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giovedì 31 gennaio 2013

almeno ci provo


L’intenzione con l’ultimo post era di scatenare un dibattito, una discussione su quello che stiamo diventando noi che lavoriamo nel settore dell’educazione, assistenza, etc. Lavorando e basta, facendo finta che un giorno tutto cambierà. Ma quando? Visto che poi ognuno le cose se le tiene per sé, e forse non sbaglia, in chiave evolutiva forse non sbaglia, perché abbiamo delegato rabbiosamente le nostre storie, i nostri amabili limiti, a dei capobranco tuttofare, allora, sconfitto e infreddolito, col pensiero congelato, mi sono rifugiato in una biblioteca appena ristrutturata. E’ diventata tutta bianca, con le poltroncine nere, comode, lungo il corridoio che conduce alle stanze, e di fronte c’è l’enorme parete di riviste e quotidiani. Da lì mi sono addormentato. E mi ritrovo nel sogno che parlo con la bibliotecaria rossa con gli occhiali. Decide di farmi visitare le stanze piene di libri, luminose e un po’ anguste. Gli studenti che sfioriamo restano con il capo chino sui testi, e intanto lei mi sussurra i titoli che avrei dovuto leggere necessariamente, nel caso volessi continuare a frequentare quel luogo. Comincia da “Guerra e pace”, poi passa all’”Odissea”, e anche “don Chisciotte”; mentre i miei occhi cadono sui contemporanei lei mi bacchetta con lo sguardo pieno di denti. No, pareva dicesse, quelli li leggiamo alla fine. Come a scuola, la storia contemporanea si doveva studiare a luglio, a casa tua. Insomma, vedo scorrere Cognetti, Lagioia, Foster Wallace, Carver, Munro, e non posso averli. La rossa a un certo punto mi fa sdraiare sul divanetto e mi offre un tè verde. E’ possibile nero? Accenno, ma già arreso bevo quello verde e anche con lo zucchero. A questo punto si mette a costruire una casa-tana di libri, tutti i classici come mattoni lego da sovrapporre, incastrare, e i contemporanei a formare il tetto, così esposti e assolati diventavano imprendibili, oramai. In lontananza una ragazzetta con gli occhi verdi avidamente tocca la copertina di “Amico, nemico, amante”; le chiedo urlando di farmela toccare anche a me, ma il muro di mattoni sta avanzando e copre ogni visione, ogni realtà. La bibliotecaria è tutta sudata e oramai non sta più in ginocchio, poiché la costruzione della tana è arrivata alla sua altezza. Non riesco a vederle più nemmeno le orecchie, che credevo fossero il meglio che potesse offrirmi. Quelle mani affusolate maneggiano con sicurezza quei libri, quelle storie già lette mille volte, recensite, smontate e date in pasto all’umanità. Lei è un tassello, un tassello rosso con le mani affusolate. La pelle bianca, fisso quella pelle bianca tra il collo e il seno e mi risveglio. “Signore, signore, stiamo chiudendo”. “Oddio scusatemi”. La bibliotecaria si accende la sigaretta e comincia a fumarla già dall’atrio, in mano una copia de “Manuale per ragazze di successo”. Le corro dietro mangiando l’ennesima caramella alla menta. Il custode ci chiude fuori.

domenica 27 gennaio 2013

l'anima (S)lava?


