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domenica 18 marzo 2018

il mio libro come

 
Mentre sto per scrivere questa cosa qui, alle 5.50 di domenica, mi lascio distrarre dal celestino e dal rosa che stanno dentro alla mia finestra. Mi sono svegliato alle 5.30 insieme a un’ansia scema, e il primo pensiero è stato quello di aver buttato in fretta dentro un tweet un resoconto di Libri Come, troppo ruffianamente onesto. Come se il mondo si aspetti da me un resoconto di Libri Come, prima dell’alba. Io non so perché vado alle fiere-feste del libro. E ogni volta che ci vado poi rimango turbato, e se sto in macchina mi metto a cantare per far uscire dal finestrino quel turbamento. Se sto in metro mi metto a fissare gli altri pensando a come mi vedono loro, che intanto non possono guardarmi ché li sto fissando io.  Stavolta mi ha chiamato Sonia per fortuna, ma per sua sfortuna, ché già era raffreddata, si è dovuta sorbire in anteprima il mio resoconto.

  Accompagnando tra un incontro e l’altro un’amica scrittrice, almeno ho capito perché ha senso per lei venire qui. E’ bastato osservare le tante persone che salutava, da quello che si dicevano, eccetera. È il suo amato mestiere che la spinge a frequentare questi luoghi. Così, pur di non pensarci mi metto a contemplare le tante donne, presunte lettrici fortissime, che si muovono freneticamente, tutte vestite bene, con un’aria di quelle che hanno letto troppo, e che sarebbe ora di godersela un po’ quell’aria stantia che hanno respirato durante il lungo inverno di piedi freddi e libri sul comodino. Poi ci sono gli uomini, che a me sembrano tutti scrittori, me compreso, con quella loro aria sbuffante e che si guardano continuamente le scarpe, o si sistemano le barbe, e forse sperano di essere notati almeno dalle sparute lettrici deboli. Sì, anche dopo questa disamina “alla costume e società”, non ho avuto il coraggio di ammettere cosa ci faccio io qui, tra di loro. Bah!
 Sono stato a Libri Come anche per vedere come leggeva Paolo Nori certe pagine di un suo libro. Mentre lo ascoltavo avevo gli occhi rivolti verso l’enorme vetrata che ci separava dal mondo che provavo a raccontare qualche riga fa. Da lì continuavo a vedere sfilare uomini e donne che si sistemavano le giacche, e alcuni di loro si lasciavano pure intervistare: tutti avevano l’aria di aspettare qualcuno in quel muoversi guardinghi di agitazione benigna. Anch’io mi sarei mosso così, e questa scena forse potrebbe spiegare il mio: che ci faccio qui? Erano loro i pesci nell’acquario oppure lo ero io per loro? Finalmente ha risolto tutto il crescendo della lettura di Paolo Nori che, passando dalla Mastrocola a Chomsky, da Rodari a Vonnegut, passando per Tolstoj è giunto a delle piane parole sull’amore. Avevo già la prima lacrima pronta a scendere sulla terra, quando Paolo Nori anticipandomi ne ha cacciate fuori dagli occhi un po’, cambiando anche il tono della voce. Queste sue belle lacrime che gli sono uscite fuori davanti a tutti noi, alla fine della lettura, forse meritavano un abbraccio, invece noi l’abbiamo solo applaudito. Ecco, in quel preciso istante ho capito perché mi trovassi lì: perché la letteratura arriva dove arrivano solo poche cose. Forse come l’amore, senz’altro anche come il dolore.
 Io sto aspettando le parole da circa trent’anni, per raccontare la storia che fa su e giù dentro di me, ma non riescono a uscire fuori del tutto. Sicuro le parole non le troverò in posti così, dove vengo a fingere di non aver nulla a che fare con quel mondo che si aggiusta le giacche e si osserva le scarpe nei corridoi di Libri come. Forse stanno aspettando anche loro, stiamo tutti aspettando qualcosa o l'amore.
Ecco, Libri Come è stata un’altra fermata, un altro stop, un altro blocco che si aggiunge a tutti gli altri che frenano le mie parole impazienti da millenni.
Allora la novità di questo mio Libri Come sa di lacrime e dopobarba.

