Alla sua maniera aveva scommesso su
di me: Pigliet’ la mesela e facc’gl’uort’, e così ho utilizzato il suo vecchio
semenzaio e ci ho fatto il mio primo orticello. Da lì a poco avrei mostrato
fiero i miei ortaggi agli adulti. Avevo nove anni e coltivavo pomodori,
melanzane e peperoni, enormi e succosi già allo sguardo. Primo scoglio
superato, potevo stare al mondo, la mia timidezza messa da parte per l’inverno
successivo.
Mio zio Giannino è morto l’altro
giorno, era nato nel 1920. Nel 1945 tra Weimar e Buchenwald aveva recuperato, insieme ad altri marinai, le spoglie della principessa Mafalda. Erano riusciti a
fregare i nazisti, e pure tutte le paure che li avevano accompagnati e
deportati dopo l'otto settembre da Pola. Poi era emigrato in Venezuela per qualche anno, guidava gru, lì ha deciso: ritornare e fare il contadino a vita. Produceva ortaggi e racconti, e sotto
quel pergolato di uva pizzutello passavano intere famiglie ad ammirarlo, prima e dopo i pranzi
succulenti di zia Civitina. Io più degli altri lo ammiravo, e avevo sempre fame
di ascoltare.
Ricordo di un viaggio in treno fino a
Roma, io lui e mia cugina; l’intero scompartimento ascoltava le mie mille
domande seguite dalle sue mille risposte: si parlava delle fitte vigne dei castelli romani, della fertile pianura pontina e le sue sterminate serre. Della
guerra. Dell’enormità di Roma.
Mi dava la paghetta quando lo aiutavo
nella raccolta dei pomodori. Ero bravo, e dalle cinque del mattino alle dieci -
quando la panzanella di mia zia somigliava un po’alla sirena delle fabbriche -
faticavo come un mulo per desiderare la sera soldi e stima da loro. Un giorno
gli ho fregato 500 lire, forse di più, e quel giorno resta il mio giorno della
vergogna.
L’ultima volta che l’ho visto,
quest’inverno, l’ho filmato col telefonino mentre raccontava della sua epopea
tedesca: sentiva poco, e le sue mani cercavano la mia faccia, la mia approvazione
per la sua lunga storia che stava per spegnersi al terzo piano di via
indipendenza.
Dopo il funerale ho incontrato
parenti che non vedevo da secoli. Una mi fa (magistrato di successo): come sei
diventato bello! Da piccolo eri una peste…ah sì, rispondo io, ma se ero un
santo e non dicevo parolacce. Sì, ma scappavi sempre, ribatte e poi aggiunge che
mi trovava davvero bene, e bla bla. Non è stata l’unica a sorprendersi del mio essere
sopravvissuto alle loro sfumate condanne provinciali di un tempo, al loro
credere che prima o poi crollerai, se
a otto anni prendi l’autobus da solo e a sedici hai già cambiato quattro
diverse scuole superiori. Onestamente loro un po’ di ragione l'avevano all’epoca, pure io non ci
credevo mica che sarei arrivato a scrivere di loro, e nel farlo, sentire quell’odore
secco di essere arrivato: alla soglia delle possibilità, e poco più.
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