Non fasciamoci la testa cari miei, che tanto si sa che stiamo meglio di tanti anni fa quando le cooperative sociali non esistevano ancora e i padri a volte massacravano di botte i figli e le mogli. No?
C'è stata una bella serata a sostegno della Coop Folias e Bobo Rondelli è stato di una generosità immensa nel farci ballare a suon di cover rockettare.  Ha fatto anche molti pezzi suoi , in particolare alcuni che mi hanno fatto venire la pelle d’oca, quella vera, che una decina di volte l’anno mi fa sentire bene in mezzo agli altri. Era contento Bobo mentre chiamava Filippo Gatti – intenso anche il suo concerto - sul palco per improvvisare assieme musica tirata per farci ballare a noi delle prime file. Come succede spesso ai suoi concerti, Rondelli si è messo a fare pure il clown con racconti zozzi, imitazioni, etc. ancora rido se penso ai termosifoni ingroppati; meno male che riesce a tirare fuori anche l’autoironia  per schiacciare il suo status di livornese da esportazione: tanto che poi dice “sì, siamo comunisti e diciamo Pisa merda, che palle però ‘sta vecchia Livorno”. A quel punto il mio applauso interiore mi ha fatto urlare e io, che ai concerti son sempre timido,  ho urlato: bravo! tu sì che stai avanti, insieme alle tue belle canzoni, pensavo emozionato poco dopo, ritornato nella mia timidezza. Gli altri, la moltitudine, noi, e molti presidenti di cooperative sociali, stiamo invece molto indietro e pensiamo che l’atteggiamento della lagnanza a oltranza sia un diritto acquisito da diffondere come i vaccini antinfluenzali. Tutti fermi dietro al passato. 
Almeno tu direttore di cooperativa intoccabile, investi i soldi in progetti innovativi, invece di aspettare soltanto i finanziamenti al ribasso che accetti ai tavoli delle trattative, che segretamente fai coi politici di ogni genere. Già, ma voi presidenti e direttori siete immuni da critiche, perchè voi date lavoro e fate da “stampella” allo stato sociale, e non vi si può mettere in discussione, mai. Be’, insomma, con ’sta storia della stampella ci state giocando un po’ troppo. Così paralizzate il settore e non permettete ai soci, alle nuove leve, ai collaboratori di emergere e contribuire al cambiamento. Qualcuno mi sa dire quanti presidenti di cooperative sociali conosce che non siano (oggi) gli stessi dalla loro fondazione? E questo a volte significa trent’anni!  Lo ammetto, in me c’è un po’ di quella frustrazione tipica che spreca parecchie energie nel maledire i vertici del sociale in Italia, e mi dispiace farlo, poiché io credo , ciclicamente (ho lavorato per almeno dieci tra coop e associazioni negli ultimi vent’anni), di poter dare il mio contributo con la mia passione lavorativa, ma come fare, se certi passaggi gerarchici (meritocratici?) diventano stretti come un imbuto unto per la maggioranza dei lavoratori? Il diritto alla salute, l’assistenza alle disabilità e la formazione, spetta allo stato, visto che le importanti riforme degli anni scorsi sono riuscite a tradurle(finalmente) anche in leggi. Poi, che voi, noi, con passione e dedizione ci impegniamo  a cercare di applicarle  come se fosse una missione, però non deve quest’atteggiamento farci confondere il ruolo dal mandato. Il diritto dalla gratuità. Quando capiremo che non siamo gli unici a poterlo fare, visto che abbiamo solo una delega e non l'esclusività, allora, forse, i vertici delle cooperative potranno investire risorse e personale in servizi diversi, coinvolgendo i soci e i dipendenti, spesso sottopagati e frustrati, in progetti e attività innovative.  Questo forse non accadrà mai, tanto vale sottrarsi e voltare pagina scompaginando i mesi a venire. Sentirsi dentro a questo mondo del sociale, non la sopporto più 'sta parola sociale ma, sfido chiunque di voi a trovarne una più appropriata; insomma, dicevo che a volte è come sentirsi di far parte di un’avanguardia logora, che mortifica ogni cambiamento e si consola con le proprie presunte santità in agguato. Ci si sente al sicuro, buoni, e unici nel fare cose che in passato hanno garantito santità e indulgenze, a santi e delinquenti. Lasciamo queste scorie a quei simpatici visionari cattolici. Loro sì che sanno poi frullare il tutto per produrre consenso,  potere, e aspettative a costo zero a colonie di umanità allo sbando. Un po’ stiamo diventando come loro, e lo capisco dal linguaggio che usiamo durante certe serate di chiacchiere e ricordi. Lo capisco anche dalle facce e parole che certi presidenti usano per tenerci buoni, nella nostra cuccia che puzza di muffa. Forse non è tra questi Sasà, ché solo per quello che organizza a livello musicale meriterebbe l’assessorato alla cultura.

