su di una panchina sgangherata e comincio a scrivere un resoconto di scuse e amore per i figli e mia moglie. Oggi vado al lavoro: un pic nic per il progetto che seguo a Fonte nuova, il mio secondo lavoro, quello che ci permette di non chiedere prestiti e ci fa andare a Milano fuori stagione. Amo lavorare per i figli. Sto su questa panchina con davanti lecci e aziende tecnologiche e penso che un po’ di city life c’è anche qui. Mi viene da piangere, invece rido e scrivo, trattengo le lacrime come trattengo la vergogna di non aver letto ancora il Don Chisciotte e altre decine di libri “fondamentali” per imparare a scrivere. Però Socrate ripetuto dal figlio forse vale una collana Adelphi, credetemi, ché in quel momento il mio ascolto vale cento volte il leggere solo per compiacere il mio ego velleitario pieno di pruriti invidiosi, arroganti, che ho avuto (anche) in questi anni di apprendistato disperato. Dolce quel suono di Conosci te stesso, e ora il mito della caverna somiglia a quel pergolato di glicine di donne e bimbi che in una domenica mattina scacciano stress e fantasmi di una settimana appena svangata. Vi osservo da quasta panchina e mi riempio di amore che in un giovedi mattina davanti alle colleghe proprio non riuscirei a provare: ferma tutto, e siediti nella pura riflessione accanto ai lecci di veltroniana memoria, in quartieri che non finiranno mai di costruire né di distruggere. Sbarazzarsi della retorica del “ce la puoi fare” se scrivi tutti i giorni: ho scritto tutti i giorni per anni, e sono crollato davanti a una analisi grammaticale ieri pomeriggio. No so studiare, e i miei figli non sanno studiare, mia moglie non sa studiare, eppure con un sguardo potremmo fare ottocchi la prefazione del Giovane Holden nella nuova edizione tiburtina. Non ce la faccio, mi arrendo e saluto con affetto e gratitudine l’amica scrittrice che mi ha voluto bene, e a cui ho dedicato uno sprezzante thread che ha riscosso un discreto successo da parte di indignati, e di padri di famiglia spaventati guerrieri come me.
Ho scritto questo pezzo perché me l’ha chiesto Diamiladì, che non ho mai visto ma con cui comunico quasi più che con mia sorella. Questo è il mio tempo, questi i miei sprazzi di curiosità donati come si donano abbracci e parole in una stazione del nord che somiglia al mio soggiorno.