sabato 17 marzo 2018

Degli adolescenti non sappiamo niente

 Quando lavoravo al Telefono Azzurro arrivò un bimbo che era nato appena cinque giorni prima di te. Avevi cinque mesi e una volta o due alla settimana io facevo il turno di notte lì al lavoro. Questo bimbo mi cercava sempre, era in affidamento con la sorellina da noi, la madre ogni veniva a trovarlo con il suo carico di disperazione sulle spalle. A me rispondeva con larghi sorrisi quando gli porgevo il biberon pieno di latte e biscotti. Poi tornavo a casa e c’eri tu, già sfamato che aspettavi sorrisi, e sguardi sicuri. Mentre mamma andava al lavoro e ti baciava sulla guancia cicciottella. Erano anni belli e spietati per noi. Era il 2001. In questi mesi per un altro lavoro seguo un ragazzo che sta lasciando la scuola, per una serie di disastri emotivi che lo assediano laggiù a Bastogi. Anche lui ascolta rap per scacciare un suo presente fetente. Anche tu mi dici che a scuola ti senti fuori luogo, che la trovi inutile e che pensi ci sia un altro modo di imparare. Allora io scappo in bagno a piangere con la disperazione che sale in gola. Forse sento di non averti sostenuto abbastanza quando certi professori scambiavano la tua insicurezza per arroganza, o la tua viva sensibilità in timidezza o semplice bontà. Così mi capita che dentro al bagno mi spavento e me ne resto tutto il tempo a fissare la finestra smerigliata, mentre tu nel frattempo al piano di sotto fai rimbalzare la palletta di basket sul laminato anticato, prima della schiacciata.
Il mio lavoro è un insieme di aiuto-ascolto-sostegno, e il mio essere padre si è indebolito proprio da quelle parti là della mente. Stava diventando un pantano la nostra relazione, eppure io ci scorgevo sempre un fiorellino, una cartaccia colorata che galleggiava. Quando mi dici: ma per chi mi hai preso? dopo che anticipo con parole sdentate certe tue risposte, ecco, figlio, in quella tua domanda affoga il mio fallimento, mentre riemerge piano piano la tua voglia di esserci. Sarei disposto ad accettare questo mio fallimento fradicio in cambio di un tuo allontanamento drastico da me? solo per vederti sano e salvo? Ma perché tutto questo dilianarsi in tempo di pace?
  In questi giorni di parole spese vanamente per convincere il ragazzo di Bastogi a continuare con la scuola, sì, proprio in questi giorni mi sono arreso al tuo non volerci andare più a scuola. Hai deciso di recuperare le forze a furia di canzoni e concerti. Questo tuo sbloccarti all’incontrario mi preoccupa, anche se pare illumini un po’ meglio I tuoi occhi, la tua cameretta, le tue parole profumate. Io ti sto sempre accanto, e osservo ogni tuo mutevole battito di ciglia, ogni tuo nuovo largo sorriso a tavola, e ascolto rilassato ogni tua battuta insperata che mi diverte e mi fa pensare che non sono ancora da buttare come padre, come ascoltatore. Sono anche un padre da abbracciare in una notte di pianti violenti, in auto, sotto ai carpini spogli, poco prima di mangiare quei cornetti buonissimi al bar sempre aperto.
 Quella saggia persona che ti sta aiutando sta aiutando anche noi, e lo capisco quando a tavola ridiamo e parliamo come non facevamo da mesi. Mentre penso a questo nostro periodo scombinato dentro qualcosa ancora trema, eppure quando sto tra di voi rido senza più quel vecchio isterismo che in passato rovinava quei momenti, e faceva sbattere porte, occhi e bicchieri sopra le nostre parole. Sto imparando a trattenermi, a tirare fuori solo quello che vale la pena esibire, quindi, scrollandomi di dosso la falsa modestia, racconto anche i miei piccoli grandi successi: lo sai che sono tra i vincitori di un piccolo premio letterario? Sapete che oggi ho calmato un bimbo indiavolato, e gli ho fatto tornare il sorriso a furia di giocare coi trenini? Vedeste che sorrisi mi ha fatto dopo. Farò così, condividerò mille altre cose belle con voi. Purtroppo in questi anni ho condiviso con voi troppe frustrazioni lavorative, antiche tristezze famigliari, anche se a volte cercavo di bilanciare con un umorismo asfissiante. Strano, ma in questa fase della mia vita mi sento forte, e benedico la mia tenacia di non aver ceduto lungo le strade degli amati perdenti, dove mi ero perso anch’io, sì, ma senza disperdere del tutto l’amore per la mia storia. Oggi ho messo la camicia amaranto, ché devo farmi trovare pronto e bello quando avrete bisogno della mia forza, del mio splendore: sto mettendo da parte il meglio per voi.
 Oggi tuo fratello ci ha detto che a lui piacciono le persone speciali e un po’ sfigate. Lo diceva mentre si pensava a come impostare il tema su Wonder, e allora ci siamo ricordati di quel suo compagno autistico che lo salutò con un affetto smisurato al boowling, incontrato lì per caso un sabato pomeriggio. Oggi quando gli ho detto di seguire quel ragazzino col tumore che vuole diventare youtuber, oltre a seguirlo immediatamente, nella sua faccia è comparso quello sguardo un po’ da santo che ha fatto gravitate i suoi occhi enormi intorno al suo letto a soppalco. Lo stesso sguardo che avevo io alla sua età, quando me ne stavo stretto stretto nelle coperte.
 Figli miei arrendiamoci ad essere così, un po’ fuori luogo ma sempre affamati di voler conoscere persone strambe, persone che ci somigliano nei sentimenti e che magari allo stesso tempo possono sembrarci anche diversissime da noi. Cerchiamo di capire gli altri ascoltandoli fino a notte fonda, o assecondarli nei loro tormenti per poi abbracciarli senza stringerli troppo: amarli anche quando ci voltano le spalle o non capiscono fino in fondo i nostri drammi. Diamogli tempo, e diamoci tempo anche noi, in questi tempi incerti e magri di sogni. Seppelliamo una volta per tutte le asce e i rancori sotto al nostro generoso e splendido melograno. E ridiamo con tutti i denti di fuori.