Ieri sera mi sono visto il film “Concerto”, e allora ho ripensato a Rondelli e alla sua contagiosa vitalità che trasmette nei suoi concerti strampalati d’amore e d'allegria: l’anima slava, ecco, lui e Filippo Gatti hanno fatto un concerto alla slava, l’altra sera a Roma, per Sasà e Folias.

Mi sa che riparto dalla mescolanza, dalle frittate da realizzare, e dalle mille parole povere che mi faranno arrivare a cento persone nuove da conoscere, ascoltare. L’evoluzione dei pesci, canterebbe Gatti.

domenica 20 gennaio 2013

Flavio


 Flavio non ci vede quasi più, ma la sua barba bianca è la stessa di un tempo. Era il ’92, e Roma sonnecchiava dopo l’ubriacatura craxiana e stava in fremente attesa dei sindaci star. Nel quartiere tanti eroinomani che vagavano persi tra furtarelli e studi medici. Flavio cercava di accoglierli tutti per poi accompagnarli alcuni al centro diurno che presiedeva, al tiburtino. Flavio e la moglie ci scelsero a me e a S., dopo un tirocinio esaltante, come operatori factotum del centro diurno. A me Flavio faceva l’effetto di uno che sta sempre lì davanti ad insegnarti le cose del mondo, della politica e della cura delle persone. L’unico medico che insieme allo sciroppo ti consigliava anche di leggere Dostoevskij.

Una  volta organizzammo un evento: musica dal sottosuolo. Una specie di reading di musicisti di strada, alla fine se ne presentarono solo un paio, uno venne pure con moglie e figli, andarono via felici dopo un revival rock&roll e mangiata di tramezzini, peperonata e pop corn a volontà. Nei giorni precedenti all’evento, lungo le banchine della metro ne avvicinammo almeno una decina di ‘sti musicisti, disponibili a partecipare alla cosa. Uno addirittura mi cantò, dedicandomela, “amico fragile”, alla stazione di piazza di Spagna. Ricordo che prima  dell’evento Flavio si adoperò per sistemare le sedie di plastica per il pubblico, nel salone del centro diurno.  Lui ogni cosa del genere la faceva assomigliare a una festa dell’Unità. Quel giorno declamò anche qualche poesia, in coda ai musicisti.

 

Flavio è timido. Eppure racconta molto di sé, del suo passato di ragazzo borghese che abita a Pietralata ma che frequenta il liceo dei preti, con ottimi voti. Che bazzica  Lotta continua e l’entourage colto di quella Roma stracciona coi portafogli gonfi, ma che cura anche i borgatari come se fosse il minimo che si possa fare, per riparare la contraddizione imbarazzante in essere. Il suo correre dalla città universitaria al monte del pecoraro assume, ai miei occhi di oggi, significato di un medicare disperato una ferita che non riesce a rimarginarsi con la sola retorica politica di quegli anni.

Nel suo studio Trosky giganteggia sfidando un presente vendoliano, perché non c’è di meglio, ammette dolente toccandosi la barba morbida. Ascolta Flavio, e lo sa fare benissimo. Ragiona e ragiona per risolvere un postulato di Euclide, racconta e mi dice che in passato, mentre stava a tavola con gli amici, a volte si distraeva pensando alle poesie da scrivere, oggi, invece, pensa al postulato di Euclide. Eppure ti ascolta: ti mischia con le poesie e i postulati, diventi un’opera d’arte e nemmeno lo sai. Quando stai con Flavio.

Il tempo scopre la verità, diceva Seneca, e dargli torto è difficile. Sto scoprendo le occasioni perse, le titubanze inutili e dannose, e le fughe verso bucoliche salvezze, di quelle che mi spingevano verso la Novità, be’, quelle a volte erano soltanto vecchie carogne truccate. Bastava andare da Flavio, forse, e ascoltarlo e farsi ascoltare, per proseguire magari lo stesso a zig e zag tra pensieri e azioni, ma, almeno, non partecipare ostinatamente al solito gioco dell’oca piagnone.

