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lunedì 3 ottobre 2016

La gatta e la mia passata santità

   
   Mi ricordo quelle aule pregne di santità, di crocerossismo, di ingenuità. Di futuro colorato, per come avremmo seminato la bontà in giro per il mondo. Io tra loro ero solo più timido, ma avevo la stessa tenacia di credersi nel giusto, sempre, e solo sventolando il più possibile in giro certi valori comuni, alla moda di allora. Ebbene, mi laureavo educatore professionale negli anni buoni, in compagnia di mio figlio di un anno e di numerosi amici che sembravano tanti fratelli, per la vicinanza d’intenti e di ideali. Erano gli anni del primo biologico e degli ultimi comunisti. Io tra loro timido cercavo una via tutta mia, ma quanta fatica, quanta paura di rimanere solo in mezzo a tanto affetto. Così sono rimasto con loro, così mi sono fermato e ho aspettato il tempo che reale, duro e selvaggio poi ha scudisciato ogni ipocrisia tra di noi. Qualcosa è rimasto, tra gli affetti e i fratelli, facendo in modo che facessi mea culpa di tanta santità esibita, a dispetto di gelosie e possessioni che rosicchiavano tutte le notti i miei beati pensieri.
   Mi sono arreso in una mattina bianca di panico, accanto alla stazione Termini e a un senegalese sorridente che voleva rifilarmi un bongo. Gli sorrido e poi di colpo crollo sulla panchina preso da contorcimento e spavento. Così, tirando fuori ogni mia timida spocchiosa superiorità, l’indomani comincio a leggere Pascale e Roth. Volevo anche imparare l’inglese, niente, dovrò aspettare per quello.
  Oggi continuo a lavorare nel sociale ma lavorando come se non ci lavorassi: no, non è burn-out cara amica psicologa. Neppure cinismo, amica mia buona quanto una ciambella zuccherosa, la verità è che sono stanco, squattrinato e spettinato dagli anni. Ma non odio quasi nessuno, tanto meno invidio gli altri che si godono benefit, giovani donne e mamme che gli rammendano i calzini (cit.). Mi accuccio in società e osservo: specchi e vagoni dove transitano i miei pensieri stretti ai vostri silenzi. Poi, per il resto, non ho mai sentito meglio la vita come in questo tempo mediocre.
Ah che stranezza soffrire per una gatta investita, dopo che da piccolo in campagna ne ho viste maltrattare a decine, o addirittura affogare quando ne nascevano troppe.
Sono migliorato negli ultimi anni cari parenti miei, anche se voi avevate pronosticato il mio fallimento prima dei diciotto anni. Vi avevo anche creduto, e mi sono prodigato nell’andare male a scuola, abbandonare ogni luogo e lavoro dove avrei potuto migliorare la mia condizione. Così è stato fino a quel crollo davanti alla stazione: accanto avevo il saio rosso da santo ridotto a straccio da piedi, per la gioia degli ultimi amici terzomondisti. Un urlo alla Stratos dei Ribelli ha chiuso ogni speranza di peggiorare, spaventando il senegalese e il tassista appisolato.
Così oggi spendo orgoglioso gli ultimi averi per guarire una gatta dispettosa e affettuosa che ogni mattina all’alba con la zampetta mi sfiora la faccia come a dire “aprimi la finestra, per favore”.


Così ci siamo ritrovati in auto a tormentarci per cinquanta chilometri sul da farsi: farla operare o no? L’hanno investita davanti casa e stava in condizioni critiche. I figli piangevano, e i preventivi per l’operazione mi piegavano le gambe, così prima di arrivare in clinica abbiamo deciso che finiva lì. Poi la veterinaria ci ha convinti che valeva la pena, e A. e S. ci hanno sostenuto, ma soprattutto ciò che ci ha scosso e spinti a provarci è stato quel suo sollevare lieve la testolina al mio fischiettare. C’era, e noi con lei.
Oggi non sta bene la gatta, io per un'oretta l'ho accarezzata, fischiettando il solito richiamo, ma poi il tempo delle visite è terminato. Oggi è San Francesco, e me l'ha ricordato la radio.

Poi la gatta è morta. L'intervento l'ha superato ma probabilmente non andava fatto, ci rimane dentro questo inganno sottile subito, e una poltrona vuota da contemplare. Intanto il letto del Melograno l'ha ospita e un ciclamino la nasconde. Che stranezze sentimentali mi dovevano capitare in questo tempo nostro.