venerdì 2 marzo 2018

A scuola non ci vado più

Oggi non ci vado a scuola. No, me ne sto in giro, prendo l’autobus e faccio capolinea-capolinea. Voglio vedere le facce di chi non sta a scuola mentre io dovrei esserci. A me piacciono le facce delle persone sconosciute, a me piace riconoscere quello che pensano. Poi voglio mangiare un cornetto gigante con la panna, al bar Zurich. A scuola i professori sono frettolosi, pensano o alla prossima campanella o a come inchiodarti. Una volta quella di matematica mi ha fatto andare alla cattedra, ma solo per far vedere a tutti che brutti denti avevo: perché tua madre non ti compra l’apparecchio? E giù tutti a ridere. Una volta un’altra mi ha detto che stavo ai piedi di cristo, e forse aveva ragione: mia madre era appena stata dimessa dalla clinica. Un’altra, quella che si faceva portare la carne di prima scelta da un compagno di classe figlio di macellai, mi ha detto all’improvviso: ma tu sei scemo!

Insomma, io di certo non sono un genio, di certo non capisco Pitagora o l’inglese ma quando la maestra ci faceva trascrivere l’Eneide a me piaceva pure. Non ci capivo niente lo stesso, però era quel non capire niente che ti piace e che pensi prima o poi forse lo capirai. Ecco, a parte questi professori un po’ così, io resto sempre ottimista: sogno di diventare fotografo, poeta e pure contadino. Mia madre non chiede mai cosa voglio fare da grande, mentre mio padre mi fa fare già il grande, portandomi al lavoro con lui.
Di fatto stasera quando parlerò coi santi, io parlo coi santi prima di andare a dormire, gli chiederò di aiutarmi a scegliere una scuola fatta apposta per me. Io sono ottimista, e quando non vado a scuola voglio prendere l’autobus e fissare le persone sedute strette strette che guardano il mare come se guardassero il loro vecchio amore. Io non ho ancora un amore, così guardo loro che lo guardono, così imparo come si fa.
Domani forse ci andrò, o forse no, non riesco ancora a decidere. Chi mi aiuta a decidere? Quasi quasi lo chiedo a quella vecchina rugosa che sta sempre con quella busta di pane e mi sorride sempre, una volta mi ha fatto l’occhiolino e mi sono fatto tutto rosso. Domani mi faccio forte e glielo chiedo. Domani voglio imparare come si fa a parlare con gli sconosciuti.
(marzo ‘85)