 

Flavio per me rappresenta ancora il sogno romano: affermarsi dentro a un paesone immondo e accogliente, che aspetta la tua performance e se le dai buca poi ti sputa in faccia il fango, quello pasoliniano, e quello dei miseri miti che ancora si sforzano di indicarci strade sbagliate, bagnate di sangue e sudore; per me l’autentico assomiglia sempre di più alla faccia di Flavio e alla sua ferita nascosta dalla bianca barba. Tuffarsi nel mondo e nuotare con le proprie esili braccia, questo mi ripeto ogni mattina da quando ho abbattuto quasi tutti i miti morenti. Tranne Flavio, che cammina accanto a me.

 

giovedì 17 gennaio 2013

eccomi


Ecco chi sono! Lo dichiaro ora dopo circa due anni che gestisco questo blog, che pare mio, ma, in realtà, è una scatola lunga e profonda che funge da deposito sentimentale per tante cose di questo tempo. Mi chiamo Peppe, vivo a Roma e faccio l’educatore. Faccio, nel senso che questo risulta davvero nella mia busta paga, poiché, a dirla tutta, siamo un po’ tutti educatori in senso lato, no? Ma non tutti hanno il coraggio di farsi pagare… In questa scatola confesso le mie pene, aggiusto i miei sentimenti e spalanco le porte agli altri, sia nel mostrare i loro blog che accogliendo i loro pezzi, commenti e suggerimenti. Quello che più mi ha colpito è stato quello di un abitante del tiburtino III che mi voleva menare, per via di come avevo trattato quelli del tiburtino in un raccontello.

Non l’ho detto a tutti i miei amici della vita del blog, un po’ perché me ne vergogno e un po’, che è l’altra faccia della vergogna, per vanità. Scoprimi e farò il sorpreso, amami e ti amerò: tristezze prodotte dalla mia vita metropolitana, oltre che da tare affettuosamente incollate al mio carattere.

Molti confondono gli intenti, per primo io, così mi ritrovo a controllare le statistiche delle visualizzazioni come forse faceva Vasco Rossi nel controllare se stava nella top ten dell'hit parade, all’inizio degli anni ottanta. La quantità fa il valore? o fa il veleno?

Comunque, a me viene da scrivere queste cose, senza sapere davvero il perché, come qui di seguito : una domenica mattina ho fatto outing dichiarando la mia resa all’emotività. Così tutti sapevano, ma niente cambiava. Al discount tra gli scaffali speravo di non riconoscere nessuno, dopo, una volta arrivato a casa, che tutti avessero rinunciato al nostro invito a pranzo. Volevo restare solo e pensare a una via d’uscita, e che coincidesse magari con l’uscita di sicurezza del discount. Tra farine e biscotti mi ricordo di aver scaricato, quella stessa mattina, la Canzone dei Baustelle che mi aveva scosso il giorno prima, già il pensiero di riascoltarla mi rianima: dentro quella canzone ci sono le parole che aspettavo. La sofferenza non eccessiva veniva cantata, come qualcosa di vivo dentro le nostre giornate, come un cancro benigno che ti accompagna fino alla vecchiaia,  per poi comparire l’ultimo giorno: ti bacia e non lo vedi più.

Quel giorno avrei fatto mettere in cerchio tutti i miei amici per parlare di noi, di quello che siamo diventati. Di come la berlusconizzazione ci abbia investito come un naturale innalzamento delle acque del mediterraneo, cui si ricorre con metodi blandi e inconcludenti. Ma chi siamo, e cosa pensiamo in macchina prima di arrivare nei nostri minacciosi posti di lavoro?
 
Da tempo seguo solo scrittori, pensatori, cantanti, amici, che mischiano con grazia e impegno i sentimenti alla ragione, utilizzando il contenuto come stella cometa. Il resto del groviglio social-politico-cultural non mi appassiona più, il passato dorato mi disturba quanto l'ipocrisia e la bontà ormai mi pare che sia il tappeto dove far esprimere le migliori cattiverie a certi tipi un po' all'antica e un po' coglioni. E tutti ridono.

