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giovedì 31 luglio 2014

Mi era venuta un'idea

Mi era venuta un’idea, di quelle che ti sembrano originali solo mentre le stai digitando con quegli occhi che ti brillano: chiedere alle persone che ho letto di più quest’anno un consiglio di lettura. Su twitter, con l’hastag #drittedaleggereinferie. Ero partito bene, con Nadia Terranova che mi risponde fulminea; Luca Ricci, anche prima. Poi Andrea Pomella, che argomenta pure il consiglio. Infine uno svogliato consiglio di un’altra Federica. Il silenzio di Gipi mi ha allertato sulla mia deriva mitomane. Ne avevo un’altra decina di richieste in mente. Insicurezza, eccessi in rete, inconfessabile sbandata verso un altrove che smuove la mia mente, troppo. Cancellare non serve più, tutti ti hanno letto. Quest’anno ho giocato su twitter, dispensando timide considerazioni, e risposte azzardate, sfoghi secchi. Anche lanci di miei inevitabili post. Cose così. E’ una cosa un po’da bimbo davanti alla foresta: tanta paura, e la bellezza di starci, nel terrore della scoperta. I miei amici non lo sanno, che faccio questo. I miei amici sono al mare, o dispersi in pensieri atomici: guardano i culi delle ragazze e pensano ai prossimi silenzi dell’inverno a venire. Io sto dietro di loro osservando il fruscio, il dettaglio luminoso di un mondo che ci sta morendo in mano. Vi adoro amici.
E no! Chiuso l’anno, chiuso l’inganno. Fraseggiare non serve a niente, qui serve un tuffo senza maschera, una rovesciata sulla sabbia bollente. Un bacio a mezzogiorno.
Preparare frittate insieme a sconosciuti, per poi leccarsi le dita di meraviglia davanti al Tirreno agitato.
foto di Luigi Ghirri

Tra paure e gioie mi aggancio a questo mese d’agosto, con l’intento di lasciare delle tracce indelebili, scostumate, di parole e slanci: candore che assomigli al primo amore.
Insomma.
Volevo comunicarvi della chiusura per ferie di questo blog. Sono quasi quattro anni che spremo pensieri e azioni qui, per cavarne lacrime e attenzioni lì, davanti alla tua tastiera unta di sospiri. Fraseggio, come uno scrivano del villaggio, che non sa del Maggio, e sa poco della donna nuda che scappa davanti al mostro. E le nostre infime e scioccanti azioni da maschi: ho scritto una cosa definitiva sull’ottusa ostentazione del maschio tipico del sud. Basta così, delle cose tipiche non ne posso più, tanto meno del sud. Sto sempre con la testa apolide verso il centro, verso me, verso ogni profumo di novità. Di umanità. Di realtà.
Buone vacanze, cari miei. Buone deviazioni dall’ovvio.




