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sabato 12 luglio 2014

Zi' Giannin' (fare pace con l'ansia)

Alla sua maniera aveva scommesso su di me: Pigliet’ la mesela e facc’gl’uort’, e così ho utilizzato il suo vecchio semenzaio e ci ho fatto il mio primo orticello. Da lì a poco avrei mostrato fiero i miei ortaggi agli adulti. Avevo nove anni e coltivavo pomodori, melanzane e peperoni, enormi e succosi già allo sguardo. Primo scoglio superato, potevo stare al mondo, la mia timidezza messa da parte per l’inverno successivo.
Mio zio Giannino è morto l’altro giorno, era nato nel 1920. Nel 1945 tra Weimar e Buchenwald aveva recuperato, insieme ad altri marinai, le spoglie della principessa Mafalda. Erano riusciti a fregare i nazisti, e pure tutte le paure che li avevano accompagnati e deportati dopo l'otto settembre da Pola. Poi era emigrato in Venezuela per qualche anno, guidava gru, lì ha deciso: ritornare e fare il contadino a vita. Produceva ortaggi e racconti, e sotto quel pergolato di uva pizzutello passavano intere famiglie ad ammirarlo, prima e dopo i pranzi succulenti di zia Civitina. Io più degli altri lo ammiravo, e avevo sempre fame di ascoltare. 



Ricordo di un viaggio in treno fino a Roma, io lui e mia cugina; l’intero scompartimento ascoltava le mie mille domande seguite dalle sue mille risposte: si parlava delle fitte vigne dei castelli romani, della fertile pianura pontina e le sue sterminate serre. Della guerra. Dell’enormità di Roma.
Mi dava la paghetta quando lo aiutavo nella raccolta dei pomodori. Ero bravo, e dalle cinque del mattino alle dieci - quando la panzanella di mia zia somigliava un po’alla sirena delle fabbriche - faticavo come un mulo per desiderare la sera soldi e stima da loro. Un giorno gli ho fregato 500 lire, forse di più, e quel giorno resta il mio giorno della vergogna.
L’ultima volta che l’ho visto, quest’inverno, l’ho filmato col telefonino mentre raccontava della sua epopea tedesca: sentiva poco, e le sue mani cercavano la mia faccia, la mia approvazione per la sua lunga storia che stava per spegnersi al terzo piano di via indipendenza.

Dopo il funerale ho incontrato parenti che non vedevo da secoli. Una mi fa (magistrato di successo): come sei diventato bello! Da piccolo eri una peste…ah sì, rispondo io, ma se ero un santo e non dicevo parolacce. Sì, ma scappavi sempre, ribatte e poi aggiunge che mi trovava davvero bene, e bla bla. Non è stata l’unica a sorprendersi del mio essere sopravvissuto alle loro sfumate condanne provinciali di un tempo, al loro credere che prima o poi crollerai, se a otto anni prendi l’autobus da solo e a sedici hai già cambiato quattro diverse scuole superiori. Onestamente loro un po’ di ragione l'avevano all’epoca, pure io non ci credevo mica che sarei arrivato a scrivere di loro, e nel farlo, sentire quell’odore secco di essere arrivato: alla soglia delle possibilità, e poco più.



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