Ecco la canzone, eccole le parole che mi appassionano ancora.
 

venerdì 11 gennaio 2013

parabola nevrotica n°3


Fiori non ce ne sono là fuori, e nemmeno una zia con il sorriso. Là fuori c’è una mazza pronta a colpirti, in faccia, e magari subito dopo anche sulle tue chiappe in fuga.

 No! Ma non è che sei preoccupato per quella previsione stramba del mago che diceva che avresti avuto un brutto incidente d’auto a quarantatré anni? Stavate per chiudere il bar e quello si è messo a fare il misterioso, con discorsi articolati, racconti senza né capa né coda e infine, seduto su quel tavolino stretto, chiede di leggere la mano.  Era un italoamericano con la panza, in vacanza, con la smania di infondere suspense su tutta la costiera occidentale. Quella notte vi siete quasi abbracciati tu e Stefano, mentre velocemente rientravate nelle vostre case, risucchiati dai vicoli bui. Il giorno dopo avevate gli occhi gonfi e il bar di nuovo in funzione, con le vecchiette arrapate che vi sorridevano col sale sulla pelle squamata. C’era quella di novant’anni che beveva whisky canadese di nascosto; lo faceva prima dei balli di gruppo e che coincideva, chissà perché, alla scena dove stavi tu in primo piano che speravi di baciare quella ragazza di Pavia. Che poi mica era proprio ‘na bellezza, a pensarci era anche un po’ gatta morta, ma aveva quel bell’accento del nord… Ah! Quell’estate del novanta, che tutto fece rotolare in settembre, per poi girarti le spalle all’improvviso come bimba dispettosa cui daresti una carezza, ma la notte, mentre dorme, perché di giorno ti fa solo incazzare. L’estate del novanta.

Be’, mica stai pensando al mago? Ricordati che la sua panza era piena di spaghetti alle vongole veraci. E di vino bianco frizzante, quello era tutto pieno di benessere e sparava cazzate per farsi notare, e magari per acquisire quello sprint adrenalinico per assediare la moglie bionda d’estate, già ronfante nella stanza vista mare.

Vi lesse la mano, la tua prometteva poco. E allora?

Lascia stare il mago.

Lascia stare il Capo.

Chiedi in prestito un sogno. Gli interessi cascate di risate, da donare d’estate.

 

Questo per provare a spiegare che ho passato una settimana di paure inconfessabili, e che il mago, con le sue sventure a buon mercato, ora, mi appare quasi un amico al confronto delle tuonate potenti del Capo. Del grosso uomo rosso di cuore burocratico. Che noia, e quante argomentazioni seriose e inutili per la mia impotenza d’animo. In fondo volevo essere risarcito con le parole, curato con l’interesse, e vegliato dagli incubi dei maghi. Mica volevo un milione di euro o un intero edificio, a Capo, sarò confusionario e un po’ emotivo, mica scemo e senza cuore. Da una vita che aspetto fratelli maggiori a tempo pieno e tranquillità, e non di certo guerre e benzodiazepine a volontà. La mia sfacciataggine profumava di cose semplici e dirette, come certe canzoni leggere. Lui, invece, tromboni e ottoni per far sprofondare la vita a livello della morte: e che decidi tu quando ridere, sfottere e fare paternali lunghe tutta l’autostrada del sole? E dài, siediti, che mo’ ti racconto una storia di uomini che sbandano, e che bevono latte freddo alle cinque di pomeriggio e mandano mail a mezzanotte. Parlano con le femmine perché hanno interrotto il discorso con le sorelle, e questo non si fa, fratello, devi continuare a parlarle fino a capire il perché di quelle fughe la notte, di casa in casa, di zia in zia, a cercare la serenità almeno per quella di notte. Avevi dodici anni, e in quel budello di via nera, capivi che avresti avuto la nausea come sola amica del cuore.

martedì 1 gennaio 2013

Sofia






Ci sono dei libri che la notte viaggiano paralleli alle nostre vite, nel silenzio, accanto  al pozzo nero dei nostri pensieri. E capisci che tutto sta sbandando: il tuo corpo e i tuoi sentimenti stanno per essere sbattuti a terra da un racconto.