venerdì 25 luglio 2014

Luisa non ci sta

foto di luciano ricci
Dopo cinque ore di autostrada nelle gambe e nella testa, entriamo lentamente nell’autogrill. Un paesone alle spalle, che lo scrittore anni settanta avrebbe demonizzato per le sue brutture. Invece io ascolto Massimo. Scendendo dalla macchina mi continua a raccontare “sai, poi l’ho penetrata, sdraiandola con forza sul cofano della macchina”. Sarà per lo scirocco sulla faccia, sarà per certi pensieri che mi stanno esplodendo tra la testa e il cuore, ma non ce la faccio più: ma tu fai proprio schifo, urlo con gli occhi di fuori. Lui sorpreso, e con quel sorriso da cugino maggiore mi fa: ma quella si era comportata male, mi aveva tradito e comunque stavamo ancora insieme. Lo spingo contro il cesto dei cd a 9.90 euro e scatto verso la zona pic-nic.
Il sole spacca in due l’intera piazzola. Siamo in pochi sotto quel sole, gli altri tutti all’ombra. Mi giro e vedo Massimo seduto a mangiare il panino che gli ha preparato la sua coinquilina. E’ sempre stato comodo nel guscio delle sue donne: la madre, la zia, la nonna, la fidanzata, la coinquilina. Lui fa il re. Abbiamo ancora due ore buone di viaggio insieme. Dopo questa incazzatura avrei solo voglia di dirgli che non lo sopporto più. Ma sarebbe peggio, perché comincerebbe a ripetermi di come siamo cresciuti insieme, di come ci fidiamo l’uno dell’altro da sempre, di come abbiamo fatto, e faremo, sempre le cose insieme. Era vero fino a ieri, oggi è diverso caro mio, questa storia di violenza contro Luisa mi sa che ci allontana per sempre. Anch’io ho amato Luisa; anch’io conosco Luisa; anch’io so che storia ha Luisa. Sapere, stare dentro le cose, conoscere i tragici segreti, e tutte le sue angustie passate: i cugini che la violentavano durante la sua infanzia. Ecco, l’ho detto, quindi, poiché so tutto questo, non ti perdono più. Mi sembra assurdo questo suo raccontare senza un minimo di pentimento, o di coscienza dell'ulteriore danno che ha procurato, no, caro Massimo, io faccio l’autostop e ti lascio proseguire da solo.
Eccolo che guida sicuro nella corsia centrale a novanta all’ora, e tutti quelli che lo sorpassano da destra che lo insultano giustamente; oggi non riesco nemmeno a cazziarlo come faccio solitamente. Guardo la strada e vedo la faccia di Luisa piegata di trasverso sul cofano che respira a fatica. Mi piombano negli occhi quelle parigine che ormai conosco anch’io, e subito dopo tutto quell’asfalto bollente che tiene in piedi la scena pietosa di Massimo che spinge soddisfatto; sotto c’è lei bloccata dalla sua mano e da milioni di anni di storia. E le donne di Massimo sempre a considerarlo come un re.
Stiamo andando a votare nel nostro paese d’origine: una commedia inutile votare un altro re circondato da altre mille schiave. E penso a mio padre: non l’ho mai visto dare una carezza a mia madre. E io, che amo Luisa da sempre, e adoro la sua fragilità, e conosco ogni suo segreto, sono costretto a piegarmi alla storia di questi uomini, e soffrirne anch'io. Sapevo già della violenza, sapevo dell’addio crudele che ha dovuto subire, ma sentirlo dalla bocca di Massimo con quel sorriso sghembo a esaltare il gusto di un gesto primitivo, be’, questo mi sta disintegrando la testa. Voglio picchiarlo.
All’improvviso prendo il volante e lo smuovo come un pazzo ridendo tutto il mio disprezzo sulla sua faccia di cazzo. Si spaventa, frena e mi da un cazzotto in testa.

Questo lo sto raccontando da un letto d’ospedale.  E Luisa non ci sta.

Scritto da Vita Amara, Edizioni Scriviscrivi, Collana Chepoitipassa


sabato 12 luglio 2014

Zi' Giannin' (fare pace con l'ansia)

Alla sua maniera aveva scommesso su di me: Pigliet’ la mesela e facc’gl’uort’, e così ho utilizzato il suo vecchio semenzaio e ci ho fatto il mio primo orticello. Da lì a poco avrei mostrato fiero i miei ortaggi agli adulti. Avevo nove anni e coltivavo pomodori, melanzane e peperoni, enormi e succosi già allo sguardo. Primo scoglio superato, potevo stare al mondo, la mia timidezza messa da parte per l’inverno successivo.
Mio zio Giannino è morto l’altro giorno, era nato nel 1920. Nel 1945 tra Weimar e Buchenwald aveva recuperato, insieme ad altri marinai, le spoglie della principessa Mafalda. Erano riusciti a fregare i nazisti, e pure tutte le paure che li avevano accompagnati e deportati dopo l'otto settembre da Pola. Poi era emigrato in Venezuela per qualche anno, guidava gru, lì ha deciso: ritornare e fare il contadino a vita. Produceva ortaggi e racconti, e sotto quel pergolato di uva pizzutello passavano intere famiglie ad ammirarlo, prima e dopo i pranzi succulenti di zia Civitina. Io più degli altri lo ammiravo, e avevo sempre fame di ascoltare. 



Ricordo di un viaggio in treno fino a Roma, io lui e mia cugina; l’intero scompartimento ascoltava le mie mille domande seguite dalle sue mille risposte: si parlava delle fitte vigne dei castelli romani, della fertile pianura pontina e le sue sterminate serre. Della guerra. Dell’enormità di Roma.
Mi dava la paghetta quando lo aiutavo nella raccolta dei pomodori. Ero bravo, e dalle cinque del mattino alle dieci - quando la panzanella di mia zia somigliava un po’alla sirena delle fabbriche - faticavo come un mulo per desiderare la sera soldi e stima da loro. Un giorno gli ho fregato 500 lire, forse di più, e quel giorno resta il mio giorno della vergogna.
L’ultima volta che l’ho visto, quest’inverno, l’ho filmato col telefonino mentre raccontava della sua epopea tedesca: sentiva poco, e le sue mani cercavano la mia faccia, la mia approvazione per la sua lunga storia che stava per spegnersi al terzo piano di via indipendenza.

Dopo il funerale ho incontrato parenti che non vedevo da secoli. Una mi fa (magistrato di successo): come sei diventato bello! Da piccolo eri una peste…ah sì, rispondo io, ma se ero un santo e non dicevo parolacce. Sì, ma scappavi sempre, ribatte e poi aggiunge che mi trovava davvero bene, e bla bla. Non è stata l’unica a sorprendersi del mio essere sopravvissuto alle loro sfumate condanne provinciali di un tempo, al loro credere che prima o poi crollerai, se a otto anni prendi l’autobus da solo e a sedici hai già cambiato quattro diverse scuole superiori. Onestamente loro un po’ di ragione l'avevano all’epoca, pure io non ci credevo mica che sarei arrivato a scrivere di loro, e nel farlo, sentire quell’odore secco di essere arrivato: alla soglia delle possibilità, e poco più.



lunedì 7 luglio 2014

il futuro ci risorprenderà?

Davvero compare, come pietra preziosa e un po’ misteriosa, un essere rosa, già tranquillo d’amore mostra i segni di esso: occhi verso gioie sconosciute, a chi pretende amore senza sacrificio d’attesa. Oggi un battito forte e inquietante percorre la notte, di chi come me dorme distratto da niente, poiché il giorno sapeva di vuoto. Non posso piangere la gioia che verrà, oggi non posso che vedere un corpo tenero di carne che si appoggia a un braccio vecchio di sogni. La notte sta chiudendo un giorno indimenticabilmente felice: concedo una tregua al mio stupore d’amore per te, Lorenzo, protagonista di un giorno che davvero compare…


Tredici anni fa, dopo una notte di travagli cesarei, con i miei enormi occhi che esplodevano felicità su quei muri scrostati di scritte, arrivato a casa, ho scritto di getto la cosa lassù in corsivo. Non capivo quasi nulla. Scrivevo anche perché lo avevo dichiarato con un piglio spudorato, sullo spartitraffico della tiburtina, a due persone cui volevo un mare di bene. In un pomeriggio caldo di aprile, del '93. Aggiungendo, oltre al segreto che il mio desiderio morboso fosse di scrivere, anche che non sapevo neppure fare un'analisi grammaticale come si deve. Loro ridevano, e intanto sapevo che pensavano a quel racconto che avevo scritto per la tesina a un corso Caritas: un caso umano, una storiella esistenzialista in pasto ai preti puntigliosi di virgole, e sospettosi dei miei periodi troppo articolati. Oggi non capisco l'esistenza della Caritas sulla terra, e scrivo come mi pare in questa certezza di blog. Tiè.