In “Sofia si veste sempre di nero”, Paolo Cognetti illumina i personaggi con una luce di taglio e li rendi veri. Quindi, irrequieti dai capelli ai piedi, passando da quel nocciolo minuscolo che sputa fuori vari sentimenti. C’è poco da fare, un racconto riuscito poggia su di un’architettura che, seppur fragile e vago (volutamente) nei contenuti, esprime al contempo una forma solida e convincente durante tutto il libro, dove i pesi e i contrappesi stanno nelle azioni dei personaggi, e nella descrizione di stanze e paesaggi che abitano. E allora non servono più le belle parole, né le descrizioni minuziose - tanto meno le frasi a effetto - per creare un bel racconto. Eh no, e lo sapevo già questo, ma poi, quando leggi di un fiato e ne godi di questa lettura, allora capisci davvero quello che ti hanno spiegato già cento volte ai corsi, alle conferenze, al bar.

In questo libro i personaggi sono impressionanti. Restano dentro, e continuano a dialogare nella stanza della lettura così come in bagno, o a pranzo, con gli altri che si arrabbiano per la tua ennesima distrazione astrale. Scusate, ma prendetevela con Cognetti e con la sua Sofia. Stavolta.

Mi viene  voglia di scrivere che si tratta di uno dei migliori racconti che ho letto sulla Storia dello Stivale dagli anni settanta a oggi. Forse lo è davvero, ma tutta quest’arroganza nel giudicare e far competere tra loro i libri, non si sposa con il tono democratico del libro in questione. Sì, perché in questo racconto i personaggi nella storia si mostrano sempre dignitosi nel loro stare al mondo. Per esempio, una Sofia Muratore, in altri libri o film, apparirebbe una stronzetta di cui t’innamori comunque per forza di cose, ma che non riesci a stimare davvero e, in fondo, non riesci ad amare. Invece qui dentro la segui e provi a comprenderla; oppure, anche se ti sfugge e cerchi di rincorrerla col fiatone preoccupato, non vorresti mai abbandonarla per sempre. Questo accade, forse, poiché lo scrittore vive bene coi suoi personaggi, e ci lascia intendere che non potrebbe fare altrimenti, e quindi non potrebbe mai scegliere di far vivere nei suoi racconti gentaglia qualunque…oppure, perché i personaggi e i paesaggi, non sono statici, alla Sander, ma partecipano con il loro inquieto movimento, fino ad  aprire una scena ancora più ampia in cui recitare la propria parte fino in fondo, senza risparmiarsi neppure per un secondo. Così nell’ultimo capitolo dove il narratore si svela e che, entrando in scena all’improvviso, non va a rovinare il complesso mosaico del romanzo breve, anzi, ti pare che questo equilibrio sia dato proprio dagli annunci e dalle anticipazioni, durante la lettura, che non rivelano nulla: tutto si auto-arricchisce come nelle migliori lievitazioni di un buon dolce.

Il personaggio della Zia, Marta, altrimenti si offende, racchiude, nelle sue interazioni, uno spaccato che da tempo aspettavo venisse raccontato senza pregiudizi o lodi sproporzionate: le scorie e i germogli degli anni settanta.

Infine, mi preme ricordare di quanto la descrizione del villaggio Lagobello mi abbia emozionato, e fattomi partecipe di certe scelte casuali, esistenziali, che si fanno in momenti cruciali e che poi vanno a produrre storia, racconti, non sempre banali, di persone e comunità, e nel farlo non utilizza per forza gli strumenti della sociologia pelosa che usano certi narratori incattiviti a furia di vivere al centro.

Insomma, questo libro mi è piaciuto e credo che contenga una forza misteriosa come certe bellezze, che sanno di abitudine e rovina: l’ideale per conservarlo nel frigo disordinato della nostra memoria, e poi all’improvviso tirarlo fuori insieme a birre fresche da bere con gli amici, d’estate, sotto verande surriscaldate. E nei commenti infervorati metterci un po’ di noi, che siamo quei lettori, spettatori, alla ricerca dei personaggi ideali, cui affidare la rappresentazione migliore di questo nostro tempo incerto.